Traviata
Aggiunto il 07 Novembre, 2006
Questa è una registrazione di studio, non una di quelle tante chicche live cui la gloriosa casa discografica Myto ci ha da anni abituato. Più recentemente è stata ripubblicata anche da altre case discografiche, fra cui Testament. Purtroppo il fascicolo illustrativo, qui piuttosto scarno, non ci dice per quale casa discografica fu fatta quest’incisione, ma si limita a sottolineare come sia un peccato che sia stata sostanzialmente misconosciuta sino a questo momento. Noi, invece, un po’ malignamente, sosteniamo che nulla avviene per caso. Questa non è una bella registrazione, proprio per niente. Anzi, diremo di più: non presenta nemmeno una di quelle tante situazioni controverse che dividono i melomani in fazioni l’una contro l’altra armata, come per esempio succede per la famosa (o famigerata, a seconda dei punti di vista) registrazione di Carlos Kleiber con la discutibile e affascinante Violetta di Ileana Cotrubas.
Iniziamo dalla direzione: il fascicolo illustrativo, riportando un giudizio di “Opera on records” fortemente critico nei confronti della direzione di Monteux, sostiene che sì, i tempi sono lenti, ma sono animati da una certa eleganza di gusto francese, certamente lontana dal brio italiano à la Toscanini, ma tuttavia con una loro logica e ragione di essere.
Ma mi faccia il piacere!, avrebbe detto il mai sufficientemente rimpianto Principe De Curtis. La levità di tocco e la souplesse sono lontane le mille miglia da questa tremenda morchia in cui affonda tutta l’opera, a cominciare proprio dal primo atto in cui la festa a casa di Violetta sembra una specie di parodia dell’Oktober Fest e in cui il fine perlage che ci aspetterebbe di intravedere nelle coppe di champagne degli invitati assomiglia piuttosto alla spuma della birra. Monteux, che ha come aggravante anche una strana erraticità che lo porta a pigiare sull’acceleratore nei momenti più impensati, ma sempre in modo sgraziato e volgare, non fa nessuna fatica a classificarsi fra i peggiori accompagnatori (esiterei a definire “direzione” questo tremendo obbrobrio) di un’opera che di solito si dirige da sola e che proprio bisogna impegnarsi a fondo per rovinare. Le danze e i couplets della festa a casa di Flora hanno l’andamento ritmico del Deutsches Requiem di Brahms; e il ritmo che dovrebbe caratterizzare lo scambio di battute fra Alfredo e il Barone, col sottofondo angosciato di Violetta e l’indifferenza degli altri invitati, che abbiamo imparato ad amare vertiginoso e turbinante con Toscanini (altro che brio!) e anche con Muti, qui sembra una marcetta militare, con un tenore di ottima voce e di belle intenzioni, un soprano di un’indifferenza siderale, e un coro che ci si aspetta che produca un rutto di soddisfazione dopo l’ennesima bevuta. Che pena.
Cesare Valletti è davvero bravo, e tutto sommato si finisce per ascoltarlo con piacere. Il modello d’ispirazione è chiaramente Tito Schipa, cui assomiglia molto nella fonazione e nelle intenzioni interpretative. La registrazione, ben spaziata, permette di apprezzarne tutte le virtù di fraseggio e di voce; e, se è solo per quello, anche i difettucci. Tutti coloro che hanno rimproverato a Bergonzi – come se fosse una menda colossale – la famosa “esse” emiliana, dovrebbero ascoltarsi la “erre” deliziosamente arrotata di Valletti. Bravo davvero, dicevo, se consideriamo quello che riesce a tirar fuori dalla sua parte in un contesto così sfavorevole. Ma non mi sentirei di parlare di un’interpretazione particolarmente illuminante. Il suo “Parigi o cara” si rifà chiaramente al modello di Schipa, ma è un esempio che non viene nemmeno lontanamente avvicinato, mancando singolarmente dell’affettuosità che animava invece il tenore pugliese.
Leonard Warren è il grande cantante che ognuno conosce, ma qui – come in altre registrazioni in cui ci è capitato di ascoltarlo – sembra pago esclusivamente della propria splendida messa di voce, dipingendo anch’egli un personaggio fortemente convenzionale, che non brilla né per canaglieria né per affettuosità. Un borghese piccolo piccolo, verrebbe da dire parafrasando Sordi, piuttosto meschino, che sembra si adatti al lento sferragliare dei tempi di Monteux dando così il proprio onesto contributo all’affossamento di una delle pagine più geniali di tutta la letteratura verdiana (e mi riferisco chiaramente al colloquio Violetta-Germont del secondo atto).
Rosanna Carteri è per noi un mistero. È sempre indiscutibilmente brava: bel soprano lirico di ottima scuola, di bella (non bellissima) e robusta voce, e per di più gran bella donna. Oggi diremmo che probabilmente faremmo un patto col demonio per avere una cantante così; ma il condizionale ci sembra d’obbligo, anche perché c’è un limite a tutto. Certo, non si può dire che la Carteri faccia ascoltare cose indecorose, ma è letteralmente sovrastata dalla parte di Violetta, questo bisogna onestamente riconoscerlo. Non tanto da un punto di vista vocale, perché le note ci sono tutte o quasi (si astiene dal si bemolle alla fine del primo atto, ma non è una tragedia: anche la Scotto lo fa nell’incisione con Muti, e noi giudichiamo sempre intelligente un cantante che evita note che non ha), quanto per approfondimento della parte, che viene attraversata da parte a parte – se così si può dire – senza il minimo cenno di partecipazione emotiva, con una frigidità assolutamente intollerabile non dirò ai nostri giorni, ma persino in tempi come quelli che avevano già conosciuto gli schianti emotivi di Maria Callas. Ascoltatela, ascoltatela: vi sfidiamo a trovare un solo momento in cui la cantante proponga un’idea, una traccia interpretativa. Non abbiamo mai ascoltato un “Amami Alfredo” più frigido, o un colloquio del Secondo Atto in cui – complice anche la tremenda direzione – Violetta arrivi quasi a dare l’idea che dar retta al vecchio Germont e mollare Alfredo non sia neanche una cattiva idea. Persino Joan Sutherland, che si pone decisamente agli antipodi di interpreti come la Callas o la Scotto, arriva a dare un’idea interpretativa fanée e un filo svenevole del suo personaggio. La Carteri nemmeno quello: una discreta lettura a prima vista e poco altro. La lettura della lettera è scandita senza nessun accento. Nell’ “E’ tardi!” che viene immediatamente dopo non risuona nessun accento, né rassegnato, né disperato: sembra una banale constatazione dopo aver dato una fuggevole occhiata all’orologio.
Tutto sommato, nessuna meraviglia se questa registrazione ha sonnecchiato in qualche archivio per tanto tempo.