Love Duets di Ailyn Pérez e Stephen Costello
Aggiunto il 10 Giugno, 2017
Disco disastroso per due terzi, questo che ci rappresenta l’ex coppia nella vita Pérez-Costello. Lui ancora ancora: la voca non è male per impasto; gli acuti sono faticosi ma, sia pure per il rotto della cuffia ci sono; la pronuncia è disastrosa ma le intenzioni non sono malvagie. Sia chiaro: nulla giustifica la registrazione di Stephen Costello in un repertorio del genere, ma viene da pensare che visto in un teatro in una sera qualunque avrebbe la sua discreta ragion d’essere.
Chi è invece inascoltabile è lei. Voca pigolante, fiati estremamente problematici, espressività da tubero appena estratto dalla terra, spianamento delle agilità sia pure modeste nell’unico, breve spezzone di uno dei suoi nominali cavalli di battaglia, Violetta; e il primo che osa parlar male di Damrau o Netrebko lo scuoio con le mie mani.
Ci sarebbe da dire che questo disco – che presenta un titolo apotropaico ma ben poco profetico, visti gli esiti – cade esattamente nell’anno del divorzio fra i due. Costello dichiarò: “Divorce nearly killed my voice”. Per quello che si ascolta qui, c’è da credergli sulla parola.
I problemi iniziano già dal primo brano. Lui è solo ordinario, semplicemente seppellito dai troppi confronti testimoniati dal disco. Lei appare un disastro, letteralmente sovrastata da una partitura troppo sovradimensionata per le sue possibilità. Si considerino per esempio i fiati fuori ordinanza che si prende in “Oui je fuis cruelle et coupable” dopo “et”; e in “Lirai-je mon pardon un jour” dopo “pardon”: segno di scarsissima preparazione musicale o di forma davvero precaria. La scena della seduzione è molto demanding dal punto di vista interpretativo; ma dal punto di vista vocale non è certo il Cours de la Reine. Se già siamo messi così nella scena tecnicamente meno complessa, come si può pensare a una candidatura attendibile per il ruolo nella sua integrità? E tralasciamo appunto il già citato coté interpretativo: una frase come “Je me meurs à tes genoux”, sfruttata ai fini espressivi non solo dalla Favero (un anziano cantante mi diceva che la Favero “toglieva la carne di dosso nella scena del chiostro”) ma da tante altre cantanti non solo della sua epoca, è letteralmente buttata via con un’indifferenza a dir poco glaciale.
Il vibrato, in compenso, comincia a essere piuttosto fastidioso in una cantante tanto giovane.
Lui è appena meglio ma, come dicevo, ben poco interessante in un ruolo che ha visto cantanti molto più stilisticamente pertinenti in questo repertorio; e la voce è davvero corta.
I successivi brani d’opera si susseguono sulla stessa falsariga.
C’è un duetto delle ciliegie talmente palloso, glaciale e indifferente (oltre che cantato in pessimo italiano da entrambi: Costello raddoppia tutte le consonanti come la caricatura di uno yankee in vacanza nel Belpaese) da far rimpiangere non dico la coppia Tagliavini-Tassinari, ma persino Claudio Villa alla televisione con Rosanna Carteri.
Il duetto del Rigoletto li mette entrambi orribilmente alla frusta: è probabilmente il peggiore della raccolta. Lui si strangola alla progressione “D’invidia agli uomini sarò per te”, lei fa la svenevole come da peggiore tradizione ma senza gli atouts vocali anche banalmente di una Capsir, di una Pagliughi, senza arrivare alla Pons.
Il duetto de L’Elisir fa sembrare Nemorino un ruolo per David, per come suona difficile e problematico in bocca a questo tenore; lei fa rimpiangere la Bonney di una delle peggiori registrazioni di questo capolavoro.
Un pochino meglio il duetto del Faust, ma sempre nel contesto di una noia mortale e di una sensazione di inutilità che raramente ho provato in occasioni consimili.
Nella Traviata – per capirci, uno dei ruoli feticcio della Pérez – lei spiana tutte le sia pur modeste agilità.
E un duetto della Bohème così sarebbe accettabile solo nel contesto di una recita di periferia tedesca o – appunto – americana.
Ma ecco spuntare, come i fiori cantati da Fabrizio De André in “Via del Campo” (e ognuno ricorda il materiale da cui i fiori nascono), gli ultimi quattro brani, tutti duetti d’amore tratti da musical americani.
E qui la solfa cambia proprio. E di tanto.
Non saranno letture illuminanti come i brani di Rodgers e Hammerstein incisi da Bryn Terfel in un disco capolavoro di un po’ di anni fa, ma ci raccontano egualmente qualche verità.
Innanzitutto, il musical non è affatto un genere minore, ma occorrono cantanti dedicati, che sappiano gestire tutte le difficoltà vocali e interpretative proposte. Un cantante d’opera molto raramente è anche un grande cantante di musical; e, se lo è, lo è perché cambia stile interpretativo, esattamente come fanno Ailyn Pérez e Stephen Costello. I due cantanti che tanto appaiono bolsi nel repertorio operistico proposto nei primi due terzi di questo CD, diventano forse non due angeli, ma due professionisti di rango da discreto a buono nel musical. E anche le enormi difficoltà vocali mostrate nel repertorio operistico non sembrano più così evidenti nel musical, nonostante anche qui non manchino acuti, corone, forcelle, messe di voce, mezzevoci ed esigenze espressive.
In secondo luogo, i record producer dovrebbero iniziare a riflettere sul materiale da incidere. Con i costi proibitivi di un’incisione discografica, ha senso registrare l’ennesima inutile versione di “Oh soave fanciulla” con cantanti talmente inadeguati da far immediatamente evocare paragoni – senza scomodare i mostri sacri – anche con cantanti recenti non particolarmente blasonati che avevamo schifato in un passato prossimo?
Terzo: incidere brani da musical non è fare cross over, come ho visto scritto da qualche parte. Vuol dire dare visibilità a una delle più importanti declinazioni del teatro musicale di ogni tempo.
I quattro duetti da musical sono tutti eccellenti, con una particolare menzione di merito per quelli di “Carousel” e “Guys and Dolls”, in cui i due cantanti riescono ad avere un passo notevole. Non brillano magari per eccessiva fantasia, ma si fanno valere proponendosi per interpreti potenzialmente affidabili e credibili di questo affascinante repertorio cui, d’ora in avanti, non sarebbe male se si rivolgessero con maggior frequenza.
Io, quanto meno, al posto loro un pensierino lo farei.
Pietro Bagnoli