Massenet Méditations di Nathalie Manfrino
Aggiunto il 11 Novembre, 2012
Spigolando su Internet l’unica cosa che è difficile scoprire di Nathalie Manfrino è la data di nascita, che comunque immaginiamo non troppo lontana nel tempo, almeno a giudicare dalle foto ma, soprattutto, dalla data di esordio sulle scene, che è il 2001.
Schietta voce di soprano lirico, molto calda e ricca di armonici in prima e seconda ottava, fatica un po’ in terza per colpa di un registro acuto non molto nitido né particolarmente centrato; e questo è il limite purtroppo più invalidante di una cantante per altro squisita sia come gusto esecutivo che come charme. Questa è una cantante quasi ideale per l’esecuzione del repertorio di Massenet di cui quest’anno è ricorso il centenario della morte; e questo disco, fra le poche proposte in tema, brilla per originalità nel suo riproporre anche titoli desueti come, per esempio, la “Griselidis”.
Certo, “soprano Massenet” è una di quelle definizioni che – tanto per cambiare – non significano nulla, giacché Esclarmonde, Griselidis, Fanny e Manon sono personaggi diversissimi fra loro e hanno anche esigenze vocali variabili che non possono essere ricondotte a un unico modello. È quindi grande merito della Manfrino riuscire a trovare per ogni personaggio uno stile adeguato, ma sempre ben riconducibile al particolare modo di esprimere tipico del soprano francese.
Come ascoltatore, ci si mette un po’ ad abituarsi, a “sintonizzarsi” con la cantante.
Inizialmente non ti prende: il dato che emerge con particolare evidenza è che il registro acuto balla, e di brutto anche: non è un caso che si astenga dai passi più virtuosistici, come per esempio quelli di Esclarmonde o di Manon. E poi manca una certa qual liquidità, la soavità d’espressione che spesso siamo portati ad associare alle esecuzioni del repertorio di Massenet, specie se ci fissiamo su alcune più celebri interpreti, fra tutte ovviamente Sutherland e Dessay.
Poi però, ascoltando più volte questo gran bel disco, si resta colpiti dalle altre virtù della Manfrino.
Innanzitutto la musicalità, che è davvero sopraffina e le permette di trovare sempre un colore perfetto per qualunque brano; l’intonazione, poi, è sempre perfetta.
Poi, la duttilità. La Manfrino si piega veramente come un giunco di fronte a ogni esigenza interpretativa (ma si percepisce un’intesa assolutamente perfetta con Plasson) sì da rendere ogni aspetto in brani diversissimi. Valga, come esempio, la sublime resa di due brani molto lontani come – da un lato – “Demain, je partirai” di Fanny Legrand (ruolo Calvé, ricordiamo) in cui trova un tono allucinato e sospeso sul doppio “Je l’aimais tant”; e, dall’altro, il tono di: “Ah! Mon cousin” in cui si apprezza il rapido trascolorare dal fatuo e civettuolo, al melanconico. Fra questi due estremi ci sta veramente di tutto: la mistica dell’invocazione alla Vergine e dell’Ave Maria, il tono seduttivo di Salomè, i colori esotici e l’introspezione.
L’intelligenza le fa giustamente evitare le trappole dei brani più acuti o virtuosistici, che sarebbero potenzialmente esiziali per la sua organizzazione vocale, che suona molto più centralizzante e “bassa” di quanto si possa sospettare al primo ascolto.
E infine lo charme. Adesso non vorrei suonare ovvio o retorico, ma questa cantante sa come fare innamorare di sé e della propria voce, grazie alla bellezza dei colori e alla classe sopraffina nel porgere la frase.
Plasson dirige il tutto in modo magistrale. Conosce alla perfezione questo repertorio, lo ama, e si percepisce molto bene.
Complessivamente un gran bel disco, con un’interprete non perfetta ma perfettamente calata per consapevolezza e classe in quello che dice.
A margine, un’annotazione.
Questo disco evidenzia in modo impietoso alcuni aspetti delle attuali politiche produttive discografiche che meritano di essere sottolineati.
Il ricorso ormai quasi esclusivo alla sala d’incisione per il recital è qualcosa che deve far riflettere: il disco è ancora un veicolo importante, ma solo ed esclusivamente per far conoscere le virtù di un cantante. È quindi importante allestirlo con sagacia e intelligenza come il disco attuale, che permette di sfruttare al meglio le doti della Manfrino non solo coll’evitare le trappole, ma anche con la costruzione attenta di qualcosa che non è ancora uno stile esecutivo – ci vuole ben altro che un disco-recital – ma è comunque un gran bel biglietto da visita.
Si consideri, a paragone purtroppo negativo, il tanto atteso disco di arie verdiane di Villazon accompagnato da Noseda e pubblicato per la Deutsche Grammophone, che fruga nel materiale più classico e comodo, che assembla malamente pochi brani troppo onerosi per la sua attuale vocalità (Ingemisco, La mia letizia infondere), o varianti di nessuna bellezza (la cabaletta alternativa per l’aria dei Due Foscari), o arie da camera.
Credo quindi che la Decca dovrebbe considerare come proprio album celebrativo per l’anniversario di Massenet questo, originale e ricco di materiale interessante e molto ben eseguito; e non l’inutile cofanetto che raccoglie le incisioni che ogni appassionato ha già nella propria discoteca
Pietro Bagnoli