Lunedì, 07 Ottobre 2024

Backstage: Don Carlo a Berlino - di Vittorio Mascherpa

Aggiunto il 22 Maggio, 2014

Direzione d'orchestra: Massimo Zanetti
Regia: Philipp Himmelmann
Scene: Johannes Leiacker
Costumi: Klaus Bruns
Luci: Davy Cunningham
Maestro del coro: Martin Wright

Filippo II: René Pape/ Orlin Anastàssov
Don Carlo: Gaston Rivero
Rodrigo: Alfredo Daza
Il Grande Inquisitore: Rafal Siwek
Un Monaco: Jan Martiník
Elisabetta: Anna Samuil
Eboli: Marina Prudenskaya
Tebaldo: Sónia Grané
Voce dal Cielo: Adriane Queiroz
Il Conte di Lerma | Un Araldo: Stephen Chambers

La messinscena del Don Carlo verdiano (versione 1884) con la regia di Philipp Himmelmann, varata nel giugno 2004 alla Lindenoper e da allora ripresa piú volte, torna in questi giorni nella sede provvisoria dello Schillertheater in Bimarckstraße. Ho assistito allo spettacolo di domenica 18 maggio, il primo di questa serie.

Secondo una pratica abbastanza frequente nel Regietheater applicato all'opera, questa messinscena rianda con attenzione alcuni aspetti del pre-testo, sebbene caduti nella riduzione librettistica. Qui vengono sottolineati fortemente il carattere di storia famigliare, che Schiller aveva evidenziato in un sottotitolo del suo poema drammatico, e la correlata relazione Filippo-Eboli, sulle cui circostanze il drammaturgo tedesco si sofferma molto di piú che Verdi, anticipando alla lettera anche alcuni passi del colloquio musorgskiano Rangoni-Marina. Tratto caratteristico di Regietheater è l'attribuzione alla Eboli e alle dame del suo entourage d'un ruolo violento, tra guardie del corpo e servizio segreto: ne fa ambiguamente le spese l'indifeso paggio Tebaldo.

La regia di Himmelmann s'avvale dell'impianto scenico di Johannes Leiacker, dei costumi di Klaus Bruns e delleluci di Davy Cunningham; l'assenza dalla locandina del nome del Dramaturg mi sembra si possa interpretare nel senso che il regista ha svolto anche le funzioni di questa figura tipica dell'ambiente culturale tedesco, in cui «a partire dal Settecento indica lo scrittore che lavora stabilmente in una compagnia o in un teatro alla rielaborazione o alla creazione dei testi da rappresentare» (Treccani.it). Rivista per la terza o la quarta volta, la regia m'è piaciuta anche piú che nelle occasioni precedenti.

Gli elementi scenici predisposti da Leiacker si riducono a un lunga tavola, collocata parallelamente al proscenio a qualche metro da questo, e a un sipario di mezzo fondo apribile sia "a rettangolo variabile", sia a "pannelli mobili". S'aggiungono un certo numero di sedie e, per il quadro dell'auto da fé, quattro robusti cànapi da supplizio (credo ben oltre i 500 kg di carico di rottura previsti dal Don Gonzalo gaddiano per gli straforzini a cui avrebbe volentieri appeso i parassiti della propria madre...).

La tavola è quindi, di fatto, l'unico e onnipresente elemento scenico. Ad apertura di sipario, la royal family, con la Eboli contrapposta a Don Carlo sui lati corti, Filippo ed Elisabetta frontali, vi siede privatamente per la prima colazione; il rito prandiale diviene pubblico nel quadro dell'auto da fé, quando Filippo esibisce anche una maggiore confidenza con la Eboli e tutti, tranne un don Carlo piú agitato che mai ma compesi i cortigiani ammessi ad assistere al souper des rois, siedono impassibili davanti ai corpi ignudi e martoriati delle vittime dell'Inquisizione, cosparsi di liquido infiammabile e alla fine issati dondolando a testa in giù ben sopra il piano del palcoscenico. Don Carlo appare costantemente disadattato; il suo cattivo stare a tavola sembra nascere da una commistione tra disagio psichico e consapevole volontà d'infastidire l'augusto genitore. Molti i tratti in debito con Luchino Visconti (penso alla Caduta degliDei e anche allo smoking estivo indossato da Rodrigo nella sua messincena romana del Don Carlo) e Patrice Chéreau (i dapiferi mi riportano immediatamente alla memoria quelli di Lulu,II.1), ma Himmelmann è bravissimo nel farli propri. Ancora a tavola alla conclusione dell'opera: eliminati in diverso modo i due giovani, il Grande Inquisitore prende il posto dell'Infante e invita Elisabetta a mescergli il caffè. Anche in tutto il resto dello spettacolo, che dura poco meno di tre ore e mezza con un solo intervallo dopo l'auto da fé, la tavola svolge sempre un ruolo di primo piano: nel quadro "del giardino", da cui scompare il carattere di luminosa oasi previsto dal libretto e tipico di molte regie "tradizionali", Tebaldo in livrea di lacchè si riduce a stirarvi i panni di casa dopo essere stato stuzzicato e deluso dalla Eboli durante la Canzone del Velo; poi Elisabetta, imbarazzata dalla vicinanza di don Carlo, vi si trastulla con il ferro da stiro lasciato dal paggio; nell'ultimo atto è testimone di qualche tardiva e adolescenziale effusione d'addio tra il tenore e il soprano, seduto al suo solito posto. Ma l'uso piú notevole è all'inizio del terz'atto, quando Filippo si leva di tra la Eboli sdraiata su esso, cosí che la frase d'attacco («Ella giammai m'amò») della sua grande scena risulta potenzialmente riferita tanto all'amante quanto alla moglie.

Eleganti e ben diversificati i costumi "anni Cinquanta" indossati dai personaggi; cosí ben condotta l'illuminazione che non la si nota. Sullo sfondo i personaggi di contorno non direttamente coinvolti nell'azione vengono via via mostrati e nascosti da abili usi dei sipario di mezzo fondo.

Tutto questo avvince molto lo spettatore, ma finisce indubbiamente per privilegiare l'aspetto privato del dramma ripetto a quello politico fondamentale in quest'opera: anche il giuramento di vendetta di don Carlo non avviene a spada sguainata, ma, coerentemente con la situazione conviviale, portando al collodi Filippo un coltello preso da tavola, à la manière de la Floria Tòsca. Impossibile non rilevare, per uno spettatore italiano, che lo spettacolo, arrivato domenica 18 alla sua quarantesima rappresentazione in dieci anni, non ha perso né in precisione né di freschezza nonostante gl'interpreti siano ormai quasi tutti cambiati (salvo ovviamente Adriane Queiroz, l'immarcescibile specialista della Staatsoper Berlin per le "voci dall'alto": in questo caso interviene però a fianco delle vittime come una cantante da concerto, con tanto di leggio e spartito).

Uno spettacolo cosí fortemente caratterizzato patisce senza dubbio la debolezza drammatica d'una direzione musicale non brillante e orientata al lirismo. A Massimo Zanetti va comunque riconosciuto il merito di non avere reso bandistico il motivetto "dell'amicizia" e di non coprire mai il palcoscenico (annosa questione è peraltro quella della presenza dell'amplificazione al Teatro Schiller: mi limito a dire che, qualora davvero ci sia, funziona molto bene). Piú stravagante che originale direi il vistoso non legato del primo intervento del coro, ottimamente preparato da Martin Wright: non so come Verdi abbia scritto, ma a mio gusto un andamento quasi da congiura pre-quarantottesca non s'accorda né con la musica, né con le parole «Carlo il sommo imperatore, ecc.». L'orchestra è apparsa anche domenica un po' distratta, molto lontana dalla proverbiale eccellenza di primi anni di questo secolo (gran brutto, ad esempio, l'attacco iniziale dei corni; talvolta d'imprecisione "italiana" le trombe).

L'importanza che la direzione del teatro ha attribuito a questa ripresa si nota dal buon livello della compagnia, la cui punta di diamante m'è apparso il basso polacco Rafal Siwek: non lo conoscevo nonostante i numerosi impegni italiani già assolti; dopo avere cantato in altre occasioni Filippo, proprio domenica, se non mi sbaglio, ha debuttato il Grande Inquisitore. Non esito ad affermare che, dal vivo,è stato l’interprete del difficile ruolo che m'ha piú convinto dopo il remotissimo e purtroppo non documentato Ghiaúrov scaligero del dicembre 1960. Perentorietà vocale e ottimo controllo dell'emissione gli hanno consentito di tratteggiare un Inquisitore granitico, sempre in grado d'incutere timore al proprio regale antagonista. A mio gusto, Orlin Anastàssov ha reso un Filippo piú robusto che espressivo: anche le sue rare mezze voci sembrano piú assolvere un desiderio d'esibizione tecnica che esprimere sottigliezza drammatica, e monotono ho trovato il suo canto nel mirabile colloquio con Posa che conclude il prim'atto. Anna Samuil è stata una piú che dignitosa Elisabetta, però la voce non è di timbro molto attraente e mi permetto di dire che un «Compi l'opra» che unisca dovutamente vigoria e paura dell'ignoto non l'ho ancora sentito, in teatro, dopo l'Antonietta Stella di quella memorabile serata scaligera che segnò, per me quattrodicenne, l'iniziazione a quest'opera. Marina Prudenskaya ha assolto con correttezza le agilità della Canzone del Velo, ma la poca sontuosità e il limitato sex appeal della sua voce hanno finito per lasciare ad Alfredo Daza l'onore del maggior consenso a scena aperta: dopo l'aria di Rodrigo, accattivante ancorché sottilmente impropria nel contesto dell'opera, il pubblico, sempre ammirevolmente silenzioso durante l'esecuzione, s'è concesso un applauso quasi liberatorio. Un sottile velo di mestizia piú che di contenuta nobiltà m'è del resto sembrato ingrigire la lettura del personaggio offerta dal baritono messicano. Non conoscevo neppure il tenore uruguagio Gaston Rivero: dopo un inizio che m'aveva lasciato l'impressione d'una voce generosa ma non bene "appoggiata", ha offerto una prova in progresso, culminata in un ottimo e dolente duetto d'addio. Infine, il Frate di Jan Martiník non m'è sembrato possedere il carisma vocale e il vigore d'interprete necessari per rendere adeguatamente la sua breve ma significativa parte.

Secondo l'abitudine d'Oltralpe, dopo la chiusura del sipario gli applausi, contenutissimi durante l'esecuzione tranne che per Alfredo Daza, si sono mutati in consensi unanimi, discretamente intensi e prolungati per tutti gl'interpreti vocali; accolto con calda cortesia anche Massimo Zanetti.
Vittorio Mascherpa

Categoria: Backstage

 

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