Venerdì, 22 Novembre 2024

Backstage: Traviata alla Scala, la Violetta di un botanico - di Francesco Brigo

Aggiunto il 23 Dicembre, 2013

Dal vivo della realtà teatrale questa Traviata si conferma uno spettacolo riuscito a metà. Convince, ma non avvince la regia di Tcherniakov, che per non scontentare nessuno finisce per scontentare un po’ tutti: i passatisti, che elevano alti lai stracciandosi le vesti nel vedere Flora agghindata come una pellerossa o Alfredo che affetta le verdure e prepara la pizza (eh già, regista mio bello, in Francia si mangia l’omelette!), e gli amanti di un approccio drammaturgico più in linea con i tempi (e, sia detto per inciso, con Verdi) che invano cercherebbero in questa regia il colpo di genio.
Lo spettacolo, tanto per essere chiari, funziona. Ma ad alti e bassi. Perfettamente riusciti alcuni (molti, a dire il vero) punti dell’opera, in cui la corrispondenza – per affinità o contrasto – tra quanto si vede e quanto si ascolta è fortissima, e di grande effetto: il tono canzonatorio e quasi beffardo di Violetta nei confronti di un impacciato Alfredo al primo atto; la grande scena a conclusione dello stesso, scena che, con buona pace delle care salme che popolano il “massimo teatro italiano”, sembra davvero un cosciente omaggio rivolto dal regista russo al celeberrimo spettacolo di Luchino Visconti, in cui la Violetta di Maria Callas si aggirava tra bottiglie mezze vuote e sedie sparse qua e là nella melanconia della festa appena terminata (gli elefanti – si dice– hanno buona memoria. Gli asini, a quanto pare, no); la frenesia quasi isterica, da nervi a fior di pelle nell’incontro-scontro tra Violetta ed Alfredo al secondo atto ambientato in quella cucina da pubblicità della pasta Barilla che esprime benissimo il disperato tentativo di vivere una vita “normale” ; l’allucinato coretto di zingarelle e toreri a casa di Flora, che finalmente cessa di essere folcloristico pezzo d’arredamento e autentica zeppa drammaturgica per acquisire una forte carica espressiva e straniante (il cui “colore demoniaco”, come definito da Rodney Stenning Edgecombe in un bel saggio, si sposabenissimo con la Verfremdung brechtiana voluta da Tcherniakov in questa scena); l’ultimo atto in cui la stessa malattia di Violetta altro non è se non una misera messa in scena, un tentativo di riconquistare un amore perduto per sempre, diventato ormai brace spenta, compassione e commiserazione per una poveretta alla quale per il troppo amore ha dato di volta il cervello: Alfredo entra per quella che spera essere solo una breve visita di cortesia, guarda l’orologio impaziente di levarsi da quella situazione che lo mette a disagio, è preoccupato più di sistemare i fiori in un vaso che di rivolgersi con affetto e calore all’amante di un tempo, e – a sentire Violetta (stra)parlare di matrimonio – si ritrae impaurito. E la rabbia di lei che esplode, violenta, assoluta: a lei, sola ad aver amato, non resta altro che una stanza, spoglia e fredda, in cui morire. Sola. E sola muore, questa Violetta: l’amica e confidente Annina allontana con un gesto deciso (non ignara mali, miseris succurrere disco) gli uomini (il dottore e i due Germont), che vengono così privati delle loro battute finali (inclusa la costatazione di decesso del Dottor Grenvil, improvvisatosi per l’occasione medico necroscopo). E se la filologia ne risente, il teatro ringrazia.
Tuttavia, se in molti aspetti questa regia si dimostra convincente, in altri lascia una forte sensazione di incompiutezza. L’aver eliminato completamente ogni riferimento alla “diversità” di Violetta rappresenta, in particolare, una diminutio notevole rispetto al dettame verdiano, e francamente appare una scelta incomprensibile in un regista che, convinto che ha teatro conta il “vero” più del “bello”, ha saputo realizzare degli spettacoli che, dal punto di vista contenutistico e formale, erano autentici “pugni allo stomaco”. A questo si aggiunga il fatto che non sempre Tcherniakov sembra a suo agio nella gestione dei personaggi sulla scena (emblematica la festa a casa di Flora, con il coro fermo a fare il coro come s’è vistofare da sempre e come francamente – almeno questa volta – si sperava di non dover più vedere).
Il cast è dominato dalla Violetta di Diana Damrau che inizia con un primo atto in cui si avvertono alcune fragilità e persino (sembra incredibile) alcune imprecisioni nella coloratura, peraltro piegata a fini espressivi come raramente s’era sentito prima. Nel secondo e soprattutto nel terzo atto crea invece un personaggio con aspetti davvero inediti (in questo aderendo alla lettura proposta dal regista): Violetta è una donna volitiva, energica, a tratti persino rabbiosa, quella rabbia disperata che nasce dalla costrizione, dal rifiuto, dalla solitudine.
Molto bravo, ancorché piuttosto generico, l’Alfredo di Piotr Beczala, che si riscatta con una presenza scenica davvero convincente (lui che, sotto altri registi, non era mai sembrato meritevole di un Oscar alla recitazione). Da buon declamatore qual è, Zeljko Lucic spiana nove segni d’espressione su dieci, ma si fa apprezzare.
Comprimari variabili dal discreto (si conceda l’onore delle armi alla Annina di Mara Zampieri) al buono, coro allo sbaraglio (ma, sotto la solida bacchetta di Gatti, molto meno del solito), orchestra in stato di grazia.
Al pari della regia convince, senza avvicere, la direzione di Daniele Gatti. Straordinaria nel vivisezionare la partitura, in un’analisi strutturale portata all’eccesso, ma in cui l’estrema cura per il dettaglio non sempre riesce a ricostituire una sintesi teatralmente compiuta. Si resta stupefatti di fronte a suoni di una morbidezza e un nitore che sono il frutto evidente di una profonda, seria riflessione sulla partitura (raramente è capitato di sentire l’orchestra scaligera suonare così bene, anche sotto bacchette ben più blasonate). Tutto il primo atto è immerso in sonorità di danza illuminate da pulsazioni ritmiche sempre impercettibilmente cangianti (è chiaro che Gatti ha letto e studiato a fondo “Il valzer delle camelie” di Emilio Sala). Si apprezzanoovunque particolari finora quasi mai ascoltati con tale definizione: le stilettate degli archi sotto il “Follie, follie!”; le sonorità melliflue di flauto e clarinetto al “Di Provenza”; il fruscio dei violini nella lettura della lettera; la trenodia degli ottoni al “Prendi: quest’è l’immagine”… Raramente, poi, i tempi sono sembrati così teatralmente “giusti”. E penso soprattutto all’aria e alla cabaletta di Giorgio Germont, in cui – finalmente – il tempo rapido, frenetico, incalzante esprime benissimo l’ansia piena di determinazione del padre.
Non sempre, tuttavia, questa interessantissima direzione e concertazione riesce a farsi teatro vivo. Forse per non essere accusato di retorica, Gatti sembra rinchiudersi in un’analisi strutturale della partitura che – pur nell’eccellenza del risultato – a tratti confina nell’aridità espressiva. Il disperato grido di Violetta “Amami, Alfredo!” disattende quanto prescritto dal compositore (“con passione”, scrive Verdi), riducendosi ad un crescendo orchestrale in cui la tensione è artificiale e posticcia. Lo stesso avviene nei tre grandi “a parte” di Violetta durante la festa a casa di Flora: qui si avverte il soprano che morde il freno, e il direttore che sembra solo preoccupato di dimostrare che, lui – a differenza degli altri – la partitura la rispetta, e non ha intenzione di concedere né rubati né rallentamenti, col risultato però di tradurre il rispetto testuale in aridità espressiva (che poi in questo punto si possa essere “fedeli” allo scritto, mantenendo una bruciante espressività, lo dimostrano – in studio – le direzioni di Muti e Toscanini).
In generale, sembra che – laddove la musica rivela la propria sorprendente modernità strutturale e drammaturgica – questa direzione , letteralmente, spicchi il volo. Penso ad esempio al duetto tra Violetta e Giorgio Germont, in cui la scelta dei tempi si dimostra estremamente funzionale alla progressione psicologica della vicenda, e dove la stessa forma si fa contenuto(l’incisività ritmica al “Morrò! Morrò! La mia memoria”, vestigia della cabaletta di questo duetto in cui – grazie al genio di Verdi – la “solita forma” si dissolve come neve al sole).
Altrove la lettura eccessivamente analitica di Gatti tende a smorzare la temperatura anche se – forse nel tentativo di tenere alta la tensione drammatica – ricorrendo a sonorità incisive e ad effetto. Le sonorità quasi bellicose e marziali (quelle trombe così in rilievo e quegli archi sferzanti!) con cui Gatti accompagna la cabaletta di Alfredo sottolineano benissimo la natura formale “posticcia” e drammaturgicamente “fragile” del brano, che – di fatto – risulta ancora più incongruo del solito (lo stesso Verdi, in una lettera a Piave del 16 gennaio 1853 aveva definito questa cabaletta “priva di senso”).
Discutibile anche l’accompagnamento orchestrale della festa a casa di Flora. A fronte di un suono di grande nitore, si avverte costantemente un senso di distacco e di indifferenza alla vicenda da parte di un direttore che appare sempre più concentrato sulle ragioni musicali e strutturali dell’opera che su quelle drammaturgiche (il grigiore ritmico del coretto dei toreri, l’accompagnamento ossessivamente monotono del breve colloquio tra Violetta ed Alfredo, il crescendo costruito “dall’esterno” nel concertato finale).
In questa Traviata Gatti si conferma un direttore di straordinaria intelligenza, scrupoloso, capace di analizzare la struttura di una partitura come pochi altri, in grado di riflettere e giustificare “il perché” di una determinata forma musicale pur non essendo sempre in grado di far emergere in modo teatralmente vivo il contenuto ad essa sottesa. Essendo un’opera in cui la protagonista ha un nome floreale, si potrebbe dire (con un jeu de mots un po’ sciocco) che Daniele Gatti dirige questa Traviata con lo studio e la dedizione di un botanico, più che con la passione e la cura di un giardiniere.
Traviata, forse, avrebbe bisogno di tutti edue
Francesco Brigo (AKA Dr. Malatesta)

Categoria: Backstage

 

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