Cleopatra di Natalie Dessay
Aggiunto il 19 Marzo, 2011
Il mio nonno paterno era nativo della Toscana, e così ci si spiega il nome che gli fu imposto al battesimo – Sirio – che in realtà al limite sarebbe femminile ma che di fatto rende conto della bizzarria onomastica dei nativi di questa bella regione. Temperamento scapestrato sin da giovane, il nonno Sirio era anche un grande giocatore di poker, al punto di prendersi la soddisfazione di sconfiggere i figli in partite domenicali in cui ciò che contava non era la puglia, ma la soddisfazione – già vecchietto – di dimostrare ai giovani quanto contasse l’esperienza, la capacità e la sensibilità, anche a onta di carte non sempre favorevoli. Gli è che a giocare con le carte buone sono bravi tutti; a stravincere con una doppia coppia su un full servito bisogna invece essere proprio dei marpioni, quale lui era; e, di fronte ai musi lunghi dei figli, rispondeva con un sorrisetto sarcastico e tirato tutto da un lato, ancorché mascherato dall’onnipresente pipa: “Il poker uno lo gioca come lo capisce”.
E tutti a casa.
Questa piccola digressione a carattere famigliare mi torna comoda per spiegare il funzionamento di questo disco che – lo prevedo – spiazzerà drasticamente non solo coloro che vi cercheranno l’orchestra di Bonynge e la maschera sublime della sua Stupenda moglie, ma anche quelli un po’ più scafati che, nel frattempo, hanno sentito raccontare che la Storia della rappresentazione è progredita e si sono proficuamente nutriti di altre meravigliose interpreti, alcune delle quali già storiche, come Danielle De Niese e Magdalena Kožená. È proprio a quest’ultima in particolare che penso ascoltando l’ultima fatica di Natalie: a quanto mi avesse appagato nella registrazione del GC effettuata da Minkovski per la DGG nel 2003: lì c’era un connubio magico e pressoché irripetibile fra i meravigliosi Musiciens du Louvre e la voce ambrata, caldissima e ricca di armonici della Kožená. Eccezionale, tra l’altro, la varietà di colori e affetti messi in campo: una vera Regina, come ce la immaginiamo grazie anche alla musica superlativa immaginata da Haendel.
Al primo ascolto, invece, la Dessay lascia interdetti.
Il tono non è quello di una Regina: è una bambina. Anzi, peggio: un’adulta che gioca a fare la ragazzina viziata, mettendo in campo tutte le poche arti di seduzione che ha a disposizione; o meglio, nel caso della Dessay ci sarebbe da dire “che le sono rimaste”, giacché la voce dopo tanti anni di carriera, dopo due interventi chirurgici, dopo la permanenza in un ambito che a regola non le apparterrebbe più, ha perso definitivamente lo smalto soprattutto nel registro sovracuto. Anzi: pensi con un pizzico di solidarietà a quelli che la criticano anche nella sua Patria (da qualche parte hanno scritto “Dessay deçus”, confermando che in fondo i francesi hanno ben meritato di perdere la finale ai Mondiali 2006): la voce ormai è arida, persino un po’ petulante, dà sempre l’idea di essere sfiatata. Chi se la filerebbe più in una parte così?
Solo che, mentre fai queste e altre simili riflessioni, il disco è finito e ti tocca rimetterlo su, con un gesto quasi inconsapevole ma delicato, rispettoso; e mica una, ma altre tre o quattro volte. E lo fai perché questa Cleopatra “pétillante” come scrivono altri e ben più sagaci francesi (e trovo che il termine sia quanto mai adatto), che non ha nulla di veramente regale, che sa essere sbarazzina e tragica, fatua e meditativa, concreta e contraddittoria, petulante e imperiosa, sensuale e meschina, ma soprattutto infinitamente donna, “è” Cleopatra in un modo che nessuna altra interprete, per brava e grandiosa possa essere o essere stata, si immagina nemmeno. Una rivoluzione copernicana del ruolo, niente di meno.
Certo, ci sarebbe molto da dire sullo stato vocale attuale di Natalie. L’estensione è forzata sino quel maledetto (mi sembra, all’ascolto) mi bemolle inseguito e ottenuto più con la caparbietà che con i mezzi reali e che la Haïm, che le ha scritto le variazioni dei da capo, avrebbe fatto meglio a risparmiarle: il “modo” colorista che la Dessay ha utilizzato per tutti questi anni di meravigliosa e irripetibile carriera le ha usurato un mezzo piuttosto delicato che la Natura avrebbe destinato ad altra carriera, meno usurante ma probabilmente anche molto meno intrigante.
Eppure, nonostante tutto ciò, il ritratto di Cleopatra offerto dalla Dessay è talmente totalizzante da far sì che – analogamente ad altre precedenti prese di ruolo – l’ascoltatore abbia non solo la sensazione di sentirlo cantare per la prima volta, ma anche la convinzione che non potrà ascoltarlo mai più diversamente da così, e ciò nonostante specializzazioni di cantanti come quelle già citate che hanno al loro attivo molti più titoli.
Non voglio fare la disamina di ogni singolo brano di questo meraviglioso disco, ma solo qualche piccolo esempio lasciando che ognuno trovi la propria personalissima chiave di lettura.
Prendiamo “V’adoro pupille”.
L’accompagnamento della Haïm ha una giustezza languida e insinuante che lascia basiti, specie se consideriamo che è un direttore poco fantasioso e nemmeno lontanamente paragonabile ai grandi interpreti di questo titolo, come per esempio il già citato Minkovski. Ma è una “giustezza” assoluta o funzionale alla cantante? Natalie ha un timbro infantile che, normalmente, non assoceremmo a una situazione seduttiva come quella in oggetto e, infatti, al primo ascolto risulta un po’ stucchevole: un’adulta che gioca a fare la bambina, come in una riedizione di Mae West. Eppure… proviamo a sentire qualcuna delle interpreti di Cleopatra più importanti dei nostri tempi, come Laura Claycomb, Christine Schaefer, la Bartoli, la stessa De Niese o la Kožená. Tutte splendide a loro modo, tutte piene di armonici, ma nessuna riesce ad avere quell’accento che scortica l’anima come quello di Natalie. Tra l’altro, nella ripresa di “son grate nel sen”, la Dessay infila una messa di voce di una dolcezza lancinante che ricorda ancora i fasti meravigliosi della vocalista di rango superiore che fu.
È tuttavia con “Se pietà di me non senti” che entriamo nel cuore di questo meraviglioso disco. È veramente impossibile non rimanere commossi di fronte alla bellezza sovrumana della musica di Haendel e all’intesa fra cantante e direttore. Anche in questo caso io ero abituato alla perfezione formale quasi strumentale di Magdalena Kožená, cantante grandiosa e dotata di un’allure regale. Qui siamo invece in un ambito completamente diverso: questa è una bambina che “fa i capricci”, che usa le lacrime con un intento chiaramente ricattatorio, in una sorta di gioco assolutamente cerebrale e perverso, eppure con efficacia, perché riesce davvero a commuovere l’ascoltatore.
E arriviamo quindi al vero capolavoro, che è “Piangerò la sorte mia”, uno dei vertici musicali non solo del Barocco ma di tutti i tempi e che – per inciso – è anche il brano in cui maggiormente si sente la mano di Emmanuelle Haïm nell’inventare un accompagnamento che si adatta come un guanto alla vocalità esausta di Natalie. Ancora una volta, se facessimo l’inutile gioco dei paragoni troveremmo almeno una decina di versioni più soddisfacenti per bellezza timbrica, adeguatezza tecnica (quella notaccia – credo un mi bemolle – sparata a metà della sezione centrale è proprio brutta) e scelta interpretativa. Ma comunque il paragone non reggerebbe. È incredibile il gioco di colori, l’abbandono, la tristezza con cui la Dessay riesce a rinvigorire la povertà di armonici che caratterizza il suo canto di adesso. Credo, al di là di ogni facile ironia, che questa sia la migliore dimostrazione di come questa incredibile cantante sappia rinnovarsi ogni volta non solo per ogni ruolo, ma anche per ogni singola aria.
Non ce n’è per nessuna: ancora una volta ha vinto lei, Natalie “è” Cleopatra, più di ogni altra in ogni momento. Inizia per questo ruolo una nuova era: da adesso in avanti chiunque si dovrà confrontare con questa lionese mia coetanea (la amo anche per questo?...), meraviglioso scricciolo che non avrà forse più il la in quinta ottava, ma che è – oggi più che allora – la più grande cantante vivente.
Della Haïm abbiamo già parzialmente detto: non c’è dubbio che del “Giulio Cesare” ci siano direzioni molto più probanti e complete, oltre che strumentalmente più rigogliose. Questa è una direzione cresciuta – commossa e riverente – intorno alla Dessay ed è perfetta per lo scopo che si prepone: creare un accompagnamento ora scherzoso, ora evocativo intorno a questa meravigliosa Diva: ci riesce, e questo è quanto.
Che dire ancora? È un disco grandioso, anche per la sua apparente perfettibilità.
Ma è anche un disco difficile, di presa non immediata, che richiede un ascolto profondo, attento e meditato. Sono preparato all’idea che ci sia qualcuno con i coltelli affilati pronto a criticarlo e che, in definitiva, non avrà saputo ascoltarlo: come diceva il mio nonno Sirio, il poker uno lo gioca come lo capisce