Backstage: NIOBE di Steffani al Covent Garden
Aggiunto il 08 Ottobre, 2010
Agostino Steffani, chi era costui?
Fino a qualche giorno fa per me era solo un nome e uno Stabat Mater, poi mi è venuta voglia di andare a vedere al Covent Garden la ripresa di un allestimento di qualche anno fa di una delle sue opere: “Niobe, regina di Tebe”. La curiosità era dovuta soprattutto alla voglia di riuscire ad avere almeno un’idea di cosa era l’opera seria italiana nella seconda metà del ‘600. Il percorso che dagli “incunaboli” fiorentini di fine ‘500 porta alla Mantova e poi alla Venezia di Monteverdi mi sembra abbastanza comprensibile e documentato, ma poi cosa avviene? In ambito comico alcune riprese di opere di Cavalli un’idea l’hanno data, ma in ambito serio? Come si passa dal perfetto equilibrio monteverdiano di parola e musica, coi suoi tocchi di realismo e la sua contaminazione di stili, alle architetture “razionali” dell’opera seria del primo ‘700? Questa Niobe, rappresentata per la prima volta a Monaco nel 1688, si piazza più o meno a metà, cronologicamente parlando, di questo percorso, e si dimostra essere a tutti gli effetti uno degli anelli mancanti (mancanti a me, ovviamente) dell’evoluzione del genere. Prima di tutto, opera pochissimo “seria”, almeno considerando il soggetto: al contrario, un caleidoscopio variegatissimo e shakespeariano di stili alti e bassi, dove dei e semidei (o presunti tali) si alternano a comiche nutrici e dove persino la profetessa Manto non è altro che una ragazzina dai sensi accesi interessata più ad accalappiare un improbabile principe latino che a lanciare funeste profezie. Anche l’essenza del mito di Niobe è appena sfiorato: circa due terzi delle quasi quattro ore di spettacolo è occupato da intrighi politico-amorosi e solo alla fine Niobe sembra ricordarsi dei suoi figli e della faccenda della sfida agli Dei, più che altro, si sospetta, per dare l’occasione di un finale tragico. In questo, l’approccio sembra ancora molto più vicino all’universo monteverdiano precedente che al successivo spiritoilluminista, mancando quasi del tutto l’intento morale, quasi pedagogico, che spesso caratterizza l’utilizzo che di queste storie “esemplari” verrà fatto nel ‘700.
Dal punto di vista più strettamente musicale, lo stile di Steffani è emblematico della sua formazione: nacque in veneto, dove iniziò a studiare musica; a tredici anni venne portato in Germania, dove rimase in pratica per il resto della vita, facendo però numerosi viaggi in Italia e in Francia. Il risultato è uno stile dove, anche qui, si tocca quasi con mano il
“work in progress” di un linguaggio che stava cambiando in modo radicale: il continuum drammatico-musicale di qualche decennio prima comincia a spezzarsi in forme chiuse, con già ampio uso di quelle arie (bi e tripartite) che monopolizzeranno le strutture architettoniche dell’opera seria vera e propria. Eppure tali forme non hanno ancora la perentorietà che acquisiranno di lì a poco: i recitativi, ancora in molti casi accompagnati dall’intera orchestra, scivolano a volte impercettibilmente in arie accompagnate dal solo basso continuo; l’antico recitar cantando di stampo monteverdiano si alterna con arie già in odore di Handel (il quale, per inciso, conosceva personalmente Steffani e possedeva diversi suoi lavori, e si sente…); arie “severe” accompagnate dal solo basso continuo (pare che persino il leggendario padre Martini tenesse le opere di Steffani in gran conto, e si capisce il perché…) convicono con ritmi di danza ed esperimenti orchestrali che profumano di tragédie lyrique. Personalmente, l’ascolto di quest’opera mi ha convinto ancora di più dell’importanza di esplorare questo specifico periodo, senza il quale, darwinianamente parlando, continuerà a mancarci un anello essenziale dell’evoluzione del genere.
Venendo alla parte esecutiva, devo dire innanzi tutto che si è trattato dell’unico modo sensato di affrontare operazioni di questo genere: un lavoro musicologico attento, il coinvolgimento di artisti diprimo livello, una co-produzione articolata che consenta un sufficiente numero di recite (e che, speriamo, porti anche ad una registrazione). L’unico punto relativamente debole era la messinscena: lo spettacolo di Hemleb è bello, di gran gusto, con alcune splendide trovate, ma si limita, appunto, a “mettere in scena” una storia, senza indagarne la drammaturgia interna e, soprattutto, senza nemmeno cercare di trovare un linguaggio adatto a rendercela contemporanea (requisito che si è sempre dimostrato essenziale a consentire la reale rinascita di generi che si credevano morti, come gli esempi di Lully e Rameau dimostrano). Hengelbrock era il vero deus ex machina dell’operazione, capace di affrontare un’esegesi completa della partitura (di cui lo stesso ha approntato l’edizione) e di trasformare poi tutto il lavoro preparatorio in teatro vero (per inciso: interessante l’idea delle sorellastre Wagner di affidargli il Tannhäuser della prossima estate…).
Cast notevole. Due controtenori (tre in realtà, ma il terzo è marginale) esattamente speculari: il polacco Laszczkowski, con una voce modesta e ormai un filo usurata ma dalle notevoli capacità espressive, ha ottenuto un ben meritato trionfo, e del resto il personaggio di Anfione è veramente straordinario, con alcune delle più belle arie che il repertorio secentesco finora noto possa offrire (una in particolare, “Sfere amiche” è memorabile: una lunghissima e sublime meditazione sulla musica delle sfere celesti, organizzata su un ostinato sopra il quale si inseriscono giri armonici che veramente “materializzano” le atmosfere cosmiche che il testo evoca); e l’inglese Iestyn Davies (l’Ottone della Poppea di Carsen) dalla voce invece bellissima ma dalla personalità un filo più ridotta. Su tutto e tutti la straordinaria Véronique Gens come Niobe: una vocalità duttilissima capace di sfumare l’alterigia di fondo del personaggio con tocchi di femminilità ora fragile ora sensuale, culminata nella scena finale(aria? arioso? recitativo? difficile a dirsi…) della pietrificazione. Un’artista che si conferma straordinaria, anche se proprio su di lei si avvertiva la mancanza di un lavoro registico vero: se invece della generica ambientazione secentesca le si fosse consentito di raffigurare una donna in carriera a noi contemporanea, l’esito credo sarebbe stato mozzafiato…
Il risultato è che all’ultima di sei recite il Covent Garden era strapieno ed esultante come, pare, nei teatri che quello stesso spettacolo hanno ospitato in passato e come, si presume, avverrà in quelli che lo ospiteranno fra poco. Ovviamente, non in Italia… Peccato.
Beckmesser
Royal Opera House, Covent Garden, London
LOCANDINA DELLO SPETTACOLO
NIOBE REGINA DI TEBE (Agostino Steffani)
Balthasar Neumann Ensemble
direttore: Thomas Hengelbrock,
Anfione – Jacek Laszczkowski
Niobe – Veronique Gens
Nerea – Delphine Galou
Clearte – Tim Mead
Tiberino – Lothar Odinius
Manto – Amanda Forsythe
Tiresia – Bruno Taddia
Poliferno – Alastair Miles
Creonte – Iestyn Davies
Lukas Hemleb (regia)
Raimund Bauer (scene e luci)
Andrea Schmidt-Futterer (costumi)
Thomas Stache (coreografia)