Lunedì, 07 Ottobre 2024

Backstage: DIVAGAZIONI ROSSINIANE Considerazioni sulla vocalità tenorile - di Rodrigo

Aggiunto il 23 Febbraio, 2014

Difendere l'indifendibile ovvero le "voci da seminaristi" e il tenorismo rossiniano

E’ piuttosto frequente sparare ad alzo zero contro i tenori rossiniani precedenti la generazione “americana”. Questo vero e proprio luogo comune, che come tutti i luoghi comuni assomma ragioni che sono obiettivamente valide e altre che lo sono un po’ meno, mi spinge ad approfondire la questione e a tentare una sorta di difesa. E difendere una posizione, per come la vedo io, significa spiegarla o meglio ancora contestualizzarla, non rimpiangere il buon tempo che fu o costruire delle agiografie canore.
Bene, anzitutto chiediamoci cos’era il repertorio rossiniano fino ai primi anni Sessanta. Era costituito da un pugno di opere comiche (Barbiere e, molto più raramente, Italiana e Cenerentola) e da un paio di titoli seri (Tell, Mose’). Titoli come Semiramide o il conte Ory beneficiavano di riprese sporadiche, praticamente senza che nessuno capisse bene il perché di queste riprese considerate poco più che compiacimenti eruditi. Tale repertorio comprendeva partiture in cui mancavano, con l’eccezione di Arnold, i ruoli tenorili più impegnativi vocalmente e di maggiore interesse drammaturgico. Arnold godeva di una tradizione esecutiva abbastanza consolidata pur se fuorviante: lo si risolveva come un Manrico muscolare, terreno riservato a tenori dotati di grande resistenza e di spiccata confidenza con il Do. Sul tutto il resto che questo personaggio esige si poteva anche transigere.
Vediamo un po’ cosa avveniva per i restanti ruoli tenorili restati in repertorio. Nell’ottica dell’epoca, Lindoro, don Ramiro e Almaviva non dovevano sembrare troppo diversi da Paolino, Nemorino, Ernesto o magari Elvino e Alfredo. Oggi abbiamo ben chiaro che Almaviva non ha nulla della psicologia di un Nemorino: è un grande di Spagna che zittisce don Bartolo con una frase, non un contadino semianalfabeta e presumibilmente un po’ tonto. Va però detto che la prassi musicale favoriva

l’equivoco: il taglio del rondò finale – fondamentale ai fini della comprensione del personaggio – oltre ad alleggerire la parte considerevolmente rendeva plausibile la riduzione del conte al solito innamorato. Con tali presupposti non deve stupire più di tanto che venissero reclutati per i ruoli in questione cantanti che praticavano abitualmente i ruoli amorosi da opera ottocentesca (o magari adusi ad un certo repertorio lyrique): dunque i cartelloni proponevano nomi come Valletti, Monti, Alva, Misciano, Benelli, Bottazzo. Questi interpreti, è bene ricordarlo, non erano affatto privi di qualità. L’armamentario che costituiva la “cassetta degli attrezzi” del tenorismo di grazia – il cui massimo esponente nella generazione precedente era stato Schipa - era complessivamente ben maneggiato da questi cantanti: fraseggio curato, timbro gradevole, facilità nel sostenere tessiture acute, una certa predisposizione al cantar fiorito. Quest’ultimo è un requisito che possiamo valutare relativamente col senno di poi, ma la prassi di un’epoca che non temeva tagli, trasporti e patteggiamenti che magari qualcuno rimpiange soccorreva nel momento del bisogno.
E’ giusto rilevare i limiti di questi interpreti, ma ritengo che si tratti di limiti nelle visioni drammaturgiche. Di questo “fraintendimento” gli interpreti prescelti erano una conseguenza in fondo coerente. Inoltre, dedotta la drastica riduzione del coefficiente virtuosistico, questo approccio più di tanto non tradiva alcuni ruoli buffi rossiniani come Lindoro o Ramiro (e mettiamoci pure un personaggio come Giannetto della Gazza ladra). Il vero problema, teatrale prima ancora che musicale, era l’opera seria in cui i presupposti che ho tentato di riepilogare andavano in crisi e con loro i cantanti ad essi legati.


L’uovo e la gallina ovvero alla prova dell’opera seria

La riflessione sull’assegnazione dei ruoli buffi pone dunque il problema del rapporto tra insufficienza drammaturgia

e inadeguatezza tecnica. E’ legittimo il dubbio se erano i limiti acrobatici dei tenori che praticavano Rossini a provocare una lettura fuorviante dei personaggi o se era un inquadramento stereotipato di questi eroi a renderli appannaggio di tenori che la nostra sensibilità giudica inadeguati. La questione, che può assomigliare al dubbio se viene prima l’uovo o la gallina, a mio avviso va risolta nel secondo senso. In altre parole: se Ramiro, Lindoro e Almaviva erano considerati parenti stretti di Paolino, Nemorino ed Elvino, logica voleva che si scritturasse chi praticava con successo questi personaggi.
Che si trattasse di un’operazione non del tutto arbitraria (salvo il caso di Almaviva) ne abbiamo conferma del fatto che in qualche modo essa continua ancora oggi. Vi è infatti una fascia di tenori rossiniani in cui non è difficile rintracciare, come in controluce, la discendenza dai Valletti, dai Monti e dagli Alva. Più spettacolari in acuto e via via più efficienti nella coloritura si dipana dai capostipiti una linea che comprende Araiza, Gimenez, Benelli, Palacio sino a Matteuzzi e Florez. Sono cantanti che hanno mantenuto uno dei presupposti della gloriosa scuola del tenorismo di grazia: l’omogeneità e la “soavità” di emissione, senza accogliere le spettacolari disuguaglianze timbriche dei tenori di estrazione nordamericana. Questa discendenza conserva anche un’altra caratteristica delle origini: una più o meno limitata plausibilità nei ruoli seri in cui, viceversa ci è parsa tanto rivelatoria la scuola americana.
Dalla fine degli anni Cinquanta vengono riprese a ritmo sempre più serrato le partiture del Rossini serio. Dapprima si infittisce la presenza del mai dismesso Mose’, poi l’Assedio, Semiramide, Armida, Tancredi, Elisabetta, Otello e via di questo passo. E’ in questo preciso momento che la scuola “di grazia” manifesta le proprie insufficienze. Le risorse tecniche ed espressive adatte per gli amorosi non bastano ad una drammaturgia che

richiede ben altro in termini di virtuosismo e fraseggio. Sintomatica è, a mio parere, la ripresa di Armida al Maggio in cui Siciliani si guarda bene da ricorrere ai tenori da Barbiere o da Italiana. A mio avviso aveva capito perfettamente che il mondo di Ubaldo, Carlo e Rinaldo non aveva nulla a che vedere con Paolino e Nemorino. Certo il problema fu “risolto” in maniera insoddisfacente per noi, ossia convocando tenori con il do “in tasca” senza badare troppo alla coloratura o verificarne l’aderenza alla specificità dei primi interpreti. Ma puntare su due tenori da Puritani e da Tell (Filippeschi e Raimondi), anziché su tenori da Elisir o da Matrimonio segreto manifestava almeno una lucida comprensione del salto di qualità che bisognava fare.
A questo evento possiamo ben associare il naufragio di un bravo erede di Schipa (Valletti) e di un ottimo tenore protoromantico da Bellini (Gedda) che non riuscivano a convincere nel riscoperto rondò di Almaviva. Altra tappa da non trascurare, sempre a mio modo di vedere, era quella contrassegnata da uno specialista sfortunato: Agostino Lazzari. In coppia con la Zeani il tenore fu durante gli anni Sessanta impegnato più volte nella riscoperta di Otello, affrontato a Roma, New York e Berlino. Lo spettacolo romano, qualificato anche da scene e costumi di Giorgio de Chirico e portato in tournée, fu a suo modo un evento. Ora va dato atto dell’impegno convinto e continuato di questo cantante (anch’egli reclutato tra le fila dei Nemorini e degli Elvini) alle prese con un personaggio immenso e per di più sostanzialmente da ricreare. Ma è altrettanto doveroso rilevare che la dizione cristallina, il timbro chiaro e l’omogeneità della gamma non suppliscono alla mancanza di corpo e di una padronanza dei gravi adeguata all’impervia scrittura pensata da Rossini per Nozzari.
In buona sostanza gli anni Sessanta segnano un punto di svolta. La ripresa del Rossini serio manifesta la necessità di un rinnovamento nei criteri direclutamento dei tenori, ma le scelte operate continuano ad essere insoddisfacenti. E non è un caso che le opere serie saranno considerate soprattutto “cose da primadonna”. Si va a sentire Armida per la Callas o per la Deutekom, Semiramide per la Sutherland, Otello per… la Zeani.


Al gran cimento t’affretta ardito ovvero verso la (ri)nascita di una vocalità

Siamo ora agli anni Settanta, ossia alla vigilia della rivoluzione imposta negli anni Ottanta da Merritt, Blake, Ford e poi continuata con gli altri tenori di provenienza americana. Come abbiamo visto un primo tentativo di risposta alle sollecitazioni che venivano dalle partiture serie, posta la consapevolezza della loro specificità, era stato quello di scritturare tenori che praticavano il melodramma ottocentesco più esigente quanto a registro acuto. In fondo era lo stesso criterio che, almeno dai tempi di Tamagno e poi di Lauri Volpi, si seguiva per Arnold! Da questa idea, oltre che Filippeschi e Raimondi in Armida (il secondo fu anche Idreno), derivano Grilli in Elisabetta, Garaventa in Mosè, Limarilli in Zelmira, Bonisolli nella Donna del Lago.
Anche in questo contesto possiamo individuare delle incisioni che efficacemente manifestano lo stato della questione. Nel 1970 alla RAI veniva eseguita la Donna del Lago (protagonista M. Caballè) in cui a un Bonisolli decisamente “fuori stile”, per quanto vigoroso e con gli acuti a posto, si contrappone un Bottazzo più elegante ma, almeno per me, “fuori genere”, che sposta il suo personaggio verso orizzonti che rammentano… la Gazza Ladra. Allo stesso modo, anzi per mio conto ancora più severamente, è da valutare l’esito di un tenore leggero come John Serge - per giunta decisamente corto – nella celeberrima Semiramide Sutherland-Horne. Il cantante propone una prova senza possibilità di riabilitazione, e si noti che Idreno pone problemi decisamente meno ardui rispetto ai ruoli tenorili napoletani.
Un esito piùinteressante, a suo modo innovativo, di questa particolare temperie è viceversa l’incisione in studio dell’Otello del 1978. Notevole la cura per una proposta integrale della partitura (sia pure senza da capo variati), buona la concertazione di Lopez-Cobos che coglie perfettamente la cifra neoclassica della partitura (un bel passo avanti rispetto a Previtali, artefice delle esecuzioni con Lazzari). Sul piano vocale alla Desdemona eccellente della Von Stade – a cui al massimo si potrebbe muovere l’appunto di gestire meglio i momenti elegiaci di quelli tragici - si contrappongono nei ruoli di Otello e Rodrigo Josè Carreras e Salvatore Fisichella. Se la scelta di Fisichella – a mio avviso decisamente positiva nel risultato - rispecchia in pieno la prassi di cercare il tenore da opera seria tra le fila dei tenori “con il do in tasca”, Carreras è una decisione epocale. Una scelta che manifesta, se non sbaglio, la prima compiuta differenziazione tra un ruolo Nozzari e un ruolo David.
Con il tenore spagnolo sentiamo una cavatina con le note centrali e gravi della linea melodica dotate della giusta risonanza e del pari un’adeguata differenziazione nell'impasto vocale nei duetti con il Rodrigo dal timbro argentino di Fisichella. Memorabile, poi, il lungo recitativo accompagnato che introduce la scena di Desdemona del III atto. Insomma il primo moro decisamente tragico. Certo, a fronte di questi “più” stanno anche i “meno” di una coloritura nemmeno paragonabile agli interpreti successivi e di un registro acuto che, pur trattandosi di un Carreras giovane, ben poco ha a che vedere con l’ortodossia vocalistica. E tuttavia, tenendo conto che anni prima aveva inciso anche Elisabetta regina d’Inghilterra con la Caballé, ci si potrebbe domandare se la svolta verso il repertorio verdiano e post verdiano sia stata del tutto avveduta per il tenore.
Con l’analisi sempre più attenta delle ragioni teatrali dei ruoli tenorili rossiniani - di cui le esigenze musicali sono unatraduzione niente affatto casuale o, come pensava la critica meno recente, votata al mero edonismo canoro - i tempi erano maturi per una rinnovata aderenza stilistica e per la nascita di interpreti dotati, oltre che di congrui strumenti interpretativi, anche di personalità tale da imporre i loro personaggi come protagonisti di importanza pari ai ruoli assegnati alle voci femminili (compresi quelli en travesti). La scuola americana non nasce dunque dal caso o nel deserto, ma si pone come la risposta ad oggi più efficiente e completa ad un lungo processo di maturazione e di ricerca di soluzioni congrue ad una drammaturgia via via meglio compresa.

Rodrigo

Categoria: Backstage

 

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