Lunedì, 07 Ottobre 2024

Backstage: La Dama di Picche nella regia di Robert Carsen a Zurigo – di Filippo Antichi

Aggiunto il 17 Aprile, 2014

"Cos'è la nostra vita? Un gioco"
Questa frase detta da Hermann alla fine dell'opera, prima che la Contessa si prenda la sua rivincita, è in sostanza il senso della regia che Robert Carsen ha ideato per questo nuovo allestimento coprodotto da Zurigo e Strasburgo.
Se la vita è un gioco, il mondo che cos'è? Una sala da gioco, ovviamente.
Tutto qui ruota intorno al mondo del gioco, dalla scenografia (pareti verdi in capitonnè, lampade da casinò, tavoli da gioco, sedie con rivestimenti in velluto), ai personaggi, tanto che persino la governante di Lisa non è altro che una cameriera del casinò.
La scenografia e la presenza di Hermann in quasi tutte le scene, anche quelle dove non interviene direttamente, contribuiscono a creare l'effetto claustrofobico avvertibile già nel racconto di Puskin, prima ancora che dal libretto. E sembra che Carsen abbia attinto molto da Puskin per creare alcune immagini, soprattutto per le scene in comune; una su tutte, la scena del monologo della contessa, dove Carsen trasforma in immagini le "scabrose toelette" che Hermann vede di nascosto, menzionate nell'originale Puskiniano.
Ma procediamo con ordine.
Carsen legge la Dama di Picche per quello che è, cioè un racconto alterato dalla percezione soggettiva di Hermann. E ciò lo fa avvertire fin dal preludio che si apre sull'apparente conclusione: Hermann accasciato per terra tra i tavoli da gioco e un capannello di persone a vegliarlo. Subito questi escono; Hermann da solo, si alza, si vede sfilare accanto la Contessa e Lisa, per poi trovarsi in un angolo della sala appena la storia inizia concretamente.
La genialità di Carsen sta nel farti credere che questa sia la vera immagine finale. Tuttavia non è così. Nel finale, Hermann si spara, è vero, e dopo lo sparo i suoi compagni si affollano un attimo intorno. Ma è giusto un attimo, perché Eletsky non lo considera, lo odia, vede Hermann solo come una pedina mangiata in un gioco più grande. Eletsky

esce, seguito da tutti gli altri. Quindi nel finale vero Hermann è totalmente solo nella sterilità della sala da gioco mentre chiede perdono a Lisa, con l'ultimo coro eseguito come se fossero le voci nella sua testa.
Quindi tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento non è altro che la storia filtrata dalla soggettività del protagonista poco prima di morire e chiedere il perdono di colei che ha veramente amato e bistrattato.
Ma quand'è che Hermann inizia a impazzire e a rielaborare le immagini vissute? Da quando scopre il segreto delle tre carte da Tomskij. Se fino a quel momento, infatti, la storia si era svolta in modo classico, da quel momento inizia un turbinio di immagini oniriche sempre più simboliche e sempre più potenti. Due meritano di essere narrati.
La prima è la festa a casa della Contessa, che ovviamente diventa un'altra serata di gioco alla cui fine, dopo che Hermann ha avuto la chiave per salire da Lisa e dalla Contessa, dovrebbe arrivare Caterina la Grande. Ebbene qui arriva qualcosa che però non è la zarina di Russia. Il coro unisce in blocco i tavoli da gioco al centro della scena e si dispone dietro di essi. Hermann è bloccato sul proscenio con le spalle al pubblico. Ecco che dall'alto scende piano piano sui tavoli un letto, dall'ampia testata, con un copriletto verde come le pareti. Hermann sale sui tavoli, e poi sul letto, in un momento di estasi, guarda in alto e iniziano a piovere banconote e carte, lanciate anche dai coristi. Hermann insomma si immagina la sua ascesa alla camera, il luogo inaccessibile, sacro, e la fortuna che deriverà dal segreto delle tre carte.
L'altra scena, forse quella di maggior impatto, è la prima del terzo atto.
Nel libretto Hermann ricorda il funerale, menziona le sue visioni, finché non appare la Contessa a rivelare il segreto.
Qui Hermann è solo al proscenio, ma dietro vediamo il funerale, vediamo entrare la bara che viene posata su un tavolo da gioco, vediamo la

gente alzarsi e andare via. E qui Hermann trasalendo avverte la figura che è appena entrata dietro di lui. E' la Contessa come l'avevamo lasciata alla morte. Si aggrappa alla bara, fa avanzare il tavolo verso Hermann che si gira e si ritrova la Contessa nel suo stesso cono di luce. Lui cade e la guarda, lei lo sovrasta con le mani sulla bara a mo' di artigli. Così la contessa apre la bara. Al suo interno una luce illumina dal basso la contessa facendola apparire ancora più minacciosa e inquietante, ma non c'è nessun corpo lì dentro. La Contessa sciorina i nomi delle carte "Troika...semyorka...tuz". A ogni nome, tira fuori una carta e allora si capisce cosa c'è nella bara: è piena di carte, o meglio, è piena delle tre carte. La Contessa si ritira nell'oscurità, Hermann prende il posto della contessa e ridice i nomi delle carte incredulo, tirandone fuori a bizzeffe.
Carsen tuttavia non si limita a riattuare il suo amato tema dello scontro tra realtà e finzione, ma lavora sui personaggi e sulla recitazione degli interpreti. Il risultato è che la vicenda non è mai apparsa così vera e palpitante. Ogni movimento in scena è perfettamente calibrato su ogni singolo tema, su ogni singola nota, in una precisione maniacale e in una perfezione tecnica difficilmente ritrovabili.
A questo proposito la scena delle fanciulle nel primo atto è un vero capolavoro registico, interamente calibrato solo sui movimenti e pochissimi elementi scenici.
Eccola qui.
Ogni donna porta una sedia nella scena rimasta vuota formando un semicerchio. A quel punto, ognuna inizia a togliersi gli accessori, le scarpe, e a disfarsi l'acconciatura, per poi mettersi comodamente a sedere mentre Polina e Lisa cantano la loro canzone, il tutto lontano dalla frenesia della sala da gioco e dalla vita mondana. Ma non sono sole. Hermann gira intorno, le scruta, posa il suo sguardo su Lisa che ricambia, quando le altre non la riportano ai pensieri femminili. L'incessante movimento terminasolo durante la canzone "triste" di Polina, quando le donne, tutte rapite dalla giovane (cosa non è l'incipit con le donne che si accasciano a ritmo sul glissando di pianoforte!), non vedono che Lisa si è girata verso l'esterno del cerchio di sedie dove Hermann fermo si è seduto in terra. I due si guardano a lungo sulla struggente melodia finché Polina interrompe la canzone "triste" e inizia quella "allegra" su cui le donne iniziano una danza pop da villaggio vacanze in perfetta sincronia con la musica.
Insomma una grande regia che ha creato un enorme appiglio sul pubblico. Infatti l'attenzione era percepibile, non volava una mosca in sala, e dopo ogni scena gli applausi scendevano fragorosi ed entusiasti.
Il cast si è dimostrato una perfetta materia da lavoro per Carsen ed ha offerto un'ottima prova vocale pur senza riletture rivoluzionarie.
Partiamo dalla Contessa, il personaggio fulcro dell'opera ma che ha meno peso dei due protagonisti. La Contessa era una Doris Soffel (al debutto nel ruolo) che ricordava molto Crudelia De Mon: vestito lungo sbrilluccicante, piena di gioielli, capigliatura anni 20, sicuramente elegantissima ma un po' passata. Bene, qui la Soffel è proprio attrice consumata, sembra uscita da un vecchio film. Il suo apice è la scena prima della morte. Carsen trasforma la scena del monologo della Contessa in un suo lento e sempre più grottesco strip-tease, quasi un rito di preparazione al sacrificio. Sempre aiutata dalle sue cameriere, a ogni nome importante che ricorda, si toglie uno dei tanti gioielli. Poi si toglie l'abito e infine, prima di coricarsi nel letto, si toglie la parrucca rivelando una folta chioma lunga e bianca simile alla strega di biancaneve, per rimanere sui paragoni disneyani. Inutile dire che tutta questa scena è calibrata su ogni minimo respiro della musica. La Soffel ha un unico problema: è un po' corta di note; ma ciò non le impedisce di fare un "Je crains de lui parler la nuit" davvero notevole perinterpretazione. Insomma una Contessa notevole.
Hermann era Misha Didyk, il Manrico del Trovatore di Cerniakov. Ebbene, se la prova come Manrico era fallita, quella di Hermann è passata a pieni voti, pur senza una lettura rivoluzionaria. Didyk ha affrontato senza problemi le asperità del ruolo, aderendo perfettamente alle istanze registiche e affermandosi come un ottimo Hermann.
La Monogarova è il classico sopranone russo che canta principalmente ruoli russi. Anche lei passata al setaccio di Cerniakov nel famoso Eugene Onegin, si conferma interprete davvero ottima almeno dal punto di vista attoriale. La prima aria è stata davvero intensa, con lei sola su una sedia mentre sull'altra si immaginava la sua compagna Notte. E la penultima scena dell'opera con lei che gira in cerchio, in una scena totalmente vuota, sola nella sua disperazione, è stata potente anche
grazie a lei, nonostante qualche acuto un po' strillato.
Tra gli interpreti secondari vanno menzionati Alexei Markov come Tomskij, Brian Mulligan come Eletsky, e soprattutto la splendida Polina di Anna Goryachova. Tutti e tre hanno fatto faville nei loro pezzi singoli, ma nessuno come la Goryachova è riuscito a catalizzare l'attenzione del pubblico. La sua aria "triste" è stata davvero emozionante, da annoverare tra i vertici musicali dello spettacolo.
Dirigeva assai bene Jiri Belohlavek, direttore Ceco, assai aduso al repertorio della sua madrepatria (Dvorak, Smetana, etc), ma che si è rivelato assai adatto anche qui. Belohlavek infatti riesce a creare atmosfere in perfetta sintonia con quello che succede in scena, oltre a fornire sempre un adeguato sostegno agli interpreti.
In definitiva, spettacolo riuscitissimo sotto tutti i punti di vista, coronato da un discreto successo del pubblico.

Filippo Antichi (AKA reysfilip)

Categoria: Backstage

 

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