Sacrificium di Cecilia Bartoli
Aggiunto il 28 Ottobre, 2009
L’evoluzione del “fenomeno” (perché di questo oggettivamente si tratta) Cecilia Bartoli ha portato la quarantatreenne cantante romana a pubblicare un disco molto intrigante che prende come spunto l’indignazione per la triste vicenda umana dei castrati. Cantanti meravigliosi e leggendari, hanno avuto il loro periodo d’oro fra XVI e XVII secolo quando il rispetto della norma di origine paolina che vietava il canto alle donne, aveva indotto a castrare alcuni giovinetti di bella voce in modo che potessero affrontare le parti che alle donne erano vietate. A quanto ci è dato capire, non era nulla di paragonabile all’emissione in falsetto di testa dell’uomo adulto (il moderno controtenore) che, per caratteristiche anatomo-fisiologiche, risultava completamente “spoggiato” sul fiato. No, era un suono molto più pieno, complesso, ricco di armonici e di percussività, difficile da capire ai giorni nostri se non – appunto – basandosi su voci femminili di particolare impasto. Nel film “Farinelli voce regina” del 1994 cercarono di ricreare l’incanto fondendo artificialmente la voce di un mezzosoprano con quella di un controtenore, nella fattispecie Ewa Malas-Godlewska and Derek Lee Ragin; esperimento arbitrario ma non privo di un certo suo fascino. È ovvio che questo tipo di operazione, se pure ha una sua logica in un film, perde totalmente fondamento in un contesto diverso come per esempio un disco, per registrare il quale bisogna ovviamente trovare un interprete che si avvicini il più possibile ad un modello ideale.
Allora la domanda successiva è: può Cecilia Bartoli appropriarsi del repertorio di un castrato? Per rispondere, partiamo come sempre da qualche presupposto fondamentale che ci aiuti ad inquadrare il prodotto e il fenomeno Bartoli:
1. da un po’ di tempo Madame Cecilia ha abituato appassionati e detrattori al recupero di materiale desueto. Aveva iniziato con il disco dedicato ad arie vivaldiane eseguite con un piglio ed un mordente che lasciò allibiti tutti coloro che non avevano considerato una dimensione così violenta nell’esecuzione delle opere del Prete Rosso. Poi conoscemmo Spinosi e l’Ensemble Mateus, ma fu quel disco - si era nel 1999 - ad aprire un orizzonte ancora sconosciuto. La cronologia parla chiaro: Spinosi incise il primo lavoro vocale vivaldiano nel 2003, ed era La verità in cimento; seguirono Orlando Furioso nel 2004 e Griselda nel 2006. Dobbiamo quindi attribuire a Cecilia Bartoli il ruolo di apripista nello stile esecutivo vivaldiano che per comodità chiameremo “graffiante”; le faceva compagnia ieri come oggi Giovanni Antonini con il suo Giardino Armonico, splendida compagine dal suono aspro e fiorito allo stesso tempo e con ben pochi rivali in questo particolare repertorio (oggi come oggi forse solo il già citato Ensemble Mateus di Spinosi; già Federico Maria Sardelli e il suo Modo Antiquo appartengono ad un altro universo estetico). Ci furono poi ovviamente gli altri dischi, ma quello di Vivaldi fu lo spartiacque: con quel disco finisce il bravo mezzosoprano ed inizia la Bartoli
2. a partire dal disco vivaldiano, la Bartoli ha fatto della coloratura spinta ad estremi virtuosistici vertiginosi un dato assolutamente estetizzante. Anche qui, ovviamente, questo aspetto viene estremizzato in un modo che, al primo ascolto, può sembrare addirittura esagerato anche perché corredato da effettacci come affanni, urletti orgasmici e rantoli; però la cifra tecnica c’è ed è eccelsa. Si potrà ironizzare sul modo particolare che ha la Bartoli di esporre la frase, ma la coloratura rapida è incredibile
3. la ricerca di repertori inesplorati e di brani sconosciuti da proporre in prima registrazione mondiale (qui ce n’è circa una decina) è praticamente ininterrotta. È probabile che questa sia una scelta complessivamente comoda perché non c’è possibilità di confronto, ma allo stesso tempo è anche una scelta rischiosa, soprattutto dal punto di vista commerciale, perché non è detto che il grande pubblico la segua sempre su questa strada, anche se dietro c’è la potenza manageriale della Decca
La vera trovata di questo disco è di dare ampio spazio alla storia dei castrati, alle speranze che le famiglie riponevano in questo atto barbarico che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto spianare al loro figliolo la strada di successi inenarrabili. In realtà, il denso fascicolo di accompagnamento (in francese, inglese e tedesco, purtroppo non in italiano) ci informa che questo era il destino di pochi fenomeni, i cui nomi – non è un caso – sono giunti sino alla nostra epoca circonfusi da un alone di gloria leggendaria. Gli altri si perdevano in una specie di mare magnum di cantori di coro e venivano presto dimenticati, alle prese con i danni di una mutilazione che non solo non aveva portato a loro successo né soldi, ma che li avrebbe menomati nella vita privata in modo definitivo. In appendice al libretto c’è anche un simpatico “Dizionario dei castrati” in cui si trovano un po’ di curiosità sull’argomento.
Ma, ovviamente, l’aspetto più rilevante di quest’operazione è quello vocale: la Bartoli alle prese con il repertorio che ama maggiormente. Ora, questo bel disco è una parata di arie d’opera veramente sconosciute. Alcune di esse sono autentici gioielli: mi riferisco in particolare a “Cadrò ma qual si mira” dalla “Berenice” di Francesco Araia, un delirio di saliscendi sull’ottovolante che porta la cantante, a partire più o meno dal minuto 4:56, a stare letteralmente in apnea per oltre trenta misure di coloratura ininterrotta. È il brano più spettacolare di tutto il disco e la Bartoli ci sguazza da par suo rendendo alla perfezione la cifra tecnica spaventosa e un filo meno bene il “furore”. Ormai lo sappiamo: la Bartoli che canta le arie di tempesta e di furore ha spesso la bava alla bocca e sembra sempre sopra le righe. C’è chi detesta questo aspetto e si basa su ciò per irriderla; se si vuole un campione di queste cattiverie, basta cercare su Youtube il video di “Anche il mar par che sommerga” (nel disco di arie vivaldiane era il brano più pirotecnico) e ci si potrà rendere conto dei livelli di abbruttimento cui un melomane può scendere pur di insultare un cantante che non rientra nei propri schemi mentali. È vero che la Bartoli ricorre durante la fonazione ad un campionario impressionante di smorfie, ma questo è proprio uno di quei casi in cui ci si dovrebbe limitare ad ammirare senza confini la cifra tecnica impressionante saltando altri aspetti più coreografici, come ci insegnano proprio gli stessi vociologi.
L’aspetto più malinconico dei brani riflessivi è reso molto bene, ma spesso sembra costruito artificiosamente e quindi risulta un po’ sgradevole, soprattutto per quelli che ormai sono abbastanza abituati a Cecilia e ai suoi trucchi per attirare l’attenzione dei suoi ascoltatori. Esemplare nella chiarificazione di questo aspetto è la traccia 4 che presenta un bellissimo brano – un’aria di partenza – di Nicola Porpora, e cioè “Parto, ti lascio o cara”.
Passiamo adesso alla questione più interessante: possiamo in definitiva pensare che la voce della Bartoli sia assimilabile a quella dei castrati?
È ovvio che rispondere a questa domanda sia pressoché impossibile, a meno di non voler considerare come paradigma quello che ci rimane di quest’arte, vale a dire le tracce incise fra il 1902 e il 1904 da Alessandro Moreschi; all’epoca il cantante, che probabilmente fu l’ultimo castrato della storia, aveva 46 anni ed una voce tremula oltre che nemmeno troppo fonogenica, ma in cui si apprezza il mezzo limpido e abbastanza svettante oltre che discretamente appoggiato sul fiato. L’intonazione è piuttosto precaria, ma gli acuti sono belli pieni. Manca – e non potrebbe essere altrimenti: fu solista della Cappella Sistina dal 1883 al 1913, quindi alle prese con un repertorio più “tranquillo” – tutto il coté funambolico dell’arte di questi favolosi cantanti. Ciò che abbiamo in questo disco è una voce piuttosto anfibia quanto a colore vocale, assolutamente trascendentale per quello che concerne la coloratura rapida, piuttosto stucchevole per colori e stilemi interpretativi. Non sarà magari una voce da castrato, ma la resa globale è veramente notevole e, soprattutto, non si riesce a pensare oggi ad un’altra cantante in grado di rendere in modo anche solo lontanamente paragonabile questi brani.
Completa il cofanetto un secondo disco che presenta solo tre brani, peraltro piuttosto famosi; di essi ci è piaciuto veramente il solo “Ombra mai fu”, ma è possibile che il nostro giudizio sia influenzato dalla bellezza trascendentale dei pezzi del primo disco.
Dell’accompagnamento di Antonini e della sua orchestra abbiamo già parzialmente detto: l’orchestra, fondata nel 1985, è ormai una delle compagini più importanti esistenti. Il suono è brillante, speziato, talora un po’ graffiante ma mai carente di intonazione. Antonini è accompagnatore fantasiosissimo e questo è un aspetto che ben si fonda con gli “isterismi” di Cecilia.
Registrazione di qualità superlativa