Backstage: Lohengrin - discografia ragionata parte 6 - a cura di Luca Di Girolamo
Aggiunto il 03 Aprile, 2011
1965 MELODRAM J. Thomas – I. Bjoner – A. Varnay – G. Neidliger – F. Crass – T. Krause
MEL 37067 Orchestra del Teatro alla Scala e Coro Filarmonico di Praga – Dir. W. Sawallisch
(3 CD)
Edizione piuttosto ‘spartana’ riguardo alla veste grafica, ma notevolissima – se non addirittura eccezionale – per alcuni elementi del cast e soprattutto per la direzione di Sawallisch alla sua seconda incisione. Ancor più che con i complessi di Bayereuth (Ed. PHILIPS del ’62) Sawallisch si fa valere come concertista portando l’orchestra realmente a cantare la vicenda. Solennità che mai degenera in pesantezza è la sigla che anima tanto i concertati quanto le scene di massa e questo senza coprire i singoli solisti. Anzi una delle caratteristiche di questa edizione è proprio l’intesa ed il sostegno che Sawallisch offre ai solisti, tanto per sopperire limiti vocali (che all’ascoltatore attento non sfuggono), quanto per sottolineare certi squarci espressivi del racconto. Tinte trasparenti, ma non dolciastre o evanescenti appaiono nel Preludio I per poi irrobustirsi senza piegare verso schianti clamorosi. Un po’ poco febbrile appare poi l’arrivo del protagonista anche per certa larghezza di tempi adottati ed egualmente un ritmo troppo ‘rilassato’ si nota anche nell’accordo tra Telramund e i 4 conti brabantini al II atto (peraltro un ottimo quartetto di solisti tutti italiani: W. Gullino, G. Manganotti, A. Giacomotti e C. Forti). Nel raffronto con i complessi tedeschi della precedente edizione poi l’orchestra della Scala possiede una maggiore morbidezza di suono. In tal senso se a Bayereuth il corteo nuziale del II atto mostrava qualche secchezza, qui la fluidità dell’impasto orchestrale e gli interventi del coro (peraltro ottimo in tutti i suoi interventi) sono eccezionali. Egualmente il concertato del dubbio inizia con un tono davvero angoscioso, ma non opprimente, per poi dilagare sempre con una ferrea disciplina dando però modo alle varie voci soliste diemergere. Anche il finale II è eccezionalmente amalgamato con ben stagliato il passaggio organistico a cui si contrappone efficacemente la ripresa del tema del divieto. Vivace e molto dinamico il Preludio III nel quale il Sawallisch sinfonista si impone e molto buona anche l’esecuzione della parte corale e così si deve dire per il sostegno dato al soprano e al tenore nel duetto III atto. Interludio 2a-3a scena: impetuoso e marziale come si deve ma anche molto morbido il suono. Nella conduzione della restante parte del IIIatto c’è da lamentare il taglio di «O Elsa was hast du mir angetan» fino a «Der Schwan ! Der Schwan!»
Il cast presenta motivi di altissimo interesse soprattutto nei due protagonisti. Ancora una volta Thomas ci offre una prestazione davvero notevole anche se l’interprete ed il fraseggiatore prevalgono sul cantante che non aveva un timbro benedetto e solare (ma nemmeno orrendo direi, anche perché nel registro alto le cose, anche in questa edizione, funzionavano) e che rispetto all’edizione del ’62 appare più legnoso timbricamente e con i fiati leggermente più corti. Però l’espressione c’è tutta: ora baldanzosa ed epica (scontri vari con Telramund e la cacciata al finale II, ma anche il proporsi al Re quale baldo campione di Elsa), ora liricheggiante, ora arcana (ingresso e saluto al cigno). Vorrei sottolineare a titolo di esempio la frase con la quale Lohengrin constata lo smarrimento di Elsa e che dà inizio al concertato del dubbio («Elsa! – wie seh ich sie erbeben»), l’espressione escogitata da Thomas ci fa comprendere come il disorientamento dei due sposi è reciproco e questo è davvero un bell’effetto. Molto valida l’esecuzione del duetto dell’atto successivo con belle espansioni liricheggianti soprattutto nella prima parte. Notevolissimo in tal senso appare tanto l’avvio («Das süsse Lied verhallt») quanto il successivo «Atmest du nicht mit mir die süssen Düfte». Un po’ meno persuade il suono nei momenti di maggior tensione, tanto che il«Dein Leben muss mich hoch entgelten», manca di piglio marziale, ma notevole risulta tutta l’impostazione del brano offerta da Sawallisch che adegua – senza gonfiare – al cantante i timbri orchestrali. In tal modo si attua un singolare equilibrio. Ma sta di fatto che nei momenti più concitatti di questo duetto, Thomas piega più verso la supplica che la minaccia. Bene comunque specie per l’espressione, meno per il suono la duplice accusa (all’ucciso Telramund e alla colpevole Elsa) e tutto ciò che segue prima del monologo «In fernem Land». Quest’ultimo è svolto con largo sfoggio di piani nella prima parte (molto bella la frase «alljährlich naht vom Himmel eine Taube») per poi adottare fraseggi energici e moderatamente altisonanti, ma con la cura di tenere personaggio in bilico tra eroismo e misticismo, cosa che in altri solisti non sempre accade. Prevalgono ancora i piani e le mezze voci in «Mein Lieber Schwan ! … O Elsa ! Nur ein Jahr an deiner Seite», ma anche nella consegna dei doni prevale la morbidezza sull’altisonanza eroica.
Accanto ad un Lohengrin di tale levatura, la Bjoner non è da meno, anzi è uno dei migliori soprani che hanno incarnato Elsa nella discografia: voce salda, luminosa, capace di pianissimi molto espressivi e passaggi vocalistici ad hoc (nel I atto, il «Mein Schirm! Mein Engel! Mein Erlöser», e quel che segue, è eccezionale nel suono e nell’espressione). Ma anche nel duetto con Ortrud l’espressione lirica e sognante non viene mai meno senza per questo abbassarsi alla querimonia, al gemito e al sospiretto. Davvero singolare appare poi l’espressione, frantumata tra lo stupore ed il dolore di sentirsi contaminata da qualcosa di minaccioso (voce in pianissimo ma salda in consistenza), al termine del concertato del dubbio della risposta a Lohengrin «Mein Retter, der mir Heil gebracht!». Nel duettone del III atto la Bjoner si fa valere per l’impostazione davvero cullante della frase «Fühl ich zu dir so süssen…» che poi riprende magnificamenteall’unisono con Thomas. Inoltre questa Elsa è prodiga di pianissimi e mezzevoci molto espressivi, oltre che pertinenti al momento (bellissimo il suo «Ist dies nur Liebe»). Notevole è poi l’accrescersi della forza del dubbio, espresso con fraseggi nervosi, ma senza perdere consistenza di suono. Le tre domande fatali sono molto ben eseguite e in particolare l’arduo «Wie deine Art» con slancio brillante.
Sensibilmente usurata, tanto da frenarsi in certi impeti altisonanti, ma comunque padrona di un ruolo che l’aveva resa nota è la Ortrud della Varnay. Devo dire che temevo inizialmente di un abbondare di accenti caricati presenti nell’edizione ‘live’ del ’62, ma essi fortunatamente non compaiono. Però si sente che la Varnay ‘gioca in difesa’ e la spavalderia di un tempo (documentata anche dalle altre edizioni precedenti) doveva fare i conti con una voce che, specie in alto, in termini di suono non era mai stata una folgore (tipo Flagstad, Nilsson e Grob-Prandl) ma che ora lo è meno che meno. Ciò lo si avverte dal suono emesso nell’invocazione agli dei pagani e nello scontro con Elsa che appare meno disinvolto che in passato. Anche negli interventi finali il declino si fa udire e gli acuti sono piuttosto gridati. Neidliger è un mediocre Telramund: inizierebbe bene con i vari passaggi accusatrori della sua sortita, ma poi scade rivelando una personalità piuttosto magra e con voce tutt’altro che ineccepibile circa il volume che dovrebbe farsi largo nell’arduo scontro col protagonista nel II atto. Ma poi anche negli squarci più iracondi non va a fondo sul piano interpretativo.
Crass si conferma buon Re Enrico e più sonoro rispetto alla precedente edizione e altrettanto si deve dire di Krause che è ottimo come Araldo. Il cofanetto si completa con 4 bei brani ‘live’ cantati dalla Bjoner ed appartenenti al periodo 1961-69: ballata di Senta, Aria di Eva, il «Der Männer Sippe» dalla Walkiria e l’Hallenarie del Tannhäuser.
1965 RCA S. Konya – L.Amara – R. Gorr – W. Dooley – J. Hines – C. Marsh
7 4321 50164 2 Boston Symphony Orchestra e Boston Chorus Pro Musica
Dir.: E. Leinsdorf (3 CD)
Questa edizione ha il merito di essere stata la prima ad includere la parte finale del racconto di Lohengrin che, sappiamo, è stata espunta per volere stesso di Wagner come testimoniano due lettere a Liszt e ad Uhlig (datate, rispettivamente, 2 luglio 1850 e 19 aprile 1851): si tratta di un testo musicale che permette di chiudere il cerchio sul personaggio in quanto verso la fine della parte espunta ritroviamo riecheggiato il leit-motiv dell’arioso iniziale di Elsa. A questo si aggiunge una notevole chiarezza espositiva del racconto da parte di Leinsdorf che, giovandosi della calma dello studio e di più moderni mezzi di riproduzione, ci offre una prova sostanzialmente migliore rispetto ai live del 1940 e del 1943. Nondimeno l’impressione che si ha al termine dell’ascolto è quella dell’incompletezza o comunque di una non completa realizzazione del lavoro. Anzitutto la registrazione stessa di quest’opera soffre a volte di secondi piani sonori fastidiosi e che poco aiutano i solisti: Telramund solitamente canta sullo sfondo e così il Re nel III; ma poi il punto debole resta in blocco il cast nel quale, chi più chi meno, ha da rimproverarsi qualcosa. Ed è un peccato perché la direzione di Leinsdorf è, in linea di massima, pregevole e viene incontro con opportune sonorità alle carenze di alcuni solisti. Questo elemento positivo, si scontra però, a volte con certa mancanza di epicità. Il coro è molto buono e si fa valere in alcune scene di massa: l‘intervento iniziale del popolo e dei guerrieri, il corteo nuziale del II atto, gli interventi corali nei concertati e tutta la parte finale dell‘opera. Leinsdorf privilegia le oasi più liriche e diciamo porta avanti un pò al rallentatore le scene più concitate o agitate (es. la preparazione dell’arrivo di Lohengrin non è molto ‘ansiosa’, mentre appare piùmovimentato il finale I. Poco tetro e, addirittura, un pò fiacco l’avvio del II atto e lo stesso duetto Telramund-Ortrud manca dell’atmosfera sinistra di complotto che dovrebbe esprimere, anche se poi l’interludio 2a-3a scena è fastosissimo e così anche il finale II (fiati sensazionali e ugualmente sonoro l’organo, nonché ben delineata la frapposizione del tema del dubbio). Grossi aggettivi si potrebbero spendere sul III atto con un Preludio notevole, ma sempre entro i limiti del buon gusto senza strafare. Singolare poi l’interludio 2a-3a scena che inizia con tinte dense e lente per poi proseguire con maggiore dinamismo e altrettanta solennità. Anche il finale dell’opera è notevole. In sostanza, pur con i limiti detti, una bella direzione: all’insegna della tranquillità che offre appunto uno studio di registrazione. Un ambiente del genere però non dovrebbe tollerare la presenza di una Elsa limitatissima nell’espressione e nel materiale vocale. In sostanza, la Amara trasforma Elsa in una figurina simile a quella che anni orsono si vedeva in tv pubblicizzare dei formaggini e ciò con risultati facilmente prevedibili: sempre uniforme nel suo limite vocale che più di tanto non le consentiva e interpretativamente lontana anni-luce dalla complessità del personaggio che, pur liliale, non è la scema di turno, ma vive di una frattura insanabile che le viene perpetrata e alla quale si abbandona decretando il proprio fallimento. Voce piuttosto povera di armonici e di quella ‘polpa’ che un soprano lirico dovrebbe avere, la Amara ci dà un saggio della sua modestia già nell’arioso iniziale: a tratti pare una soubrette e mancano la forza evocativa e la nota visionaria del personaggio. Inoltre la luminosità che dovrebbe sprigionare Elsa (almeno come personaggio in antitesi con la torva Ortrud) è pressoché assente: c’è solo questa vocina e con questa si va avanti fino a scadere – come accade nella frase «Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» – nel piagnucoloso. Analogo discorsoandrebbe fatto per l’aria «Eucht Lüften» dominata dal bamboleggiamento e nel successivo duetto con Ortrud che non è certo una delle pagine memorabili di quest’edizione, dove riascoltiamo questa Elsa-Barbie. Tutta l’aria di smarrimento e di agitazione del concertato del dubbio che precede il finale II invano lo si ritrova e neppure la progressione spasmodica del lungo duetto con Lohengrin del III. C’è una certa animazione verso la fine dell’opera, ma il risultato è sempre molto basso: Elsa non può essere ridotta ai tratti vocali-interpretativi della mozartiana Susanna o della pucciniana Musetta. Nemmeno è da lodarsi la Gorr sensibilmente in declino rispetto alla precedente edizione: intanto in alto ogni acuto è un grido e possiamo immaginare cosa accade nei momenti più infocati della sua parte (l’invocazione agli dèi pagani, lo scontro con Elsa dinanzi alla chiesa e i tre interventi, senza contare anche le ‘modeste’ salite dell’unisono «Der Rache Werk» con Telramund nel II atto), ma poi anche la sua interpretazione non ha lo scavo della parola che dovrebbe avere e lo si nota nei due duetti consecutivi del II atto. Alcuni esempi: l’avvio di «Nur eine Kraft…» è privo di mistero, confuso anche il «Könntest du erfassen» che invece dovrebbe essere il morso del serpente di Ortrud specie nelle frasi finali e, per finire, l’accento fuori carattere di «Ha! dieser Stolz» all’unisono con Elsa. Hines come Re dice poco: voce inizialmente robusta, manca tuttavia di vera autorità (fiacchi il «Gott allein» e il «Mein Herr und Gott») e vocalmente mostra qualche oscillazione. Dooley rivela, come Telramund, un timbro piuttosto chiaro e, nel I atto, mostra un accento più ieratico che grintoso: abbastanza animato nel duetto con Ortrud, tuttavia sul piano vocale non si copre di gloria in alcuni punti, rivelando, ad esempio, un’incertezza (quasi al livello della stonatura) all’attacco di «O Weib, das in der Nacht…»., Troviamo poi Dooley poco incisivo e a tratti coperto dall’orchestranello scontro davanti alla chiesa. Tutto sommato una prestazione manchevole, ma in misura minore delle donne di cui s’è detto sopra. Marsh è un Araldo che, dall’espressione un pò sfocata dell’inizio, passa ad una decorosa routine: non fa guai, ma neppure lavora troppo sulla parola, prerogativa indispensabile per questo personaggio. Konya, ormai acclamatissimo nella lunga frequentazione di questo personaggio (è stato uno dei protagonisti anche dell’edizione allestita nel ‘63 all’Arena di Verona, con la Zeani, Rossi-Lemeni, la Minarchi e Protti), è il migliore in campo, ma non è perfetto. Intanto il declino si sente (fiati più corti, qua e là aperture di suono in basso e acuti non più lucidi come un tempo), anche se la tranquillità della sala di registrazione gli consentono di mascherare meglio i limiti. Sul piano interpretativo è uniforme, muovendosi sempre nella direzione dell’affettuosità e della gentilezza (addirittura zuccheroso non appena appare nel I atto: cf. il suo «Nun sei bedankt») un pò fini a sé stesse e senza piglio epico o eroico nei momenti in cui serve (due esempi: l’enunciazione del divieto nel I atto, oppure nel III, l’«Höchtest vertraun…» che dovrebbe essere, a suo modo, intimidatorio è molto generico e generico pur con tutte le note a posto), ma nemmeno senza variare un pò sul piano del mistero, dello stupore, della delusione per il comportamento di Elsa. Tutto quel grande banco di prova che dovrebbe essere il duetto del III atto (in quest’edizione è uno dei più brutti registrati), scivola via all’insegna dell’uniformità: certo si rimane ammirati per una voce cremosa, lattea e compatta, ma dopo ciò genera noia. È un fare indigestione con dello yogurth che, in se, fa bene, però…. In parole povere: il tanto osannato Lohengrin di Konya è stato effettivamente un bel personaggio, ma non quel campione che lo si vuol far passare: ad esempio, Thomas (e non citiamo quelli prima di lui) gli era superiore in espressività. Ma si sa questa theosis è frequentenell’ambito dell’opera, ma bisogna vedere se essa possiede tutti i requisiti per poter essere effettiva e reale. Nel caso di Konya e del suo Lohengrin, personalmente non sono d’accordo.
1966 PONTO N. Gedda – A. Nordmo-Løvberg – B. Ericson – R. Jupither – B. Rundgren –
(PO 1011) I. Wixell
Kungliga Teaterns kör und Hovkapellet – Dir. S. Varviso (3 CD)
È un’edizione di media levatura con un protagonista di cartello e con cointerpreti che gli reggono un pò lo strascico. Presenta qualche taglio (oltre alla II parte dell’addio di Lohengrin, è assente anche una sezione dell’accusa di Telramund nella scena davanti alla Chiesa del II atto: «Wie staub vor Gottes, ecc.»). La direzione di Varviso è piuttosto spenta anche se sostanzialmente ben condotta. In alcuni punti cruciali, come l’arrivo del protagonista, la tensione è diluita ed egualmente il duello. Ad esso segue un Finale I piuttosto veloce e alquanto sommario. Nel II atto manca un po’ l’atmosfera notturna e sinistra che fa da cornice ai ‘cattivi’ e poco mistero avvolge anche la frase di Ortrud «Weisst du, wer diesel Held, den hier ein Schwan gezogen an das Land». Fiacco è anche il corteo nuziale e carente di tensione lo scontro Elsa-Ortrud dinanzi alla Chiesa, mentre ben impostato il concertato del II atto dove hanno ben risalto tutte le voci. Ma anche dove l’orchestra è ben condotta c’è sempre quest’impressione di appiattimento delle passioni popolari senza contare che le trombe non poche volte steccano.
Gedda è, tutto sommato, un buon Lohengrin anche se non ha molti colori. Intanto la voce è piuttosto grigia, sale bene, è vero, non ha problemi nell’accentare in modo epico (specie nella cacciata di Federico che insidia Elsa nel II atto e nella scena dello scoprimento del cadavere di Telramund e successiva accusa a Elsa del III). Però non abbiamo tutte quelle sfumature che ci si sarebbe potuti da lui attendere (ad esempio il famoso «Heil dir Elsa» è risolto diforza più che darci un piano come si dovrebbe). Inoltre non c’è mai un vero piglio amoroso e ciò è avvertibile nei dialoghi con Elsa e, ovviamente, nel duetto del III atto, abbiamo buon comportamento, cortesia e gentilezza ma non quel sottile erotismo che Lohengrin dovrebbe covare al fondo del suo misticismo e della sua luminosità (che vedremo poi in Domingo). In alcuni punti poi Gedda dà l’impressione di un professore che indichi le maniere con le quali cantare e nulla più (ad esempio nel comminare il divieto ad Elsa), oppure per carenza di calore compita benino, ma freddamente, la frase di avvio del duetto del III atto «Das süsse Lied verhall…». Non si può discutere la correttezza e la maestria di alcune frasi, ma a mio avviso non è un Lohengrin particolarmente entusiasmante. Ritorna dopo l’edizione del 1960 la Nordmo-Løvberg: voce fissa e statica all’inizio dei suoi interventi acquista gradualmente forza ed espressività, anche se non ci risparmia dei suoni striduli o gridati. Non è una Elsa memorabile anche perché quando vuole essere liliale i tentativi sonori non sono eccelsi sempre per queste carenze negli acuti. Alcune frasi del I atto («Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» oppure «O fänd jubelweisen») non erano belle nel ’60 e figuriamoci ora. Però non è tutto da buttare perché l’espressività, specialmente nel III atto, si fa valere e soprattutto il graduale trapasso dalla tranquillità amorosa all’agitazione psicologica del duetto con il protagonista e ciò nonostante i suoni non sempre belli per le carenze suddette. Soltanto a sprazzi (ed è un peccato che ciò non accada sempre) la Nordmo-Løvberg si sforza di alleggerire ed il personaggio è maggiormente persuasivo. Segnalo il caso della II parte del duetto con Ortrud dopo l’invocazione agli dei pagani dove è ben evidente il divario delle due voci femminili..
La Ericson ci presenta un’Ortrud fosca, animata e determinata. Tuttavia il limite è dietro l’angolo ed è quello della monotonia espressiva: nonabbiamo infatti particolari sottigliezze sebbene il suono – specie in centro – è morbido e facile. In alto, invece, questa Ortrud non è esente da forzature e ciò nella parte finale dell’invocazione «Enthwehite Gotter !», nello scontro davanti alla Chiesa con Elsa e nei tre interventi finali dove, dato il concitato momento, il suono è abbastanza urlato.
Corretto, ma di scarso peso specifico il Telramund di Jupither: timbro chiaro ed espressione iniziale piuttosto calma e gelida. Emerge tuttavia un personaggio più vittima che vendicatore, anche perché quando egli tende a tirar fuori le unghie fa quello che può per limiti di suono. Anche Rundgren è un Re abbastanza sfocato; vorrebbe avere certa autorità, ma la fiacchezza è un po’ la sua sigla anche se ben mascherata sotto un timbro genericamente corposo. L’allor giovane Wixell è un Araldo di voce chiara e ben emessa. Però gli fanno difetto la perentorietà (preparazione del duello nel I atto e proclami contro Telramund nel II): si direbbe un Araldo troppo pacifico e tranquillo e in questo concorre un po’ alla sigla di tutta l’edizione, quella di una generica calma, quando Lohengrin desidera ben altro.
1967 GOLDEN MELODRAM S. Kónya – H. Harper – G. Hoffmann – D. McIntyre – K.
(GM 1.0035) Ridderbusch – T. Tipton
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. R. Kempe
(3 CD)
Terza testimonianza dell’arte direttoriale di Kempe che torna a dirigere l’opera dopo le felici esperienze del 1951 e del 1962-63. L’esecuzione è integrale (con il solito taglio di tradizione della 2° parte del racconto di Lohengrin) ed è chiaro che si tratta di un’ulteriore prova di maestria in cui tornano diversi elementi comuni all’incisione in studio EMI, sebbene questo live possiede una resa sonora buona, ma non ideale. In particolare, si nota la capacità che Kempe ha di sottolineare alcuni momenti topici dell’azione con lunghi ma eloquenti silenzi (‘da voragine’ potremmo definire quellodopo il II appello di richiamo a Lohengrin, oppure tutta l’introduzione al concertato prima del duello nel I atto). Qua e la affiora tuttavia qualche eccesso di lentezza (arrivo di Lohengrin, l’intervento corale «In Früh’n versammelt uns der Ruf») o di pesantezza (entrata di Elsa), ma sono piccoli nei a fronte di un’esecuzione strumentale davvero molto varia nella quale si armonizzano il carattere marziale, la solennità, l’atmosfera tenebrosa dell’inizio del II atto ed il successivo sviluppo del duetto dell’intera scena tra i due ‘cattivi’ nella quale non mancano accensioni nervose durante alcune frasi di Telramund. Il tutto poi con una morbidezza di suono davvero piacevole ed appropriata. Alcuni episodi hanno poi note originali: il corteo nuziale inizia con una disarmante semplicità per poi rispettare alla lettera il crescendo tale da creare un perfetto contrasto con l’entrata furiosa di Ortrud. Il finale I è fastoso e opulento e quello del II atto ci presenta un coro solennissimo ed una sapente alternanza di ff: dapprima la gioia, quindi il dubbio e, da ultimo, ancora la gioia. Curatissimo il rapporto tra voci ed orchestra tale da valorizzarne alcune e … soccorrerne altre impostando tempi tali da evitare il peggio. I cori danno una prova molto valida e segnalerei il famoso Inno nuziale del III atto in cui la sofficità di suono e la compattezza si sposano davvero. Fra i cantanti chi precede tutti è il Re Enrico di Ridderbusch alla sua prima prova in questo ruolo: voce monumentale e dizione splendida, unisce baldanza giovanile e serietà solenne laddove occorre. Molto paterno e dolce nel rivolgersi ad Elsa ci regala poi due momenti di pura grandiosità: il «Gott allein soll jetz in diesel Sache not entscheiden» molto sonoro e robusto e il successivo ed orante «Mein Herr und Gott» che dà inizio al concertato prima del duello. Ciò che colpisce in Ridderbusch è la sua capacità tecnica di attaccare un suono (anche ad elevata tessitura) mantenendo però un’emissioneleggera, mai reboante e tale da conferire una grandissima umanità al personaggio. Inoltre abbiamo un re baldanzoso tale da attaccare nel II atto, dopo il concertato del dubbio, un «Mein Held, entgegne kühn dem Untetreuen» giovanile, splendido e vagamente sorridente (e il momento lo richiede perché in fondo riconosce in Lohengrin tutto il sovrumano carattere che gli è proprio). Analogo tono lo ritroviamo nel III atto nell’«Habt Dank». C’è da osservare che delle quattro prove discografiche offerte da Ridderbusch in questo ruolo, questa è la migliore. Successivamente lo ritroveremo sempre come buon cantante, ma gradualmente sempre meno singolare. Molto bene anche il Telramund di Mc Intyre: voce corposa, robusta, accenta bene il suo ingresso, ma sa anche alternare suoni forti e piani, senza però mai esagerare. L’impressione che si ricava dalla sua visione del personaggio è più quella della sconfitta anche se non mancano accensioni d’odio e d’ira. Ciò specie nella parte finale del duetto con Ortrud e nello scontro davanti alla Chiesa. Anche il registro acuto è ben timbrato e contribuisce non poco alla resa del personaggio. Tipton è un Araldo modesto se non mediocre: a volte la voce è chiocciante (specie nel I atto), la sensibilità è quella di un freddo annunciatore televisivo e arriva a proclamare le nozze del II atto in modo spento. Ciò senza contare che in alcune frasi Tipton canta aperto. Nel complesso valide le prove femminili, tuttavia se si dovesse dare la palma di certa originalità ad una delle due verrebbe premiata la Hoffmann e non la Harper. Questa Ortrud infatti rivela sin dalle sue prime frasi un fraseggio molto moderno con soluzioni espressive (e buona voce) che ritroveremo amplificate nella Mejer (Ed. Abbado). Faccio un esempio: il dialogo che inizia con le parole «Weiss du wer dieser Held» mostra un’accentazione molto accurata senza tuttavia rinunciare ad un suono pieno e compatto. Analoga finezza (se di finezza si può parlare in un brano come questo) laritroviamo nell’invocazione agli dei, ma meno originale poi appare il «Könntest du erfassen» che non ha completamente quell’aura di mistero e di interrogatività. Nello scontro, la Hoffmann è buona e raffinata interprete nei primi due interventi (condotti con certa lentezza e carenti della loro rovente atmosfera), mentre nell’ultimo appare un po’ manierata nell’espressione. Sul piano vocale abbiamo però una fondamentale correttezza che ci rende anche sopportabile quell’inevitabile (a volte) tensione che si genera in chi canta l’ultimo intervento dell’opera («Erfart, wie sich der Götter rächen…»). La Harper è più convenzionale sul piano interpretativo, ma tutto sommato corretta: sale bene nel settore acuto, da significato a ciò che canta, però l’espressione gioiosa e giovanile non è particolarmente spiccata, anzi – come nel canto delle ‘aurette’ – si scade nella monotonia e nella fretta. Ma certa genericità la ritroviamo in certi passaggi del duetto con Ortrud. Nel duetto del III atto si aggiungono qua e la delle tensioni in alto anche se qui, occorre dirlo, l’interprete è più animata e vivida.
Kónya è alla sua sesta registrazione dell’opera ed è chiaro che il declino si fa sentire. Il fascicoletto inserito nel cofanetto – che, peraltro, riporta solo la divisione in tracks e cenni biografici delgli interpreti, ma non il libretto – ci spiega che il cantante ungherese cancellò le successive recite per motivi di salute (lasciando il ruolo a J. King). Tuttavia l’anno successivo, Konya fu ancora protagonista di quest’opera sotto la direzione di Bohm. Ne abbiamo parlato a proposito dell’edizione GALA 1964. La cattiva forma può essere all’origine di quanto ascoltiamo qui soprattutto nelle emissioni più liriche, nelle mezzevoci e nei piani il suono è oscillante e malfermo come appare ad esempio nell’entrata («Nun sei bedank, mein lieber Schwan»), anche i fiati si sono accorciati. Al centro e nelle emissioni a voce piena il declino è mascherato e si sente di meno, maciò non toglie che abbiamo qua e la pesantezza di suono («Nun hört ! Euch Volk und Edlen, mach ich kund»), oppure certa fatica nell’amministrare i suoni (la vittoria è siglata da un «Durch Gottes Sieg ist jetz mein Leben mein…» non spavaldo come si vorrebbe). Però, nonostante questo insieme di limiti, il cantante si fa apprezzare ancora nell’asciuttezza con la quale ribatte le accuse di Telramund, ma non appena tenta di esprimere certa giovialità («Euch Helden soll der Glaube nicht gereuen») il suono risulta aperto e sgraziato. Fino al termine del II atto abbiamo cose discrete, ma certo non siamo più nella situazione del 1958 tanto che nell’«Elsa, erhebe dich!» la domanda finale («Willst du die Frage an mich tun?») la voce oscilla vistosamente. Luci e ombre si susseguono nel III atto: luci nei momenti di maggiore concitazione (ma anche lì certi suoni tenuti oscillano) dove udiamo ancora certo corpo, ombre nelle rifiniture che vengono meno oppure sono alquanto difettose, oppure prese un po’ a prestito da certi parametri gigliani (cf. edizione italiana della RAI del ’60). Ma poi anche nelle accuse a Telramund e a Elsa l’espressione non è incisiva e l’accorciamento dei fiati è evidente. Nell’«In fernem Land» le difficoltà si concentrano nella parte finale e, in merito, c’è da notare che tutta questa sezione del III atto è improntata da Kempe a tempi piuttosto spediti (soprattutto nella consegna dei tre doni a Elsa) per permettere al cantante di concludere con dignità; il che puntualmente accade e anche a tratti lodevolmente se si tiene conto, ad esempio, che il secondo saluto al cigno è meno oscillante di quello dell’ingresso. Molto bene (e sembra riudire il Kónya degli inizi) la frase finale «Seht da den Herzog von Brabant !». Una prestazione interessante tutto sommato per l’ascoltatore che vuole conoscere da amatore Kónya, molto meno per il melomane attento ed esperto.
1968 GOLDEN MELODRAM J. King – H. Harper – L. Dvoráková – D. McIntyre – K.
(GM 1.0063) Ridderbusch – T. Stewart
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. A. Erede
Edizione piuttosto di routine, sebbene alcuni elementi presentino più di un motivo di interesse. Inizierò come di consueto dalla parte strumentale che sotto un carattere altisonante (qua e là eccessivo) evidenzia poche rifiniture e momenti piuttosto bandistici e caotici a volte anche fuori posto (es. alcuni passi del commento orchestrale del duetto Telramund-Ortrud nel II atto presentano sonorità poco eleganti). A tratti l’atmosfera orchestrale è piazzaiola (cf. arrivo di Lohengrin nel I atto, oppure lo stesso finale d’atto), altri momenti abbiamo monotonia come il Preludio del III atto, mentre nell’interludio tra 2a e 3a scena di questo III atto l’orchestra e le sonorità sono più misurate. È chiaro che, pur essendoci gli storici complessi tedeschi, la direzione di Erede non può certo competere con altri maestri che hanno agito in quest’opera a Bayereuth. Anche il Coro si adegua regalandoci molto suono non sempre però disciplinatissimo.
Fra i cantanti maschili i migliori sono l’Araldo di Stewart alla pari con il Re di Ridderbusch. A breve distanza il Telramund di Mc Intyre e ‘da voi lontano’ (parafrasando la nota traduzione del suo monologo) il Lohengrin di King. Stewart nella non semplice tessitura dell’Araldo sfoggia una dizione ed un piglio ammirevoli, sale con facilità ha un timbro brillante, mentre quando vuole essere più incisivo (cf. l’annuncio del bando di Telramund nel II atto) questa perentorietà diviene quasi ira. Dà cioè l’impressione di essere arrabbiato. Tuttavia ciò non toglie pregio alla sua intera prova. Ritroviamo il Re di Ridderbusch: possente e morbido, provvisto con un fiume di voce che sa piegare anche nei piani (cf. il suo «Mein Herr und Gott» nel I atto è veramente straordinario per eloquenza), pur non rinunciando alla gagliardia sostenuta anche da una notevole capacità del settore acuto. In merito, il suo «Gott alleinsoll jetz in diesel Sache not entscheiden» (I atto) realizza alla lettera la grande solennità del momento unita alla coscienza del suo potere di monarca. Su un piano analogo, ma non uguale (motivato da qualche menda), appare Mc Intyre: rispetto all’edizione dell’anno precedente, il suo Telramund manifesta maggior robustezza ed impetuosità nel I atto dell’opera e, in parte, nel duetto con Ortrud (specialmente nel monologo di apertura «Du fürchterliches Weib…» e quel che segue). Particolarmente espressiva la sua riapparizione al termine del duetto Elsa-Ortrud dove si segnala per la disperazione e la sete di vendetta con il suo «So zieht das Unheil in dies Haus !». Buona nel complesso la scena della sfida della Chiesa anche se qui il volume per sostenere le frasi forse è meno vivido rispetto alla precedente edizione. A ciò si aggiunga che non sempre il passaggio verso il registro alto è impeccabile.
King è un concentrato di monotonia, di assenza di giovinezza, di poca luminosità. La voce è robusta e voluminosa, è vero. Però non è argentea e lucente: ad esempio il «Durch Gottes Sieg ist jetz dein Leben mein» che lo vede vincitore su Telramund non dà l’idea di una vera vittoria. A ciò si assomma la carenza di sfumature e l’espressione più che essere eroica è come assonnata, stanca. Ne viene fuori un protagonista a metà che vale quando c’è da ingrossare il timbro e l’espressività impone fraseggi perentori (ma nemmeno sempre, perché anche qualche frase più bruciante non è risolta con la necessaria disinvoltura), mentre quando deve cantare piano e sfumare i limiti ci sono tanto vocali quanto espressivi. Attacca piano il monologo finale «In fernem land», ma la voce appare ingolfata e piagnucolosa (più avanti nel cantare a voce piena diventa accettabile) e lo stesso vale per il saluto finale al cigno «Mein Lieber Schwan». A mio avviso, non è un Lohengrin che si impone per particolari pregi.
Le due interpreti femminili sono abbastanza valide: la Harper – pur nonvantando una personalità spiccata (specialmente nel lato sognante e celestiale di Elsa: la frase «Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» non è brutta, ma tirata via senza quella soavità che ci si attende) e indulgendo a tratti nella monotonia – nelle linee generali funziona, ma non con piena gloria. La sua è un’Elsa piuttosto volitiva e robusta, poco incline alla svenevolezza, tanto da divenire quasi una sorta di piccola virago nella parte finale del duetto con Lohengrin nel III atto, aprendo il suono in basso e con effetti ridevoli (ciò accade anche nel concertato del II atto dopo lo scontro Telramund-Lohengrin). Ma nemmeno in alto le cose procedono nell’optimum perché il suono, proprio in questo stesso duetto, qua e là è fisso.
La Dvoráková è un’Ortrud molto fosca sul piano timbrico e canta anche bene. Interpretativamente ci dà un personaggio molto imperioso nella parte iniziale del duetto con Telramund del II atto, ma non ha accenti particolarmente sottili nel duetto con Elsa. Come per Lohengrin, per Elsa e, in parte, per Telramund è un personaggio all’insegna della forza (che degenera però in uniformità): è chiaro allora che i passi come l’invocazione agli dei pagani, lo scontro con Elsa (specialmente nel terzo intervento «Ha, diese Reine deines Helden…» dove l’espressione è accesissima) e i tre interventi finali (sebbene qui siamo pericolosamente alle soglie del grido), vedono la Dvoráková davvero interessante, però il suo «Könntest du erfassen…» passa via senza colpo ferire ed è un peccato mortale perché proprio in quella frase (più che in tutte le accensioni di furore) è possibile avere la vera identità dell’indole malvagia di Ortrud. Un parallelismo con l’opera italiana corrisponde alla scena del ventaglio tra Scarpia e Tosca e, ancor più, a quella della descrizione del “fazzoletto visto in man di Cassio” del verdiano Otello. Sono situazioni nelle quali la cattiveria si maschera da rassicurante ed amichevole angelo custode. In quest’edizione invecenon c’è alcuna maschera: tutto o quasi tutto è piuttosto prosaico ed orizzontale e, arrivato a questo punto, passo oltre.
1968 WELTBILD CLASSICS H. Schachtschneider – L. Kirschstein – R. Hesse – H. Imdahl –
(703835) O. von Rohr – H. Helm
Großes Symponierorchester e Chor der Wiener Staatsoper –Dir. H. Swarowsky (3 CD)
Questa edizione si potrebbe definire come un bel saggio di storia medievale. A renderla tale concorre un direttore (Swarowsky) molto attento ed equilibrato che sa fondere in sintesi tutti i vari caratteri e le diverse componenti dell’intreccio. In alcuni punti abbiamo anche rifiniture che non è dato udire in edizioni più celebrate (ad esempio, il coro nuziale all’inizio del III atto è un vero cesello di piani e forti). Si inizia con un preludio luminoso e trasparente nei primi accordi per poi dilagare in tinte piene e solenni, diametralmente opposto a quello cupo ed arcano all’inizio del II atto. Abbiamo poi come costante dell’esecuzione un notevole lavoro di insieme tra orchestra, solisti e coro. Quest’ultimo non si limita a cantare, ma interpreta a seconda dei momenti di attesa, sospensione, violenza, momenti in piano e sommesso alternati a scoppi clamorosi laddove occorrono, ecc. I concertati finali del I e II atto – specialmente quest’ultimo – sono eccezionali per larghezza, sonorità ma anche per il rispetto dei solisti e coadiuvati da un coro notevolissimo. Fra i cantanti si mettono subito in luce Helm (molto franco e scandito) e il basso von Rohr. Anche Imdahl dà prova di sapere il fatto suo: il Telramund che ci propone è vigoroso, ma non sommario e dà l’idea del nobile offeso. Vocalmente la voce è buona salvo qualche momento un pò nasale che in seguito scompare.
La Kirschstein non inizia benissimo: la voce si rivela subito di buona fattura, ma nella sua sortita l’espressione è un pò piagnucolosa. Elemento che tuttavia è solo occasionale perché nel prosieguo della vicenda viene fortunatamentemeno prevalendo la luminosità e la corposità del suono. Notevole nel breve scambio di battute lungo il racconto di Elsa l’espressione paterna mostrata da von Rohr. L’orchestra riprende il volo nel segno della maestosità allorquando si chiama il cavaliere che sosterrà la parte di Elsa ed il cavaliere puntualmente appare con tanto di coro che sigla in modo febbrile la sua comparsa. Schachtschneider è un Lohengrin gradevole scandito, franco nell’espressione, ma altrettanto unidirezionale, nel senso che non è incline alle morbidezze e alle mezzevoci per cui abbiamo solo un essere soprannaturale rivestito di metallo e basta. Va da sé che i momenti più infocati e drammatici lo vedono abbastanza a suo agio, ma con forti sospetti di genericità e altisonanza (ad esempio: nel I atto il divieto ad Elsa e la prima schermaglia con Telramund e ancor più il «Durch Gott Sieg ist jetz dein Leben mein», nel II atto la generica robustezza con cui replica a Telramund, nel III: l’indifferenza di alcuni momenti), mentre nei momenti liricheggianti o dalle tinte sfumate c’è una buona prova o nulla più (tanto che la comparsa e il saluto al cigno rivelano qua e la nasalità ed imperfezioni e così anche il suo rivolgersi ad Elsa è più professorale che da innamorato: alcuni passi del duetto del III atto lo dimostrano). Con questi elementi è chiaro che il Lohengrin guerriero lo abbiamo ben delineato, mentre non si capisce perché Elsa debba dare il cuore ad un uomo che compie il suo ufficio di difensore per dovere professionale. Nulla di sgradevole sul piano vocale in Schachtschneider, ma è abbastanza difficile amare un personaggio che arrivato al monologo finale («In fernem land») lo canta dando l’idea di sbrigarsene subito e lo stesso discorso va fatto anche per l’addio finale ad Elsa. Tale raffigurazione dimezzata risulta evidente anche dal duetto della prima scena del III atto, in cui è evidente come il soprano è vario (qui la Kirschstein sa differenziare bene i momenti), mentre il tenoreresta arroccato sul suo ‘metodo poco espressivo’ e basta. Un Lohengrin più che generico, direi a metà e che raramente sfoggia quelle morbidezze che sono importanti per la completezza del personaggio. Un analogo tratto lo troviamo anche per l’antagonista diretta del cavaliere, cioè Ortrud: la Hesse mostra una forte voce, fosca e regale, ma non appare insinuante come il personaggio vuole. Ciò lo vediamo tanto nei confronti di Telramund quanto – e qui in modo più determinante – verso Elsa, nel loro duetto (II atto), per cui dinanzi alla Kirschstein che ci fa ascoltare un bel cantare pieno e sonoro in alto ed espressivo in ciò che dice, la Hesse butta via alcune frasi 'dall’alto soglio' (parafrasando la Despina mozartiana) della sua regalità (ad esempio il «Könntest du erfassen»), mentre invece dovrebbe penetrare nella mente e nel cuore di Elsa. Ciò non accade sul piano sonoro e si ha a che fare con una nobildonna ieratica della quale si stenta a percepire la diabolica ambiguità, soprattutto quando manca anche la grinta nello scontro davanti alla chiesa. Sul piano vocale non abbiamo neppur qui brutture, ma Ortrud non la si può risolvere in altisonanza che, a tratti, addirittura sparisce come ad esempio nel terzo intervento davanti alla chiesa prima della comparsa della corte. Anzi, in questo scontro del II atto, Elsa si impone maggiormente su Ortrud proprio sul piano della grinta. Anche nel finale dell’opera, la Hesse appare poco perentoria nei tre interventi finali, solo ben eseguiti.
Meglio Imdahl che offre, come si diceva all’inizio, un buon Telramund, nel sottolineare un perseguitato e valido nella voce e nell’espressione nello scontro con Lohengrin dove orchestra e coro imperversano. Imdahl non vanta momenti particolari, ma il personaggio esce meglio rispetto al protagonista, nel senso che è più rifinito. Bene tutto sommato l’Araldo di Helm.
Dell’orchestra e del coro si è detto, ma è necessario porre attenzione all’affiatamento che si avverte traquesti importanti protagonisti dell’opera: orchestra varia e coro che si adegua perfettamente per una narrazione davvero splendida. A prova porto un solo esempio: il commento commosso del coro alla frase di Lohengrin «Heil dir Elsa…» che poi si innalza come un solenne monumento insieme all’orchestra e all’organo nel finale II. Davvero una pagina spettacolare! Purtroppo Swarowsky opera tagli che riducono fortemente lo spazio tra il monologo di Lohengrin e il finale dell’opera. Difatti manca tutto il concertato successivo a «In fernem land», mentre resta la consegna dei tre doni ad Elsa. Anche il finale è suggellato in modo sapiente dall’orchestra.
1968 Reg. Privata L. Bodurov – J. Wiener – N. Afejan – S. Popov – N. Stoilov – S. Markov
Sofia National Opera – Dir. A. Naidenov
Un’edizione avuta di fortuna per la quale, si impongono subito due fattori, uno negativo ed uno positivo. Al passivo pesa l’enorme quantità di tagli e, positivamente, la resa buona pur essendo un ‘live’. Aggiungerei però che, riguardo agli esecutori, pur con i tagli che ci sono, abbiamo un lavoro serio. Esprimendosi nella loro lingua (il bulgaro), questi solisti (pur nessuno di loro eccezionale e notissimo in Occidente, salvo forse S. Markov, Araldo, che compare come Mandarino nella Turandot diretta da Mehta per la DECCA) sanno esprimere qualcosa che, in alcune edizioni successive, latita anche in interpreti più noti e (falsamente) blasonati. Il direttore Naidenov, ad esempio, ci offre un bel Preludio, terso, pulito senza inutili ridondanze e sonorità eccessive (che risultano a volte sbracate), ma per tutto il I atto è buona la conduzione. I primi ad entrare – nell’ordine Araldo, Re e Telramund – sono veramente bravi nella dizione e nell’interpretazione. In particolare Popov nel suo a-solo iniziale scandisce non solo l’accusa ad Elsa, ma le dà significato con una serie di sfumature che talvolta scompaiono sotto la rabbia generica di altri interpreti. Ma poila voce è buona e l’interprete è vigoroso. La Wiener ci presenta un’Elsa un po’ zuccherosa all’attacco del suo Sogno, complice anche un appena percettibile vibrato tipico delle voci slave femminili, ma per il resto l’interprete è animosa e qui abbiamo un primo taglio perché Elsa interviene con tutte e tre le sezioni della sua aria, eliminando le battute di conversazione intermedie tra il Coro e gli altri personaggi. Bodurov inizia bene con un saluto al cigno abbastanza ben sfumato e successivamente ben scandito e franco nelle successive battute alle quali la Wiener risponde bene. Da segnalare prima del duello il «Mein Herr und Gott» di Stoilov molto ben reso ed è ottimo il concertato che si sviluppa con tutte le voci in evidenza e con un’ottima intesa orchestrale. Concertato e finale I: bene l’«O fänd ich jubelweisen» di Elsa, ma qui il direttore tira un po’ via e accelera nel prosieguo. All’inizio del II atto abbiamo un preludio ben condotto ed un Popov che accenta bene senza esagitazione, ma il confronto della coppia nera è mortificato dai tagli che vanno a toccare alcuni snodi importanti come lo scambio di battute tra i due dopo che Ortrud spavaldamente pronuncia il nome di Dio in modo blasfemo. La Afejan è un’Ortrud assai nervosa ed aguzza nelle sue repliche sebbene il registro acuto presenta smagliature. Brava la Wiener nella sua comparsa con le ‘aurette’: voce solida ed espressione senza smancerie. Segue il duetto delle due donne nel quale inizialmente la Afejan appare molto altisonante anche nel racconto della giovinezza disgraziata che, invece, dovrebbe rappresentare una sorta di piagnucolosa captatio benevolentiæ nei confronti di Elsa. L’invocazione agli Dei è molto ben condotta da Naidenov e la Afejan fa quel che può e se anche il pubblico le rende ovazione si sente che la sua grandiosità è limitata. In quel che segue, la Wiener canta bene, ma non quelle sfumature che ritraggono i vari stati d’animo e anche la sua antagonista non si fa pregarenell’appiattire, attraverso un canto tutto sul forte, certe frasi che invece dovrebbero essere sussurrate. In sostanza un’Ortrud poco insinuante che non canta male (tolti i limiti in alto), ma nemmeno si sforza di essere varia ed ispirata come interprete. Da segnalare tuttavia la buona chiusa del duetto delle due donne con una gradevole esecuzione dell’unisono delle due donne. Ottimo Popov nella ricomparsa di Telramund.
Interludio orchestrale e passaggio alla scena delle nozze: decisamente lento l’avvio del brano strumentale con i fiati non perfettamente a fuoco. I proclami dell’Araldo sono scanditi con troppa calma. Di normale amministrazione l’incontro di Telramund con i cavalieri brabantini (solitamente un episodio che viene tagliato, ma che qui è presente). Corteo nuziale: l’orchestra è qui tenuta la minimo per volume, ma emerge in eleganza di accompagnamento. Buona la gradazione e il nervosismo che introduce l’intervento di Ortrud che non è eccelso timbricamente, ma acceso e nervoso. La replica della Wiener è buona, ma si resta delusi perché l’ultimo intervento di Ortrud è tagliato! Piuttosto spento l’ingresso intimidatorio di Lohengrin e le frasi contro Ortrud. Poi il seguito è un collage perché le battute di raccordo spariscono e si passa all’invettiva di Telramund: molto bene Popov che gioca molto più sul bel timbro e la correttezza che non sulla grinta (che, a volte, in altri cantanti diviene caricaturale). La difesa di Lohengrin è forte ed altisonante, ma non pienamente meditata e ricorda certi modi in uso a Melchior negli anni ‘30 e ’40: spavaldo, sì ma soltanto quello. Sparisce tutto il concertato del dubbio e la lusinga-accordo di Telramund con Elsa e si passa subito alla cacciata della ‘coppia nera’ e alle frasi amorose e rassicuranti di Lohengrin verso l’amata. Le ultime battute di Lohengrin sono all’insegna del volume più che di un accento carezzevole che qui andava bene. Bene la chiusa dell’atto II con l’efficace ed equilibrata sottolineaturaorchestrale dei due temi della gioia e del dubbio.
Nel III atto abbiamo un’introduzione piuttosto chiassosa (piatti troppo squassanti) e dai tempi piuttosto stretti, lontani poi i cori nuziali nelle prime battute, mentre nella ripresa divengono più nitidi. Molto corretta la prestazione dei due innamorati nella prima parte del duetto: solido e robusto Bodurov che, tra l’altro, si ingegna ad esser vario e molto aggraziata la Wiener anche se il timbro ricorda quello del soprano leggero più che un vero lirico quale Elsa dovrebbe essere. Però non udiamo suoni sgraziati o sforzati (nemmeno in alto), e neppure manca nella Wiener la progressione drammatica che, nella parte finale di questa scena, rende Elsa esagitata e allucinata ormai preda e prigioniera del dubbio. Buona poi la scena dell’uccisione di Telramund in cui l’orchestra si esprime in termini di silenzio e sospensione ai quali si adeguano tenore e soprano. L’interludio che prepara all’epilogo della vicenda non è prodigo di finezze e scarti prospettici, ma è espresso nei termini dell’altisonanza molto corretta senz’altro ma ad un’unica direzione. Stoilov appare qui un Re Enrico preciso, ma il volume non ridondante della voce (in alto c’è qualche difficoltà) lo rendono poco autoritario, anche se non si può negare la correttezza dell’interprete. La ricomparsa di Lohengrin non ha particolari chiose: Bodurov assolve bene e con grinta il suo ufficio specialmente con la sua duplice denuncia. Con il monologo finale «In fernem land» si cala di livello: è iniziato con certa routine senza particolari approfondimenti: la voce supera discretamente le difficoltà, ma l’espressività, ora eroica ora mistica (con i relativi alleggerimenti), latita e anzi qua e là si fa presente certo disagio nel portare avanti frasi di certa consistenza che tendono all’acuto. Inutile dire che ciò che segue presenta larghi tagli: dopo il monologo, infatti, si passa alla comparsa del cigno e al saluto e di qui immediatamente ai tre interventidi Ortrud che nei quali la Afejan, pur grintosa, mostra suoni piuttosto striduli e urlacchianti, senza contare il timbro piuttosto bianchiccio.
Anche l’ultimo intervento di Lohengrin non è eccelso: a voce spiegata, ma anche con la fatica di tutta la recita sulle spalle. La conclusione orchestrale è sostanzialmente buona e seguono applausi degli astanti.
In sostanza un’esecuzione che, pur non costituendo un ‘pezzo’ di storia interpretativa, descrive l’approccio nell’est europeo di un compositore non appartenente alla matrice slava. Globalmente però siamo al di sotto dell’edizione russa di una ventina di anni prima.
Luca Di Girolamo