Backstage: Lohengrin - discografia ragionata parte 4 - a cura di Luca Di Girolamo
Aggiunto il 05 Marzo, 2011
1954 HARDY CLASSIC G. Penno – R. Tebaldi – E. Nicolai – G. G. Guelfi – G. Neri – E. (HCA 6010-2) Viaro
Orchestra e coro del Teatro S. Carlo di Napoli – Dir. G. Santini
(3 CD)
La presente edizione soffre di una resa audio piuttosto disturbata e compromessa ed è un peccato perché in alcuni episodi ascoltiamo veramente del buon canto. La lingua italiana pregiudica non poco la resa esecutiva che inoltre è tarpata da una direzione chiassosa e disordinata come poche. Lohengrin ha bisogno di un direttore di fantasia e qui Santini si limita ad accompagnare nemmeno tanto bene. Le scene di massa risultano piuttosto bandistiche (ed il coro certo non aiuta). Ma poi la pesantezza e la trasandatezza albergano sovrane in aggiunta a tagli piccoli e grandi che affliggono l’esecuzione: molti di essi sono ingiustificati anche perché vanno a toccare punti nodali della vicenda, come ad esempio l’accordo di Telramund con il cavalieri brabantini prima del corteo nuziale (II atto II sc.) oppure il terzo intervento dell’accusa di Ortrud dinanzi alla Chiesa (male, molto male: la Nicolai aveva esordito con un fiume di voce che poteva benissimo figurare nel brano mancante). Ma Santini qui si rivela per quello che era: un direttore non certo portato per lavori complessi (basterebbe ricordare il Don Carlo inciso in studio con i complessi romani negli stessi anni). Penno è un Lohengrin in cui molto è preso a prestito da Pertile: non esegue male (anche se in alto tiene poco i suoni), ma non ha l’epicità, la perentorietà ed il misticismo propri di questa figura ai limiti della leggenda. Canta bene, ha una visione lineare del personaggio, brutture non ne fa, ma neppure si impone. La Tebaldi invece è un’Elsa straordinaria (tale da ipotizzare un’edizione in studio guidata da altro direttore ed affiancata da altri colleghi nella quale avrebbe potuto rendere un’esecuzione delle migliori. Nessuno ci ha pensato, peccato mortale !): la voce è radiosa in tutta la gamma e certipianissimi sono davvero magici (cito un solo esempio: la conclusione delle aurette del II atto) ed il pubblico recepisce ed applaude a valanga (da notare però che Napoli era una delle ‘piazze’ in cui la Tebaldi era idolatrata). Ma poi la concezione stessa del personaggio non ha nulla da invidiare alle colleghe tedesche che sovente oscillavano tra la pupattola e la matrona, anzi a tratti le supera in virtù di un accento candido, senza tuttavia rinunciare nei momenti più infuocati a fraseggi decisi e nervosi sostenuti sempre senza la minima forzatura. A voler essere proprio pignoli ciò che difetta alla Tebaldi è la corda giovanile che è sostituita dalla sua proverbiale soavità. Male invece è l’aggettivo che si addice alla coppia dei ‘cattivi’: Guelfi è piuttosto inelegante, iracondo con tanta voce e solo quella e la Nicolai egualmente sfoggia una notevole estensione (la chiusa dell’invocazione agli dèi è tesa al grande e riuscito effetto sul pubblico), ma anche molta approssimazione interpretativa. Insomma una coppia di brutti e cattivi, quando invece Telramund dovrebbe avere un misto di stupore, di disperazione e di vendetta e Ortrud non deve ridursi alla solita copia ‘al negativo’ di Turandot, quanto avere un fondo di malsana e maligna sensualità oltre che giocare di calcolo. Un Protti ed una Stignani (anche se non più freschissima all’epoca, ma padrona del ruolo che cantava già all’epoca di Pertile), ad esempio, avrebbero senz’altro fatto molto, ma molto meglio. Neri come Re ci presenta il solito vocione da Grande Inquisitore, ma all’occorrenza è morbido ed offre un’interpretazione apprezzabile. I maggiori tagli colpiscono la sua parte. Viario è un Araldo molto vicino ai toni degli annunciatori televisivi.
1958 MYTO S. Kónya – L. Rysanek – A. Varnay – E. Blanc – K. Engen – E.
(3 MCD 890.92) Wätcher
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. A. Cluytens (3 CD)
“Un mito da ridimensionare, almeno parzialmente”.Questo potrebbe essere il commento a questa edizione che, dalla critica ufficiale, è ritenuta una delle migliori se non la prima. In realtà non tutto quello che si ascolta è ottimale. La direzione di Cluytens è abile nel descrivere i vari ambienti e momenti attraverso i quali si snoda la vicenda. Ma è, appunto, descrizione, non approfondimento e ciò non rende un buon servizio all’autore. Alcuni esempi: manca una trascinante atmosfera gioiosa nel finale I che è piuttosto tirato via. Anche l’inizio del II atto, pur accurato, è generico e gli accordi festosi provenienti dall’interno non sono un modello di precisione. Ugualmente l’invocazione agli Dei non è, sul piano orchestrale, particolarmente coinvolgente e, da ultimo il finale II è piuttosto banale e fondamentalmente spento. Il coro si comporta di conseguenza. Ma è un po’ tutta l’esecuzione strumentale che porta alla conclusione della cosiddetta normale amministrazione, oppure della routine di lusso. Fra i cantanti il primo posto va a Blanc che ci offre un Telramund interessante e morbido nell’emissione (un po’ nasale forse) oltre che dotato di buona linea di fraseggio. Ne scaturisce un personaggio più perseguitato e triste che vendicatore assetato e assatanato: è comunque lontano dalle beceraggini che si sentono altrove. Rispetto a precedenti prove la Varnay è usurata e ci fa udire parecchi suoni poco ortodossi in zona acuta (cf. Invocazione agli Dei pagani, scontro con Elsa del II atto e i tre interventi finali dell’opera), ma udiamo ancora un’Ortrud perfettamente compresa in quella che è la sua indole malvagia e maligna. Kónya si costruì un mito attorno al personaggio di Lohengrin, ma riudito oggi risulta piuttosto superficiale in rapporto alla complessità del personaggio, senza contare che in alcuni punti la voce non è immune da difetti. Ciò accade negli attacchi in zona medio acuta che lo vedono in difficoltà (cf. ad esempio, l’attacco del suo «Heil dir Elsa ! Nun laß vor Gott uns gehn!» non certo da museo).Ciò che manca è tanto la dimensione guerriera del personaggio, ma anche quella mistica e sognante non appare particolarmente spiccata. Nel monologo finale l’inizio è buono, però subito si scantona in una espressività a tratti melensa. La voce è compatta e morbida, ma poco incline a sfumature di sorta o pianissimi, anzi talvolta canta con certa meccanicità. La Rysanek è un’Elsa molto alterna: intanto la sua intonazione non è ineccepibile, in alcuni punti tende a calare, ma poi diversi passaggi non sono precisamente a fuoco: nella sua aria di sortita ciò accade spesso, senza contare che alcune frasi ci presentano un suono fisso già in zona centrale. Inoltre le manca quell’innocenza che è un po’ la sigla del personaggio, anzi a tratti è piuttosto matronale e pesante psicologicamente: le ‘aurette’ sono venti tropicali, rigidi pesanti nell’espressione e soventi fissi nel suono oppure oscillanti (cf. le ultime frasi) Tuttavia qua e là cerca di ammorbidire e trova un momento davvero magico e ricco di pianissimi nella risposta ad Ortrud nel II atto («Du Ärmste kannst wol nie ermessen») quando ormai la malvagia donna le ha instillato il dubbio sul suo sposo misterioso. Peccato che tale momento non sia una costante della prova della Rysanek. Sta di fatto comunque che, in grandissima parte di questo duetto, non abbiamo una reale differenziazione non solo di personaggi, ma anche di modi interpretativi. L’idea è quella di un incontro di due signore che parlano del più e del meno.
Engen è un Re di limitato spessore, ma non da rifiutare in toto specie per il buon timbro, mentre molto bravo si dimostra Wätcher nella parte dell’Araldo. Buona la resa audio.
1959 ORFEO S. Kónya – E. Grümmer – R. Gorr – E. Blanc – F. Crass – E. Wätcher
(C 691 063 D) Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. L. von Matačić (3 CD)
Anche questa edizione è un “live bayereuthiano” dal buon suono e dalla resa complessiva soddisfacente, ma non ideale peralcuni limiti dei cantanti che sarebbero da ascriversi a certa mancanza di fantasia più che a carenze vocali propriamente dette, sebbene queste non siano del tutto assenti. La direzione di von Matačić è un po’ a senso unico in quanto privilegia le pagine più scopertamente mosse e drammatiche rivestendole di tinte dense. Ciò andrebbe anche bene se tuttavia questa direzione non fosse avara di quelle tinte rarefatte che sono presenti in quest’opera specialmente in certi squarci dove ad operare sono Elsa ed il protagonista. Anche sulla scelta dei tempi ci sarebbe qualcosa di ridire in quanto alla lentezza del duello Telramund-Lohengrin fa riscontro un’esecuzione piuttosto affrettata del finale I. Altisonanti e solenni sono anche la scena del corteo nuziale e tutto il finale II, mentre poco poetico appare l’accompagnamento del celebre inno nuziale che apre il III atto e decisamente marziale e barbarico l’interludio che ci fa passare 2a e alla scena 3a del III atto. In sostanza una direzione alterna, non brutta certo (ho assistito a diversi spettacoli diretti da von Matačić e devo dire che elettrizzava), ma con tanti ‘distinguo’. Inoltre l’esecuzione presenta il taglio della II parte dell’addio di Lohengrin e quello delle profezie sulla Germania.
Fra i cantanti al primo posto è la Grümmer, una delle migliori interpreti di questo personaggio. Anzitutto la capacità di delineare in modo vario e attento tutte le fasi della contorta psicologia di Elsa e questo espresso con una voce che da cristallina e pura del I atto con tutte le finezze che esso comporta, passa ad acuti solidi (pur non ‘grandi’) precisi e mai sforzati della parte finale del duetto con il protagonista del III (le tre domande fatali sono un capolavoro espressivo di eccitazione nevrotica espressa con il canto e non con il grido). Sarebbe lungo enumerare i passi in cui questa Elsa ci fa emozionare: certo, le due arie sono lì a testimonianza (anche se nella seconda – le ‘aurette’ –qualche sfumatura in più non avrebbe guastato), ma ciò che maggiormente colpisce sono le frasi singole di conversazione dove abbiamo davvero la maestria dell’interprete e della cantante: ne cito una per tutte cioè il «Mein Retter, der mir Heil gebracht!» (e quel che segue) del II atto: sono 4 righe di testo, ma cantate e recitate con un’intelligenza ed un suono da trasecolare ! Grandissima prestazione globale. Poi ritroviamo Wätcher come Araldo che è molto bravo: di buona dizione e di voce solida. Protagonista è Kónya che la critica togata ha sempre super-esaltato perdonando limiti che, in realtà, allontanano la sua prestazione dalla perfezione. Intanto, rispetto alla precedente edizione, i difetti si sono accentuati: pur vantando una notevole morbidezza in centro, si sentono difficoltà verso l’alto e, tra l’altro, anche il ‘modo’ con il quale porta il suono verso il settore acuto presenta degli strani piagnucolii. A ciò si aggiunga che, anche qui come per il direttore, abbiamo una raffigurazione a senso unico. Kónya è un grande lirico, ma quando Lohengrin deve fare l’eroe (alcuni passi del I atto, prima della sfida e tutta la scena dello scoprimento del cadavere di Telramund nel III) non emerge. Non canta male, certo, ma i guizzi di un Melchior (per non dire di Völker, di Anders e, successivamente, di un Thomas) invano li possiamo trovare qui. Ne viene fuori un personaggio affine a certe caratterizzazioni di Gigli (una fra tutte il suo Radames) e nella galleria dei vari tenori che hanno cantato e interpretato questo ruolo in modo se non innovativo, almeno approfondito, non ce lo porrei. So di andare un po’ contro-corrente, ma a me Kónya non ha dato impressioni totalmente positive e ciò specie nel fatto che questa carenza di eroicità lo tramuta a tratti in un bambinone e ciò anche per certi suoni che, volendo egli addolcire, si sbiancano. È chiaro allora che Elsa e Lohengrin parlano – anche interpretativamente – due linguaggi diversi e comunicano soloparzialmente.
Per la coppia dei cattivi si potrebbe sintetizzare il giudizio in una frase: “una serie di occasioni perdute”. Blanc e la Gorr pur corretti (specie il primo, la seconda qualche problema ce l’ha) esprimono poco o nulla ed è un peccato perché il materiale vocale c’è in entrambi, ma non completamente piegato a fini espressivi. Quando detto potrebbe bastare, ma bisogna almeno lodare quest’ultimo elemento menzionato: fa piacere sentir cantare Blanc, però poca disperazione, poca rudezza in un personaggio che, in fondo, la richiede (cf. certe frasi del monologo che apre il II atto): ritroviamo un perdente e basta. Anche l’unisono del «Der Rache Werk sei nun beschworen» con Ortrud è ben cantato e basta, senza aura di mistero o di complotto, l’orchestra in questo aiuterebbe ma i cantanti non vengono fuori a dovere.
Stessa cosa in fatto di poca partecipazione al personaggio deve dirsi della Gorr con l’aggravante che, nonostante il materiale vocale qui esibito (di per sé notevole in quanto il suono è corposo), i difetti si fanno sentire. Ciò accade specialmente nel settore acuto dove i suoni sono a tratti un po’ forzati (cf. alcuni momenti del duetto con Elsa, l’invocazione agli dei pagani e lo scontro davanti alla chiesa) o addirittura gridati (cf. i tre interventi del finale dell’opera). Quindi abbiamo una prova vocale buona in generale, ma faville interpretative pochissime e ciò anche a causa di un fraseggio sempre uguale e, alla fine, monotono. Crass è un Re Enrico autorevole e di buona voce. Buono il settore acuto anche se qua e là il suono svela qualche nasalità.
Un’edizione, in definitiva, che si fa ascoltare con certa piacevolezza e che ci presenta una delle migliori interpretazioni di Elsa.
1959 WALHALL B. Sullivan – L. Della Casa – M. Harshaw – W. Cassel – O. Edelmann
WLCD 0263 – M. Sereni
Orchestra e Coro del MET – Dir. T. Schippers (3 CD)
Questa edizione, da me casualmente scoperta, fapensare ad un esame scolastico sostenuto da un candidato di grandissima ed originale levatura, per sé molto preparato che, tuttavia, però alle esigenze dell’esame si mostra con buchi piuttosto evidenti e che, dinanzi ad un argomento centrale del programma e della materia, fa scena muta. Si sa come sono gli esami a scuola: alla preparazione ci vuole anche certa dose di fortuna, ma a Schippers (il nostro studente), che era un grandissimo direttore, la fortuna sul piano della direzione orchestrale non serviva: sapeva il suo mestiere e lo svolgeva con originalità. Però qui si rende responsabile di diverse improprietà ed è un vero peccato perché mai forse prima di questa edizione si è sentita una direzione dove l’orchestra a tratti ‘canta’ con tonalità tutt’altro che rigidamente teutoniche. Un Lohengrin cantato in tedesco, ma che dà ragione al fatto che quest’opera è quella forse più all’italiana di Wagner. Direzione ottima, ma esecuzione che lascia abbastanza desiderare. Anzitutto i tagli: un vero peccato che Schippers ne abbia praticati molti di grande e media entità specialmente nel II atto. Fra essi inspiegabile (l’argomento centrale dell’esame del precedente paragone) è quello relativo all’accordo tra Ortrud e Telramund del II atto (a partire dal «Weisst du, wer dieser Held…» fino al «Ha wie du rasest!» incluso) anche perché il commento orchestrale a questo duetto (o meglio a ciò che resta) è notevolissimo: Schippers è cupo, ma senza essere reboante e con grande finezza strumentale. Ma tagliati sono anche l’accordo di Telramund con i cavalieri brabantini, alcuni passi del corteo, il concertato del dubbio, alcune frasi tra Lohengrin ed il coro prima del dialogo Telramund/Elsa con la successiva cacciata del conte da parte di Lohengrin (qui il protagonista è veramente floscio e poco autoritario). Vengono anche amputate alcune frasi del concitato intervento di Telramund davanti alla chiesa. La direzione per quello che è dato di sentire è molto bella perché dà l’idea diconoscere la vicenda e i personaggi. Faccio alcuni esempi: ad un preludio I veramente terso e nitido, ma non melenso quanto piuttosto denso dopo le tinte soavi della prima parte è singolare l’accompagnamento della sortita di Elsa: eterea nella prima parte, mentre più cavalleresca nella seconda. Nervosissima l’atmosfera all’arrivo di Lohengrin, l’orchestra fa scintille ma mai disordinata. Sfarzoso il commento al duello e grintoso e stringato (forse troppo) il finale I. Nel II atto abbiamo dei momenti eccezionali specialmente nell’ariosità con cui Schippers accompagna Elsa («In Fruh’n lass mich bereit dich sehn…») e sostanzialmente buono appare anche tutto l’interludio 2a-3a scena. Il Finale II è un’altra perla in solennità senza degenerare in pesantezza: coro, trombe ed organo sono amalgamati, ma forse il tema del dubbio (corrispondente scenicamente al gesto di trionfo di Ortrud) è poco incisivo e non squarcia a dovere e sinistramente l’atmosfera gioiosa ed entusiastica. Anche nel III atto compaiono tagli inspiegabili al duetto tra Lohengrin ed Elsa che deve vivere e prende significato da ogni battuta in quanto si tratta di un progressivo disorientamento generale (ad esempio tutto quello che c’è tra le due frasi «Fühl ich zu…» e «Einsam wenn niemand wacht» e più avanti scompare la sezione centrale dell’intervento di Lohengrin che inizia con «O gönne mir…» e altro peccato mortale è il taglio dell’accusa ad Elsa: «Zum Andren…»). Ad un preludio e coro iniziale (quello nuziale) abbastanza ben svolto e ad un solido accompagnamento del duetto Lohengrin-Elsa si contrappone una caotica esecuzione della prima parte dell’interludio tra 2a e 3a scena (sembra di ascoltare musica non wagneriana) mentre la seconda è ben ritmata e ci introduce alle fasi finali dell’opera dove ritroviamo ancora altri tagli (dopo la frase di Elsa «Mir schwankt der Boden…» si arriva alla ricomparsa del cigno). Un po’ canzonettistica nell’andamento mi pare la conclusione dell’opera specie allacomparsa di Goffredo. Una direzione insomma dove le ombre (tagli, improprietà ed altre amenità) prevalgono sulle luci (senso del teatro, dinamismo squarci innovativi di alcune scene non più segnate da pesantezza di desueta tradizione). Questo è lo Schippers che approda ad un’edizione valida per metà: laddove le buone intenzioni realizzate vengono bilanciate da veri e propri limiti nella parte strumentale (i tagli e certo disordine che affiora qua e là) e in quella vocale con un cast largamente deficitario L’unica luce che proviene dalla compagnia di canto è la Elsa di Lisa Della Casa: luminosa, immacolata, puro cristallo, ma senza modi svenevoli o bamboleggianti. Una Elsa che sa farsi largo nell’orchestra in certi passi arroventati del III atto e mantiene sempre il controllo e l’eleganza leggiadra del suono. Anticipa per certi versi quanto troveremo nella Janowitz con una voce però più corposa ed una linea interpretativa più consistente. Da notare alcuni elementi caratterizzanti la sua esecuzione: l’espressione sognante dell’arioso iniziale («Einsam in trüben tagen»), l’innocenza delle suppliche al re, il «Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» che è celestiale, l’«O fänd ich Jubelweisen» che ha slancio e purezza al contempo. Bene anche nel II atto la vocalità e l’espressività del duetto con Ortrud e le varie repliche nello scontro dinanzi alla Chiesa. Ma una simile Elsa pone crudamente in risalto le mende degli altri elementi del cast a partire da Sullivan. Non un fenomeno già nell’edizione GALA 1953 qui non è certo migliorato: le buone maniere inglesi devono patteggiare con un sensibile declino che induce il cantante a lavorare in economia di fiati (ormai corti, più di tanto non si può chiedergli) e anche, di conseguenza, di fantasia interpretativa che non era eccelsa di suo per cui il motto potrebbe essere “prima si finisce e meglio è”. Ne scaturisce un protagonista assai manchevole della dimensione epicheggiante ed eroica (la frase di minaccia a Ortrud del IIatto, ad esempio, è molto debole), carente di larghezza di fraseggi, ma anche di ispirazione misticheggiante. Alcuni fraseggi che dovrebbero mostrare certo nerbo risultano flosci. Laddove non si sente cantare male abbonda in Sullivan l’inespressività e la genericità anche se, ad un primo ascolto, tali limiti possono essere facilmente occultabili sotto il manto di una correttezza, ma pur sempre incapace di dire qualcosa di nuovo o almeno approfondire. In sostanza un protagonista noioso e che, a tratti, vocalmente lascia a desiderare. Anche con gli altri il discorso è all’insegna della modestia: Edelmann è un Re poco autoritario e con poca grandiosità da mostrare. Sereni quale Araldo, bravo vocalmente emette i suoi proclami come se cantasse un’opera italiana e finisce per essere un po’ monotono anche se è molto morbido e non cede al grido. Cassell, timbricamente chiaro e limitato nella forza di scansione, è un Telramund che non fa più di tanto paura, né può permettersi il lusso di sfoggiare nobiltà. Molti tagli investono la sua parte, ma è da notare che nella scena della chiesa è piuttosto forzato e ciò perché quando vuole fare la voce grossa le cose non gli vanno bene. La Harshaw è alla terza edizione, ma ciò non significa che tracci un’Ortrud monumentale: voce chiara anche lei, ha perduto rispetto al ‘47 e al ‘53 il peso specifico vocale richiesto dalla parte con il risultato di trasformarsi a tratti in isterica, senza contare che se già nel ‘47 in alto la voce della Harshaw non era l’ideale (e ciò è mantenuto nel ‘53) ora abbiamo accenti striduli nei momenti di maggior tensione: l’Invocazione agli Dei (ad onta dell’applauso del pubblico) e i tre interventi finali non possono competere neppure alla lontana con altre cantanti a lei anteriori o coeve. Sul piano interpretativo poi, la dimensione subdola non è adeguatamente scandagliata e ne risulta uno squilibrio tra una Elsa cosciente del suo ruolo ed una Ortrud che canta senza troppa convinzione, anche se bisognasottolineare la giusta accentazione del «Könntest du erfassen…». Ma le tinte nere (Varnay) o la finezza psicologica (Klose e, successivamente, Ludwig per non parlare della nostra contemporanea Meier) le restano estranee.
Il cofanetto non ha il libretto, ma l’elenco dei tracks, né si segnala per una veste editoriale attraente. Discreta la resa audio.
1960 RAI-ARCHIVE S. Konya – M. Pobbe – L. Didier Gambardella – A. Protti – P. Dari – E. Campi
Orchestra e Coro RAI di Milano – Dir. F. Leitner (3 CD)
Anzitutto un’edizione seria e, fra quelle in italiano, la migliore. Questo non significa chiaramente che tutto sia al top, però rispetto al ‘live’ napoletano (ma anche alle edizioni successive nella nostra lingua) siamo uno o due passi avanti e non solo per la resa audio, ma per la correttezza dell’insieme al quale tutti contribuiscono secondo il loro ufficio. Un esempio fra tutti segnalerei la cura dei solisti e del coro nella scena dello scoprimento del cadavere di Telramund nel III atto: raramente si sente eseguire con rispetto e terrore espressi in piani e voci sommesse. La direzione anzitutto che è morbida, brillante, fastosa laddove occorre, ma senza incorrere in eccessi bandistici (e volgari) come è accaduto a Napoli con l’approssimativo Santini. Pregio di Leitner è aver assecondato i cantanti, tutti italiani, eccettuato il protagonista (ma che con l’italiano aveva dimestichezza in quanto interprete di alcuni titoli come Tosca, Boheme, Butterfly, Don Carlo) ad esprimere qualcosa lontani però, in linea di massima, da fraseggi di dubbia lega. Da ascoltare i 3 preludi, molto diversi tra loro, che sono esatti nei tempi e, di volta in volta, adeguati alla situazione che devono descrivere. Inoltre va segnalata l’intesa con i cantanti e specie con i protagonisti: udiamo qui un duetto del III atto, molto mediterraneo ma anche genuino e non artefatto: Konya e soprattutto la Pobbe brillano per immediatezza espressiva, ma sonoaltresì sostenuti da un ottimo accompagnamento e da notevoli tinte orchestrali. Segnalerei l’Interludio tra 2a e 3a scena del III atto: iniziato lontanissimo e successivamente rinforzato (e disciplinatissimo) senza però scadere nel fracasso immane e nella trasandatezza e questo rende un bel servizio all’intervento del coro. A ciò si aggiunge l’assenza pressoché totale di quei tagli che inficiano la narrazione se si esclude l’«O Elsa ! was hast du angetan» e successivo conncertato. Va detto che, a tratti, quest’edizione guarda dall’alto anche altre più vicine ai nostri giorni proprio come risultato complessivo (in primis, come vedremo, quella di Karajan). Buono il Coro che tuttavia non raggiunge quella grandiosità che diverse edizioni bayereuthiane testimoniano, ma neppure scade nel vocìo scomposto. Konya è quello che è: fatto passare per il modello esecutivo di questo personaggio, a contatto con la nostra lingua, all’ingresso e nelle emissioni liricheggianti, fa udire non pochi accenti gigliani favorito dal timbro piuttosto latteo (in questo Konya ha giovato al personaggio in questione, allontanandosi però da quell’eroismo che, con il loro timbro brunito, Volker, Anders e, in parte, Schock ci hanno fatto udire), ma anche da certa enfasi nei momenti più elegiaci e di tessitura centrale. Il personaggio esce perciò a metà (anche se questa metà è fatta bene), ma l’accento rovente ed araldico, quando esso è necessario, gli è lontano: questo appare nella provocazione iniziale con Telramund del I atto, ma anche nell’autodenuncia dell’uccisione del medesimo nel III atto e in quella successiva di Elsa ed evidentemente nella parte finale dell’«In fermem land», in cui la somiglianza con Gigli (ma anche con Tagliavini) è impressionante. In sostanza una bella prestazione (con altrettanto valida dizione), ma non sublime o idealizzata come si è voluto. Al suo fianco la Pobbe che – restando nella tradizione italiana – ci offre un’Elsa a metà strada tra la lucente e matronaleTebaldi e la fanciulla eterea che a Torino, 13 anni dopo, ci presenterà la Ricciarelli degli inizi. La voce è bella, non ricchissima in armonici forse, ma si nota la volontà di sfumare dove occorre e di variare l’accento. Sta di fatto che anche nei concertati abbiamo una voce che non viene sommersa, né si riduce all’eloquenza del gemito e del sospiretto. Ciò che semmai le si può rimproverare certa carenza di concitazione nella parte finale del duetto del III atto, quando la forza del dubbio fa precipitare la situazione. Però l’innocenza e la purezza del personaggio è ben espressa. Protti è un bel Telramund, misurato, ma non per questo floscio. Possiede una sua terribilità che costruisce sull’accento e sulla scansione ed è veramente superiore al Guelfi dell’edizione napoletana in tutto e per tutto (ma anche a Carroli delle successive edizioni in italiano). La Gambardella è inferiore alle esigenze di Ortrud specialmente sul piano vocale: il registro acuto mostra difficoltà e i tre punti canonici (invocazione agli dei pagani, lo scontro con Elsa, i tre interventi finali) lo mostrano. Però anche lei escogita ed offre un accento persuasivo e convinto di quello che canta, ma senza eccedere in veri e propri approfondimenti. Non è un’Ortrud miracolosa, ma abbastanza decorosa, anche se la tentazione verista qua e là fa sentire i suoi richiami (mai però come era avvenuto per la Nicolai).
Molto bene Campi come Araldo dalla voce franca, robusta e notevole dizioni, mentre l’anello più debole della catena risulta essere Dari come Re Enrico: l’interprete è accurato e diligente e l’accento è buono nei vari momenti, ma il timbro e il modo di cantare fanno pensare ad un Christoff dei poveri (articolazione ‘a scivolo’, non perfetta dizione) e perciò non pienamente soddisfacente, almeno sul piano vocale.
Un secondo caso di Wagner all’italiana che, a tratti, non sfigura accanto alla grande tradizione tedesca soprattutto, ripeto, per l’impegno di coloro che vi han postomano.
1960 GOLDEN MELODRAM W. Windgassen – A. Nordmo-Løvberg – A. Varnay – G.
(GM 1.0072) Neidlinger – T. Adam – E. Wätcher
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. L. Maazel (3 CD)
Quest’edizione ‘live’ presenta una buona resa tecnica e un buon livello di ascolto. La direzione di Maazel è sfarzosa, ben condotta, curata (qua e là le trombe sono un po’ imprecise negli attacchi), ma la spettacolarità di certe scene e la lentezza denunciano, a mio avviso, certa superficialità. Alcuni concertati sono portati avanti al rallentatore, manca certa epicità che dovrebbe fare da sfondo ad alcune scene, l’atmosfera notturna dell’inizio del II atto non è l’ideale e trovo anche un po’ sbrigativa l’introduzione al III atto. Insomma una direzione che, pur non mancando di meriti, giudicherei esteriore.
Windgassen accusa uno scadimento vocale specialmente nei piani che risultano malfermi e l’attacco del «Nun sei bedankt» lo rivela. Altrove – al centro e in alto – le cose procedono bene, ma l’approccio al personaggio è piuttosto alterno, anche se in alcuni momenti (specie del III atto), l’interprete si riscatta e partecipa. Difficile accorgersene perché ad un primo ascolto si può restare impressionati dall’assetto puramente vocale. Ad esempio il finale del II atto con l’allontanamento di Telramund vede Windgassen piuttosto grintoso. Ma qui ci sono emissioni in piano e l’impaccio si fa sentire: il suo «Heil dir Elsa ! Nun laß vor Gott uns gehn!» è reso in modo meno attraente rispetto al live del ‘53. In sostanza, il Windgassen di quest’edizione è un Lohengrin che, vocalmente, in centro e in alto rivela notevoli potenzialità mentre nelle mezzevoci e nei pianissimi non è l’ideale ed alcuni passi del duetto con Elsa e dell’«In fernem Land» lo mostrano efficacemente. Verso il finale dell’opera poi viene tagliata la sua perorazione «O Elsa ! was hast du mir angetan ?» e quel che segue. Molto bene le frasi a voce piena e degna di nota laconclusione: «Seht da den Herzog von Brabant». La Elsa della Nordmo-Løvberg è piuttosto scadente: la voce corposa in centro salendo perde di intensità si fa fissa ed a tratti urlacchiante (cf. scontro con Ortrud nel II atto e alcuni passi del duetto del III con Lohengrin), senza contare che l’intonazione sin dall’«Einsam in trüben Tagen» è imprecisa ed egualmente i passaggi di registro verso l’acuto appaiono trascinati. È chiaro allora che il «Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» è bruttarello come lo è anche l’«O fand Jubelweisen» che apre il Finale I. Sul piano dell’espressività si tratta di un’Elsa piuttosto monotona. Neppure nel settore grave le cose procedono per il meglio sicché abbiamo la scena con Ortrud (II atto) risolta nella monotonia globale perché poche sono le sfumature, né l’orchestra crea particolari atmosfere.
La Varnay è stata l’Ortrud di molte rappresentazioni ed edizioni. Personaggio da lei acquisito, appare in quest’edizione stranamente meno curato del solito: è chiaro che si impongono l’espressione e certe tinte cupe proprie di quella stregona pagana, ma sul piano vocale appaiono accentuati, specie in alto, certi difetti che conosciamo. Inoltre appare troppo altisonante nel duetto con Elsa ed egualmente l’invocazione agli Dei pagani è un po’ tirata via. Egualmente nello scontro dinanzi alla Chiesa con Elsa alcuni interventi sono all’insegna del grido e così pure i tre interventi al finale dell’opera. Neidlinger è un Telramund grandioso nel timbro e nell’espressione e domina vocalmente il personaggio nei passi più difficili. È da ascoltare il volume di voce nello scontro del II atto con Lohengrin. A lui viene tagliata una parte della risposta a Ortrud all’inizio del II atto: il «Durch dich musst ich verlieren». Tuttavia è un personaggio monco, nel senso che gli manca la nota della disperazione e della debolezza e risolve tutto all’insegna dell’iracondia e della vendicatività. Inoltre la sua dizione tedesca non è aliena da improprietà.T. Adam è un buon Re il cui timbro appare piuttosto chiaro per un basso, ma trova un gran ventaglio di tinte a seconda dei momenti. La regalità di questo Enrico viene posposta rispetto alla sua umanità e questo gli consente un’ottima espressività nelle oasi più liriche (le battute con le quali si rivolge ad Elsa nel I atto si segnalano per grande affettuosità). Ottimo ancora una volta (e meglio dell’edizione del ‘58) l’Araldo di Wätcher: dizione franca, bel timbro, vigoroso e perentorio nell’espressione; il suo «Wo ihr der Königs Schild gewahrt» nel I atto è tutto da ascoltare e così tutti i suoi interventi. La resa fonica è discreta. Nel cofanetto manca il libretto e c’è solo un fascicolo con la divisione dei tracks, un profilo dei cantanti e qualche foto di scena
Luca Di Girolamo