Backstage: Evelyn Herlitzius: Kát'a Kabanová a Bruxelles
Aggiunto il 09 Novembre, 2010
Come disse una volta la grande Leonie Rysanek “ci sono personaggi che ci amano, ma che noi non amiamo; altri che noi amiamo ma che non ci amano. Infine ci sono quelli in cui l’amore è corrisposto. Sono pochissimi: si è fortunati a trovarne due o tre in tutta la carriera, ma è per questi ultimi che vale la pena di essere cantanti”.
E’ esattamente ciò che è successo la sera del 26 ottobre scorso, all'apertura della nuova stagione della Monnaie di Bruxelles.
Quando, al termine della Kat'a Kabanová di Janáček, il sipario si è alzato su Evelyn Herlitzius, debuttante nel ruolo, sola al centro del palcoscenico, il teatro è esploso. In quell’applauso assordante non c’era solo l’ammirazione per un’artista fuori dal comune, ma soprattutto lo stupore incredulo che si prova in quelle rare volte in cui si è testimoni di un incontro interprete-personaggio definitivo.
Non è facile trovare grandi interpreti di questo personaggio. Ciò che di solito manca è la capacità di fonderne i diversi aspetti, di rendere coerenti in un unico ritratto le sue contrastanti prospettive.
Il primo aspetto che colpisce in Kat'a è la sua emotività, la sua seducente fragilità di ragazza che non può e non vuole uscire dai miraggi dell'infanzia, che ancora fantastica sull’amore e sogna di volare.
Se ci si limitasse a questo, si dovrebbe puntare su voci liriche, trepidanti di dolcezza e femminilità (la Gustafson, la giovane Mattila) che tuttavia apparirebbero fragili e superficiali a fronte del lato tragico e patologico del personaggio, l'instabilità della sua psiche, il turbinare delle sue paure.
Per valorizzare questo “lato oscuro” ci si affida allora a interpreti più intellettuali, più “tragédiennes” (la Söderström, la Armstrong, la Silja, la Denoke) che finiscono tuttavia per sembrare troppo tragiche e troppo intellettuali, per una giovane sognatrice di paese.
C’è infine il lato “eroico”, quello che si esplicita, nel terzo atto,nell’immensità della rivolta.
Con la propria confessione e col suicidio Kát’a si erge contro il mondo, contro la realtà, affermando fino alla morte e nella morte il proprio diritto di esistere come individuo. E qui occorrerebbe la forza di una Elektra, che i grandi soprani "drammatici" e declamatori (la Pauly, la Borkh) possiedono, ma a prezzo di travolgere gli altri aspetti del ruolo.
Come per Violetta, Norma o CioCioSan, il problema di Kat'a non è di avere caratteristiche contraddittorie, ma di non poter adattare le sue caratteristiche ai “modelli” sopranili a cui siamo abituati.
E' sufficiente che appaia l’interprete capace di comporle istintivamente in una propria personale coerenza perché il personaggio sveli la sua abbagliante verità.
Nelle sue più grandi interpretazioni (da Brünhilde a Kundry, dalla moglie di Barak a Elektra) la singolarità di Evelyn Herlitzius consiste nel fatto che l'eroismo del suo canto non si riflette nell’apparenza dura e implacabile, quasi virile, dei tipici soprani drammatici. Al contrario i suoi slanci grandiosi, le vampate ustionanti sgorgano da una femminilità che resta radiosa e appassionata e si riflette nella sua bellezza e scintilla nei grandi occhi azzurri.
E’ questa commistione di forza e dolcezza, di ardore e senso tragico che permette alla Herlitzius di conferire alla Kabanová una verità nuova. Incredibilmente bella in scena, la cantante esprime come nessun'altra una femminilità indifesa, irresistibile; eppure spaventa per la sua capacità di fare intuire il mare di angosce che ribolle in lei. E quando deve essere grandiosa, allora la sua voce esplode in detonazioni sonore degne di una Nilsson e di una Varnay e acuti che travolgono l’orchestra e riempiono il teatro.
Alla fine dell'opera la sua grandezza sacrificale è la stessa di Elektra, di Kundry, di Brünnhilde. E a noi resta la sensazione di aver assistito a un atto di verità artistica sconcertante e irripetibile.
A dividere gli onori di tanta protagonista, un cast favoloso, con vette di genialità (Streit, Graham Hall, la Morloc)
Per la parte di Boris ( il giovane, infelice vicino di casa di Kát’a, l’oggetto del suo amore ma anche strumento della sua rivolta), era previsto il debutto del grande tenore Kurt Streit, artista per il quale non nascondo un’antica predilezione: lo scoprii una ventina di anni fa in un fantastico Peter Quint e da allora ne ho seguito la carriera dagli impressionanti sviluppi.
Devo ammettere che aspettavo il suo primo Boris con una certa apprensione; la parte – da tipico “jeune premier” - richiederebbe un’età meno matura, una freschezza giovanile e un calore sentimentale che Streit (seducentissimo, certo, ma più vocato al cinismo e all’ironia) non facilmente avrebbe potuto esprimere.
C’è poi la questione vocale: la voce di Streit ha la formazione tecnica e la natura di un mozartiano, un britteniano, un liederista, mentre la parte richiederebbe sfoghi “lirici” da tenore pucciniano e un registro acuto piuttosto scoperto (nel terrificante do del duetto ho sentito inciampare persino David Kuebler).
A dispetto delle mie perplessità, la prova di Streit è stata sensazionale.
Vocalmente si resta impressionati da una tale saldezza dei mezzi in un tenore cinquantenne: la scrittura non gli pone alcun problema (compreso lo sfolgorante do), anzi risulta arricchita dal suo tipico colorismo britannico.
Dal lato drammaturgico – in sintonia con la regista – Streit ha sfruttato le sue caratteristiche per inventarsi un personaggio diverso dal Boris che conosciamo. Estremamente fascinoso ma non più giovanissimo, anzi con modi da macho quarantenne, Streit fa fruttare la sua maturità anagrafica (che d’altronde si compensa con quella della Herlitzius) trasformando il ragazzo sognatore in “vitellone” annoiato e arrogante, incapace di impegnarsi, che, al tramonto della gioventù, reagisce con cinismo sensuale allamodestia della sua vita.
Allo stesso livello si è collocato l'altro tenore inglese della produzione: il coetaneo John Graham-Hall, altro artista per cui nutro grande ammirazione da quando lo scoprii nel 1991, ancora una volta in un ruolo britteniano: un Lysander angelico e appassionato nel Sogno allestito da Carsen a Aix-en-Provence.
Artista fra i più incisivi del panorama inglese - forse, per certi versi, non adeguatamente riconosciuto - Graham-Hall cantò molti anni fa la parte di Kudrias, nella Kabanowa allestita da Lenhoff a Glyndebourne (da tempo in DVD).
A Bruxelles, quindici anni dopo, è passato alla parte di Tichon, il marito becco e mammone, personaggio solitamente in ombra che, grazie a lui, diviene un perno della produzione.
A parte uno splendore vocale insolito per un personaggio normalmente affidato ai caratteristi, Graham-Hall fa perno sul suo ancora impressionante fascino scenico, per consegnarci un Tichon particolarissimo: alto, biondo e ben vestito, pare il fratello maggiore di Boris; come lui è un ragazzo non cresciuto, condannato alla superficialità e all'inutilità.
La differenza è che mentre il Boris di Streit ha conosciuto il distacco dalla bambagia dell’infanzia ed è diventato un indolente bullo di mezz’età, il Tichon di Graham-Hall continua a godere delle coccole materne, del servilismo delle vedove di famiglia, della compiacenza di quel simulacro di società in cui vivono: tutto questo lo ha trasformato in un moccioso quarantenne, piagnucoloso e sgraziato e dedito all’alcool. Il marmocchio che è in lui erompe in alcuni dettagli scenicamente indimenticabili: come quando, appena rientrato in casa dalla funzione, si cava i pantaloni per farsi lavare le gambe dalla mamma, o quando, per scherno verso Varvara, si toglie una …caccola dal naso e gliela mostra.
Di fronte ai questi due grandi vecchi, è il tenor giovane che stenta a emergere.
Nello splendido personaggio di Kudrias (sortadi poeta progressista che professa la sua fede nella scienza e sogna un futuro di libertà e uguaglianza) era atteso il giovane ma già lanciatissimo Gordon Gietz.
Personalmente lo avevo già ascoltato dal vivo come Chevalier de la Force alla Scala e come Tamino a Parigi.
Anche in questa produzione Gietz si conferma un artista talentuoso ed espressivo, ma la parte è troppo acuta e sfumata per lui; nel richiamo notturno ai due amanti l’incidente è sfiorato.
Scenicamente (pure senza assurgere ai livelli di Spence a Parigi) Gietz funziona e non di meno soffre la vicinanza di artisti come la Herlitzius, Streit e Graham Hall. E' una sofferenza, d'altronde, comune anche a Pavlo Hunka (Dikoj possente e volgare, ma in definitiva prevedibile) e a Natascha Petrinsky la cui Varvara (globalmente onorevolissima) finisce per apparire generica.
Chi invece si è ricavata un trionfo personale è stata Renée Morloc nella parte della Kabanicha, suocera dispotica e invadente, grottesca matriarca, custode di una società soffocata nelle proprie convenzioni.
In questo ruolo si sono spesso cimentate grandi dive al tramonto (la Varnay, la Rysanek, la Lear, la Schlemm, la Silja e, fra quello che ho ascoltato dal vivo, la Armstrong e la Forst).
Personalmente, però, non ritengo sensato affidare una simile parte alla dignità di antiche dive dalle carriere mitologiche.
La Kabanicha (a differenza della Kostelnicka) non è un personaggio dall’interiorità grandiosa. Non è che l’ottuso prodotto del contesto in cui vive.
Non è del fascino di un’antica tragédienne che ha bisogno; le basta la forza spontanea del canto e della presenza, quella forza bruta, cocciuta e irremovibile con cui esercita il proprio controllo.
La Morloc (come la Henschel a Salisburgo) non è una diva al tramonto: è un tipico mezzosoprano espressionista (al pieno ella carriera) da palcoscenici tedeschi, relativamente giovane e col piglio tronfio di chi ècresciuta a Erodiadi e Fricke.
Il suo fisico tarchiato e la voce sana e potente (l’unica che riesca a tener testa, come volume, alla Herlitzius) la aiutanoi a esprimere con straordinaria efficacia la ruvidezza paesana del personaggio, intrisa di sarcasmo e concretezza, sempre circondata da vedove e beghine che la seguono come una regina. Il contrasto che ne deriva con l’idealismo eroico di Kát'a è strepitoso.
La produzione è stata affidata, stranamente, a un direttore giovanissimo e di scarsa esperienza janacekiana.
In Italia il nome del trentaduenne Leo Hussain è ancora poco noto e tuttavia i riconoscimenti già raccolti nei principali teatri d'Europa (in particolare in Inghilterra e in Austria) giustificano l’intuizione della Monnaie.
La sua lettura (ben assecondata da un'orchestra che frequenta assiduamente questo repertorio) trova il punto di fusione fra la cristalleria anglosassone (cura del dettaglio, nettezza del ritmo, distillazione dei colori orchestrali, tutto ciò di cui Gardiner ha offerto un bell’esempio alla Scala) e una vena di estroversione sentimentale, che asseconda i temi con esplicita tenerezza e vi indugia emotivamente, senza pudori intellettualistici.
A parte l’impatto forte e immediato sul pubblico, una direzione simile era quella giusta per valorizzare una protagonista che scandaglia tutti gli aspetti della femminilità e del sentimento; ma soprattutto era giusta in rapporto alla regia, che da un lato smorzava - nel lirismo dell’orchestra - la cupezza truculenta della propria visione generale, dall’altro ne sfruttava l’emotività per esaltare la lacerante umanità riservata ai personaggi.
E siamo così giunti a parlare della regia di Andrea Breth (di cui avevo già ammirato dal vivo l’Onegin a Salisburgo), l'unica ad aver raccolto qualche isolato dissenso.
La Breth non solo è una regista tedesca che più tedesca non si può, ma è pure anagraficamente legata alla Contestazione eall'estetica degli anni ’70.
Chi mi conosce sa che considero entrambi gli aspetti ipoteche gravissime, specie se si parla di regie musicali.
Da lei non ci si poteva aspettare altro che un’ambientazione squallida e deprimente: una sorta di vecchio magazzino in disarmo, logorato dal tempo, con muri grigi e scrostati, dalla cui umidità filtrano rivoli d’acqua e a cui sono attaccati quadri sbiaditi di vecchi idoli comunisti. In questo spazio unico e opprimente, ingombro di scarti da discarica (una vasca da bagno, una poltrona sfondata, un vecchio frigorifero dove spesso si rifugia Kát’a) si avvicendano i personaggi, come spettri di una comunità senza riferimenti.
A prima vista l’apparato denunciatario e sessantottardo della Breth irrita, puzza di vecchio…
in effetti però la regista si riscatta non solo per le sue capacità straordinarie di lavorare sugli attori, ma per la passione e l’umanità che mette nel reinventarsi i personaggi, nel renderli creature vive ed emozionanti.
Ho già descritto il lavoro incredibile svolto sui personaggi di Boris e Tichon. Mi limiterei ad aggiungere, come esempio di particolare emozione, il finale del secondo atto.
In teoria quello è l’unico momento dell’opera in cui la tristezza cede il posto a un'ombra di serenità liberatoria: vi si descrive la felicità semplice delle due coppie che si amano di nascosto, sussurrando canzoni dolcissime e rubando un bacio alla sera.
A differenza di quasi tutti i registi, che si liberano alla poesia del momento, in questa scena la Breth fa levitare sulla rapinosa dolcezza della musica un senso di malinconia struggente.
La tenera Varvara, invece di cullarsi al suo canto d’amore, piange sommessa e senza ragione, presaga di non si sa quale infelicità, mentre il suo amato Kudrias la osserva, con un espressione a sua volta infelice, di tenerezza amara e infinita.
Nel frattempo Kát’a e Boris escono dal loro angolo, dopo aver consumatol’amore.
Lui – nonostante le note dolcissime che si levano dall'orchestra – è irrigidito nella fase “refrattaria”; lei invece ha l’occhio lucido, freddo, e azzurro di chi ha varcato il punto di non ritorno, e sa di aver compiuto col suo corpo il grande rito sacrificale che l'ha liberata ma causerà la propria fine, la fine del mondo.
Il sipario è calato sul silenzio attonito del pubblico.
Ancora una volta mi toccherà passare per esterofilo; ormai ci sono abituato.
Ma posso assicurare chi ha avuto la pazienza di leggere che sono io il primo a soffrire – ancora una volta - del fatto che mentre in Italia ci si arrabatta sulle porcate del Festival di Parma e relative esternazioni, nel resto del mondo si fa la storia dell’Opera.
Matteo Marazzi