Ballo in maschera
Aggiunto il 07 Novembre, 2009
In periodi come questi in cui ci poniamo domande né banali né scontate sulla reale portata di un vero accento verdiano, questi dischi ci danno una risposta probabilmente definitiva sul tema.
Cos’è l’accento verdiano?
È una strana chimera che tutti, prima o poi, si trovano ad inseguire con l’idea di svelarne il significato al prossimo. Nel corso degli anni si sono succeduti vari modelli di questo concetto e, personalmente, continuo a ritenere che la cifra più affidabile sia quella fornita dai cantanti tedeschi degli Anni Trenta-Quaranta: pensiamo a voci come quella di Heinrich Schlusnus, Helge Rosvaenge o Margarete Frida Klose e i termini del problema diventeranno chiari a tutti, molto più di qualunque esemplificazione verbale. Poi, è chiaro, in concetti così poco codificabili come questi ci può entrare veramente tutto e il contrario di tutto: ed ecco che nel corso degli anni ognuno si è sentito autorizzato a proporre esempi diversi basandosi su alcune idee che proverei a sintetizzare come segue:
1. Nobiltà di emissione
2. Cantabilità
3. Corretto assetto tecnico
4. Voce piena e possibilmente di ampio volume, pur se ben modulabile
Chiaramente, prese nel loro insieme le regole sopra elencate si possono applicare a tutti gli ambiti del teatro d’opera, ma sembrerebbe che la “nobiltà d’emissione” segnalata al punto 1 si sposi particolarmente bene con le melodie create dal Cigno di Busseto (e con Gounod no?, verrebbe per esempio da dire…); il corretto assetto tecnico va bene sempre per tutto, ma per Verdi parrebbe requisito particolarmente indispensabile; e via elucubrando.
Ed è così che si finisce per mettere nel calderone un po’ di tutto, perdendo però di vista l’obbiettivo principale, che è quello di dare a questa benedetta voce verdiana dei connotati di immediata riconoscibilità.
Poste queste premesse, cerchiamo di applicare i concetti sopra elencati alla registrazione in oggetto e prendiamo il protagonista, Jon Vickers. Nato a Prince Albert nello Saskatchewan (Canada) nel 1926, aveva debuttato a Londra nel 1956. Al momento di questo spettacolo si era già fatto valere in ruoli altamente drammatico come quelli wagneriani e verdiani; Gustavo, in particolare, l’aveva già debuttato nel 1957, mentre nel 1958 aveva fatto il suo ingresso a Bayreuth come Siegmund.
Il suo Riccardo/Gustavo è irresistibilmente verdiano nell’accento, nell’eloquio e nei modi. Certo, si potrebbe stare delle ore a discutere sulla pronuncia, sull’idiomaticità, talora persino sull’intonazione che Vickers non ebbe mai eccelsa, ma l’accento è da autentico verdiano della più bell’acqua. Sin da “La rivedrà nell’estasi” mormorato a fior di labbro con tono trasognato l’accento si espande con sincerità, sorridente bonomia e autentica nobiltà ad identificare i più autentici tratti del vero cantante verdiano. Prendiamo “Ma se m’è forza perderti”: già nel recitativo iniziale il tono è pensieroso, forzatamente pratico. Nel cantabile affiora in pieno la nobiltà d’accento che rende conto dell’importanza della rinuncia. La chiusa del “Sì rivederti Amelia” ha avuto probabilmente interpreti più slanciati verso acuti sfolgoranti, ma nessuno prima e dopo Vickers ha saputo rendere così bene la disperazione di un amore impossibile che cerca di trovare l’ultimo sussulto prima dell’abbandono definitivo.
Ma gli esempi potrebbero essere ancora tantissimi: la Barcarola è fresca, ricca di gioventù e di allegria (non dimentichiamoci che Riccardo è al settimo cielo perché si è appena reso conto del fatto che Amelia lo ama); il duetto d’amore vive di una pulsazione inesausta grazie anche all’apporto importante di Amy Shuard, una delle migliori interpreti di Amelia testimoniate dal disco; e così via.
Al suo fianco un grande Renato: Ettore Bastianini è, in quest’eletta schiera, il cantante più familiare all’appassionato italiano. All’epoca di questa rappresentazione aveva 40 anni e gliene mancavano purtroppo solo cinque prima che una malattia crudele lo strappasse troppo presto alla vita che gli arrideva. Per lui si inventarono iperboli come “voce di bronzo foderata di velluto” e, per una volta, non ci sembrano inappropriate: quella di Bastianini era veramente una voce privilegiata, ricca di splendidi armonici, emessa per l’occasione con gusto molto sorvegliato (e non è che gli capitasse spesso). Un Renato storico, probabilmente fra i più grandi della Storia.
Amy Shuard, inglese (1924-1975) faceva parte della compagnia della Sadler’s Wells oltre che del Covent Garden. Allieva di Eva Turner, era partita come mezzosoprano; poi il grande repertorio lirico sopranile. Fu prima Kat’a Kabanova, poi Jenufa, entrambe le volte con Kubelik (altri tempi, è proprio il caso di dirlo). Fu poi Turandot, Elektra, Brunnhilde, Kundry. La sua Amelia è una delle tre o quattro di tutta la discografia da portarsi nella famosa isola deserta. Prendiamo “Morrò, ma prima in grazia”: eloquentissima, accento dolce e dolente ma nobile e lievemente altero; salita all’acuto da grandissima, con appena un lieve accenno ad un declamato che si sposa a meraviglia con quello più definito di Vickers. Arriveremo a dire che per far bene Verdi occorre anche essere declamatori? Certo che no: occorre solo saper cantare bene con qualunque mezzo si abbia a disposizione, ed una gran brava wagneriana come la Shuard è la dimostrazione che non occorre essere vocalisti a tutti i costi per fare una grande Amelia.
La Resnik è americana della Grande Mela, ove nacque nel 1922; debuttò al Met nel 1944 facendo il percorso inverso a quello della Shuard (da soprano a mezzo). Non arriverà ai vertici della Mödl come Ulrica, ma ci sa fare parecchio ed è cantante che sa come ideare un accento misterioso e quasi demoniaco.
Oscar è il soprano inglese Joan Carlyle, che gli appassionati conoscono soprattutto per il ruolo di Nedda inciso (davvero bene) con Karajan nella celebre registrazione della Deutsche Grammophone. Altro fenomeno: un Oscar spigliatissimo, spiritoso, di canto eccellente.
Rimane da parlare del direttore. Nato a Birmingham nel 1924, fu assistente di Hermann Scherchen. Qui è idiomaticissimo nel gusto e splendido accompagnatore del canto, oltre che molto personale nelle scelte: un mix praticamente perfetto per una registrazione memorabile che ci conferma, se ancora avevamo qualche dubbio, che non occorre necessariamente essere italiani per avere l’accento verdiano