Messa in si minore
Aggiunto il 17 Gennaio, 2014
Nato a Stoccarda nel 1933, Helmuth Rilling dal 1953 al 1955 ha studiato organo, composizione, direzione di coro alla Scuola di Musica della sua città. Ha poi completato i suoi studi in Italia, a Roma e Siena. Ha fondato il suo Coro Gächinger Kantorei – che si esibisce anche in questa esecuzione – mentre era ancora studente nel 1954; l’orchestra del Bach-Collegium è stata invece fondata sempre da Rilling nel 1965. Ha fondato l’Oregon Bach Festival nel 1970 e l’Internationale Bachademie Stuttgart nel 1981.
Ha persino studiato con Bernstein, nel 1967.
La sua celebrità è legata soprattutto a Bach, di cui ha inciso praticamente tutti i lavori vocali, fra cui una fondamentale e bellissima integrale delle Cantate, tra l’altro disponibile a un prezzo talmente interessante da considerarla imprescindibile per chiunque, non solo per gli appassionati di stretta osservanza.
Questa incisione della grandiosa Messa in si minore è la terza per Rilling, confezionata appositamente per la Edition Bachakademie; precedentemente ne aveva fatte due, una nel 1977 per la CBS e una nel 1988 per Intercord, credo di non semplice reperibilità. Rilling afferma che per questa registrazione ha ripreso le fonti originali e le partiture autografe.
Gli organici sono ridotti: 6 violini primi, 5 violini secondi, 4 viole, 3 violoncelli e 2 contrabbassi, più i fiati. L’organo fa il basso continuo. Il coro è ridotto al solo raddoppio.
Gli strumenti sono contemporanei.
Questa non è un’incisione “filologica” in senso stretto, anche se gli organici sembrano in qualche modo tener conto delle indicazioni di Joshua Rifkin che, volenti o no, hanno fissato uno spartiacque importantissimo. Poi molti si sono adattati con raddoppi, o riempitivi che dir si voglia, per dare un minimo di polpa in più a un organico che, per certe composizioni (Passioni o la stessa Grande Messa) poteva sembrare troppo cameristico per quello cui siamo abituati, ma il dado ormai era tratto.
Gli strumenti moderni hanno sonorità calde, pastose. Non è una grossa variazione sul tema, in fondo, perché orchestre come i Musiciens du Louvre o gli English Baroque Soloists hanno suoni molto torniti e ambrati che non solo non hanno più nulla a che vedere con quelli graffianti e di dubbia intonazione delle prime compagini, ma ormai hanno anche un sound perfettamente identificabile come quello dei Wiener o dei Berliner.
Rispetto a grandi classici come Klemperer o Richter, il passo di Rilling è decisamente spedito.
Rispetto agli stessi classici, l’organico ridotto permette di apprezzare meglio la trama orchestrale e l’intersezione delle voci, anche se la densità orchestrale di Richter non andava comunque a scapito della resa drammatica complessiva; l’unico problema è che all’ascolto odierno del Bach di Richter si ha quasi l’idea di ascoltare un’opera diversa, di severità luterana e di impronta post-romantica, a dimostrazione di quanta acqua sia passata sotto ai ponti.
Per chi non ama particolarmente gli estremismi di certi interpreti attuali e non (penso a Butt e, prima ancora, a Parrott, o al primo Harnoncourt), oppure l’eccesso di tensione drammatica di altri come Gardiner o Minkowski, Rilling – che guarda con evidente rispetto all’intensa spiritualità di Richter, ma spogliata della sua ridondanza strumentale e vocale – rappresenta una terza via da guardare con estremo interesse.
La spiritualità, l’intima religiosità è qualcosa che anima profondamente le interpretazioni di Rilling, che non cerca il facile effetto ma sceglie tempi riflessivi, suoni luminosi e lievemente thrilling (uno su tutti, l’avvio del Symbolum Nicenum che balza come uno zampillo) e che si trova sicuramente a suo maggior agio con la seconda parte della Messa più che con la prima.
Ma anche la prima parte della Messa gode di un ordito orchestrale limpido, luminoso, trasparente; valga come esempio il “Quoniam tu solus Sanctus”, affidato al glorioso Quasthoff, che vanta un corno da caccia solista obbligato favoloso; oppure il bellissimo “Laudamus te” il cui ordito orchestrale è costituito da violino solista, violino I+II, viola, violoncello, contrabbasso e organo in continuo. Qui Juliane Banse è molto brava, pur se non all’altezza della trascendentale Lezhneva – la migliore di tutte e di sempre – dell’incisione di Minkowski.
Splendide le trombe nel “Gloria in excelsis Deo” e nel “Cum sancto spirito” (che ha una spinta propulsiva notevolissima), così come i delicati ricami degli oboi d’amore nel “Qui sedes”.
Quanto alla seconda parte, oltre al già citato incipit del “Credo”, trovo meravigliosi l’ “Et incarnatus” e il “Crucifixus”, in cui gli archi e, nel secondo, i flauti si coprono letteralmente di gloria, riuscendo a rendere meravigliosamente l’angoiscia colma di speranza senza eccessivi trasporti drammatici.
Grandissimo Rilling, davvero.
Non eccezionali, invece, i solisti vocali.
Quasthoff, per esempio, è un grandissimo liederista dotato di una cifra molto personale e ben riconoscibile, ma è un po’ in difficoltà con la vocalizzazione rapida del “Quoniam tu solus Sanctus”.
Vocalmente più centrata la Rubens – nota specialista bachiana – mentre della Banse abbiamo già detto.
Il meraviglioso “Benedictus” – per di più con un flauto solista letteralmente da sballo – viene buttato alle ortiche da un tenore di pronuncia burgunda (sembra la caricatura di una pronuncia british), querulo e belante: pessima prova.
Schmidt non lascia traccia significativa di sé.
Molto, molto brava invece la a me precedentemente sconosciuta Ingeborg Danz alle prese con uno dei brani più intensi ed evocativi di tutta la composizione, e cioè l’ “Agnus Dei”; ci fosse stata anche una pronuncia un po’ più accurata, probabilmente sarebbe stata una prova di riferimento assoluto
Pietro Bagnoli