Venerdì, 22 Novembre 2024

Backstage: Isolde a Bayreuth. Prima parte (1886-1906)

Aggiunto il 01 Settembre, 2008

L’ETA' DI COSIMA WAGNER
La nostra storia ha inizio nel 1886, quando “Tristan und Isolde” di Wagner (vent’anni dopo la creazione) venne allestito per la prima volta a Bayreuth, il teatro edificato per volontà dello stesso Wagner ed esclusivamente consacrato alle sue opere.
All’epoca il festival era ancora fresco: dieci anni di vita e quattro soltanto di rappresentazioni e tuttavia dai tempi dell’inaugurazione erano già cambiate varie cose.
Richard Wagner era morto tre anni prima avendo però fatto in tempo a curare personalmente i due primi allestimenti: l’Anello del Nibelungo (1876) e Parsifal (1882).
Dopo la sua morte fu la vedova, Cosima, depositaria del pensiero e delle volontà del marito, a prendersi carico della non semplice gestione del festival – gravemente indebitato - e a renderne possibile la continuità (impresa su cui pochi avrebbero scommesso) per i successivi cinquant’anni, direttamente e indirettamente, supportando il figlio Siegfried.
Fu proprio lei a programmare il primo Tristano a Bayreuth e quella fu la prima volta che sulla collina veniva presentata un’opera scritta prima della fondazione del festival.
Donna di fortissima personalità e fascino intellettuale, veicolo determinante del mito di Bayreuth, Cosima si impone ancora oggi come uno dei personaggi più singolari e straordinari della sua epoca.
Figlia di un Liszt, moglie di un Bülow, musa di un Wagner...
Da grande perturbatrice della moralità borghese (lo scandalo della sua relazione adulterina con Wagner fece vacillare la corte bavarese) seppe divenire, dopo la morte di lui, un’ipostasi di rigore e costumatezza vittoriana; da “musa” si fece “vestale”, capace con le sue sole forze di tener testa al mondo intero pur di difendere l'arte del marito.
È così noto il suo personaggio di canuta e incrollabile regina a lutto, serva dispotica dell’Ideale, così emblematico di quella “fin du siècle” che dominò, che rischia di far passare in secondo piano ilsuo talento di amministratrice e organizzatrice artistica, il suo culto della qualità, il suo coraggio della sperimentazione.
Come ogni personalità nata per fare e comandare, Cosima ebbe molti nemici e non solo fuori di Bayreuth ma anche all’interno dell’Agape, fra i suoi numerosissimi sudditi.
Contro di lei si schierarono presto gli estremisti del Festival, gli eterni “rivoluzionari” che ancora in Wagner cercavano il fascino del sovvertimento, la negazione di ogni tradizione e che mal sopportavano la “vulgata” imposta con imperio sacrale dalla grande vedova, …in pratica una nuova tradizione.
D’altra parte, Cosima era esposta anche al fuoco dei super-tradizionalisti, i chierici di Bayreuth, più “vedovi Wagner” di quanto fosse lei stessa; da questi ultimi fu spesso considerata una pericolosa apostata, specie per la composizione dei cast (in cui non mancavano elementi francesi, ebraici, inglesi) e per la scelta dei titoli (quel Tannhäuser contaminato di francesismo che Cosima osò mettere in programma nel 1891).
Ma i veri nemici di Cosima, quelli contro i quali la guerra fu aperta e dichiarata, vivevano oltremare, nei teatri dove a cavallo fra ‘800 e ‘900 si cominciò a praticare quello che d’ora in poi chiamerò il “Wagner internazionale”: in particolare il Covent Garden di Londra e il Metropolitan di New York.

IL WAGNER INTERNAZIONALE
Alla fine dell’800 la musica di Wagner non era più riservata a pochi apostoli; era diventata un affare di miliardi. Fin dagli anni ’80, le sue opere – prima allestite molto di rado e avvolte di un’aura iniziatica – avevano preso a circolare massicciamente fuori dalla Germania; tutti improvvisamente si erano scoperti wagneriani, persino coloro che avevano contribuito all’ostracismo durato per decenni; persino quella Parigi che ne aveva rovesciato il Tannhäuser; persino quell’Italia contro la cui estetica Wagner si era programmaticamente opposto.
E’ anche vero che l’ingresso delle opere Wagnerianenel “grande repertorio” non fu indolore; comportò infatti – almeno inizialmente – un’omologazione alle prassi in voga nel repertorio tradizionale.
In fondo è comprensibile: non tutti i teatri potevano dotarsi - come lo stesso Wagner aveva fatto a Bayreuth - di una sala architettonicamente e acusticamente funzionale solo alla sua musica; né potevano permettersi di concentrare tutte le energie e le risorse nell’elaborazione di uno stile esclusivamente wagneriano. A differenza di Bayreuth, il repertorio che si praticava nei teatri tradizionali era vastissimo, adatto a un pubblico generalista. Le orchestre e i cori erano avvezzi all’operismo tradizionale ma generalmente impreparati al monumentale sinfonismo di Wagner.
I cantanti scritturati per Wagner dovevano essere anche divi del repertorio tradizionale, tanto per attrarre più pubblico (le signore newyorkesi palpitavano per il Tristano del bellissimo Jean de Reszke né più, né meno che per il suo Roméo di Gounod).
Una volta uniformate al grande repertorio, infarcite di tagli e mutilazioni, rilette in chiave esclusivamente epico-favolistica a danno dei contenuti speculativi e filosofici, le opere di Wagner risultavano non solo più facili e meno dispendiose da mettere in scena, ma soprattutto più digeribili per il pubblico e quindi più vendibili. E che ciò comportasse un sostanziale tradimento di tutto in cui Wagner aveva creduto era, per molti, un problema minore.
Dovendo essere onesti, al Wagner Internazionale vanno anche riconosciuti grandi meriti, il maggiore dei quali è stata la divulgazione planetaria del compositore anche agli strati più popolari del pubblico. Se fosse dipeso dall’altera civiltà di Bayreuth con i suoi estremistici intellettualismi, forse Wagner non sarebbe approdato alla popolarità che ancora oggi conserva. Bisogna inoltre ammettere che anche fra gli esponenti del Wagner Internazionale allignavano personalità di altissimo profilo; infine è all’esistenza di una scuolaalternativa a Bayreuth che si deve quella convulsa dialettica fra “conservazione” e “rivoluzione” che ha reso così speciale e affascinante la storia interpretativa di Wagner lungo il ‘900.
Ma tutto questo a Cosima Wagner non interessava; dall’alto della sua collina – e bisogna dire legittimamente – non si stancava di lanciare anatemi contro la deriva di stili e contaminazioni a cui le opere di Wagner erano sottoposte nel mondo, e in particolare contro le abominevoli mistificazioni di New York.
La missione di Bayreuth, al contrario, consisteva nell’elaborazione di uno stile esecutivo unicamente wagneriano, forgiato sull’autorità dello stesso Wagner, dei suoi scritti conservati a Wahnfried, della memoria di chi aveva lavorato e vissuto con lui, ma anche sulla sistematica riflessione di studiosi, musicisti, interpreti tutti solidali nell’obbiettivo.
Anche il rifiuto di far circolare Parsifal fuori da Bayreuth (rinunciando alle miliardarie entrature che ciò avrebbe comportato) rientra nel medesimo ideale di altera primogenitura: fino a quando non scaddero i diritti nel 1913 - quindi per quaranta lunghissimi anni – non fu possibile ascoltare il Parsifal che a Bayreuth (non contando l’allestimento “abusivo” del 1903 al Metropolitan, ennesimo casus belli tra Cosima e il primo teatro americano).
Il rigorismo di Cosima divenne presto una spina nel fianco per teatri come il Met, una minaccia troppo grave al loro Wagner edulcorato e commerciale.
Ne seguì una guerra senza esclusione di colpi, durata diversi decenni e forse mai veramente conclusa. Cosima aveva dalla sua l’auctoritas dello stesso Wagner; il Met disponeva in compenso di mezzi economici e pubblicistici infinitamente più potenti: fu proprio l’abile pubblicistica del Wagner Internazionale a divulgare la favola di una Bayreuth polverosa e intransigente, popolata da una setta di fanatici aggrappati alla gonnella di una vecchia signora che spacciava le proprie muliebri farneticazioni perverità carismatiche.
E furono ancora i “bidelli del Met” a inventarsi il fortunato slogan secondo cui a Bayreuth i cantanti “urlavano” invece di cantare.
Non era certo la prima volta che l’espressione “urlare” veniva usata nella storia del canto; di solito viene rispolverata ogni volta che si voglia stigmatizzare un tentativo di riforma del canto fuori delle consuetudini di scuola. Ad esempio è la stessa espressione che usò Rossini verso il do di petto di Duprez.
Ovviamente è falso che i wagneriani di Cosima urlassero (come non urlava Duprez), ma è vero che l’opposizione fra Bayreuth e il Wagner Internazionale ebbe il suo fulcro nella questione del canto: il declamato colorista incoraggiato da Bayreuth contro il Wagner “belcantista” difeso nei teatri britannici e soprattutto americani.

LA RIVOLUZIONE ANTI-VOCALISTICA DEI WAGNERIANI
All’epoca in cui Wagner aveva cominciato a comporre, i cantanti d’opera praticavano una tecnica vocale abbastanza simile in tutti i paesi di Europa, Germania compresa; era la tecnica di matrice “belcantistica”, elaborata in epoca Barocca e incentrata sull’immascheramento dei suoni.
E’ una tecnica gloriosa, estremamente complessa, che permette a chi la pratica prodezze vocalistiche inaudite; ne è prova il fatto che tutto il repertorio composto espressamente per i belcantisti non potrebbe essere affrontato con alcuna altra tecnica vocale.
Il limite di questa scuola, se così si può dire, è che l’“immascheramento” tende a uniformare le vocali (che escono come “alonate” dagli armonici superiori) rendendo praticamente incomprensibili le parole cantate. Perdendo di comprensibilità, la parola perde anche di pregnanza, di intensità poetica e finisce per diventare mero supporto del suono. Nell’estetica Barocca questo non è un problema perché la spettacolarità dell’involucro conta di più della profondità dei concetti.
Il problema però si pose e in misura grave con Wagner, per il semplice fatto cheegli ribaltò la gerarchia musica-parola a tutto vantaggio della seconda.
Le sue opere sono fondate su conversazioni e monologhi dilatatissimi, avulsi da strutture strofiche: ore e ore di speculazioni concettualmente molto complesse e in totale assenza di azione, che sarebbero semplicemente impensabili nell’opera pre-wagneriana. Se una sola delle infinite parole di questi monologhi sfugge all’ascoltatore tutta l’impalcatura logica del discorso (e quindi della drammaturgia) rischia di frantumarsi.
Nei pezzi chiusi dell’opera pre-wagneriana i vocaboli venivano ripetuti all’inverosimile e ridisposti liberamente dal compositore al solo fine di assecondare lo sviluppo della melodia. In Wagner invece non si trova una sola parola che venga ripetuta a fini musicali: è la musica semmai a doversi adoprare per valorizzare la parola e non viceversa.
Nell’opera pre-wagneriana una sillaba poteva essere prolungata anche per dieci battute con complicatissime figurazioni melismatiche. Tali figurazioni permettevano begli effetti virtuosistici, ma riducevano le vocali a semplici supporti del canto (donde il termine “vocalismo”). Tutto il contrario di ciò che fa Wagner, il cui declamato è essenzialmente sillabico: una sillaba = una nota.
E ancora… il vocalista barocco doveva coprire estensioni prodigiose; il cantante wagneriano al contrario è tutto concentrato sul medium ed evita, salvo sporadicissimi casi, i registri estremi (proprio quelli che il Belcanto aveva imparato a dominare egregiamente).
Insomma è un’autentica voragine che si apre fra ciò che offre l’antica tecnica belcantista e ciò che reclama la scrittura wagneriana. Tutto quello che il Belcanto può consentire (virtuosismo melismatico, estensione, strumentalità di fraseggio e quindi “omogeneità”) in Wagner non serve più; in compenso ciò che Wagner pretende dal cantante (dialettica della parola, esaltazione dei colori vocalici e quindi “disomogeneità”) il Belcanto non può e non vuole offrirlo.
Non c’era altra strada che individuare nuove soluzioni tecniche oltre il recinto della tradizione belcantistica.
E così fu. Un po’ alla volta i wagneriani presero ad avventurarsi fuori del vocalismo tradizionale e a violarne i precetti. Fu una delle più importanti rivoluzioni della storia del canto occidentale, ma fu anche un processo lento, rischioso, fortissimamente osteggiato, perché, rinunciando al vocalismo tradizionale, il wagneriano avrebbe sì guadagnato i suoi vagheggiati colori, ma avrebbe nel contempo dovuto rinunciare a quasi tutto il repertorio pre-wagneriano. Anche per questo fu uno strappo clamoroso.
Ovviamente il festival di Bayreuth si fece paladino della rivoluzione declamatoria e colorista, che coinvolse molti altri teatri soprattutto di area tedesca. D’altro canto molti wagneriani non se la sentirono, sul momento, di sconfessare le conquiste del Belcantismo a cui si erano forgiati: alcuni di loro erano vere e proprie celebrità (per restare alle interpreti di Isolde si pensi alla Lehmann, alla Ternina, alla Nordica) e giustamente temevano di porre a rischio la propria efficienza nel resto del repertorio (Verdi, Meyerbeer, Bellini, Mozart) se avessero seguito la strada dell’eversione.
I “Wagneriani belcantisti” sopravvissero per alcuni decenni (almeno fino alle prima guerra mondiale) anche grazie al sostegno del Wagner internazionale.
Il Met in particolare divenne la loro Mecca. In fondo che cosa importava all’ascoltatore anglofono che questi wagneriani non valorizzassero la parola tedesca, che egli comunque non avrebbe compreso? In compenso erano così bravi a rendere meno noiosa la musica di Wagner con i bei fraseggi, la cui tornitura “belliniana” ben si adattava ai tanti scampoli melodici di cui è ricca la musica di Wagner!
Ovviamente nemmeno questa volta Cosima se ne restò zitta e anche il Wagner belcantista incassò la sua bella dose di anatemi.
La Storia ha dato ragione a Cosima: oggi i belcantisti sannoche Wagner non è per loro e se ne tengono a salutare distanza.
Nondimeno, per il ventennale del Festival, la grande vedova sorprese tutti invitando sulla collina – affinché vestisse i panni delle tre Brünnhildi – nientemeno che Sua Maestà Lilli Lehmann: la superstar del Wagner Belcantistico, l’imperatrice del Met.
I testimoni riferiscono che le due sovrane trascorsero l’estate a guardarsi in tralice, scambiando sorrisi di convenienza e sguardi gelidi come un’Elisabetta Tudor e una Maria Stuarda.

LA SUCHER CONTRO LA LEHMANN
Il Ring del ventennale non fu l’unica occasione in cui Cosima permise a una diva del Met di cantare a Bayreuth; ai primi del ‘900 scritturò addirittura Lillian Nordica, Johanna Gadski e Emmy Destinn, sia pure piazzandole nelle opere giovanili (Elsa, Senta…).
Per Isolde tuttavia non avrebbe potuto rivolgersi ad altri che a una moderna colorista; quello era il ruolo chiave della rivoluzione linguistica di Wagner ma soprattutto, come vedremo, era un ruolo chiave per lei.
Le cantanti che si alternarono come Isolde a Bayreuth durante il regno di Cosima furono tre: Rosa Sucher, Therese Malten (dal 1886 al 1891) e Marie Wittich nella ripresa di vent’anni dopo.
Vocalmente erano abbastanza simili: più incisive nei centri che negli acuti, voluttuose nel timbro (Cosima le volle anche come Venus e Kundry) ma capaci di candore e femminilità (due di loro interpretarono anche Eva a Bayreuth). Therese Malten (nata a Insterburg nel 1855) e Marie Wittich (Giessen 1868) furono soprani abbastanza celebri, entrambe di stanza all’Hofoper di Dresda (teatro in cui la Wittich entrò nella Storia per la creazione mondiale della Salome di Strauss). Ma la vera “divina” delle tre fu Rosa Sucher (ritratta nella foto in testa all’articolo). Nata a Velburg in Baviera nel 1847, fu probabilmente l’Isolde più completa e rappresentativa dell’ultimo scorcio dell’Ottocento.
A riprova del suo prestigio, basterà dire che, oltre adaprire la galleria delle Isolde a Bayreuth, la Sucher aprì anche quella delle “internazionali”, battendo di tre anni la Lehmann (che solo nel 1885 avrebbe creato il ruolo al Met). Già nel 1882, infatti, aveva tenuto a battesimo il Tristano a Londra (precisamente al Drury Lane’s). Dieci anni dopo sarebbe tornata nella capitale britannica per il primo Tristano al Covent Garden, ma nel frattempo la sua Isolde aveva fatto il giro del mondo: Berlino, Amburgo, Vienna, Bayreuth e…addirittura New York.
Ebbene sì, nel 1895 la Sucher era approdata, con la Damrosch Company, nientemeno che al Met, dove aveva sfidato la grande rivale Lilli Lehmann direttamente a casa sua. I recensori americani si sbizzarrino nel confrontare le due artiste, scorgendovi due esempi di approccio al personaggio - anche vocalmente - opposti.
L’antitesi Sucher – Lehmann non va considerata la solita rivalità fra dive: a contrapporle era il fatto che dal punto di vista tecnico militavano su fronti opposti. Lilli Lehmann era, come abbiamo detto, l’archetipo del Wagner “belcantista”: monocromatica, grande fraseggiatrice e dai riflessi stellari. La Sucher al contrario era la wagneriana del futuro, assai meno virtuosa ma dalle vocali voluttuosamente esplicite, dall’umanità più carnale e colorista, insomma pre-declamatoria.
Purtroppo della Sucher non ci soccorrono registrazioni discografiche (che comunque l’avrebbero ritratta in uno stadio di avanzato declino); al contrario la Lehmann – la cui longevità fu addirittura prodigiosa - arrivò in eccellenti condizioni all’appuntamento col disco. A sessant’anni suonati potè permettersi di incidere le due arie di Kostanze, con vocalizzi da far vibrare i cristalli e re sopracuti filati. Ma se in Mozart è un prodigio di splendore e autorevolezza espressiva, nei brani wagneriani (Liebestod, “Du bist der Lenz”) risulta molto meno persuasiva, inutilmente maestosa e compassata, come irrigidita dalla sua stessa vocalità. Da brava belcantista, la Lehmannebbe in repertorio anche Traviata, Margherite di Valois, Donna Anna, Leonora del Trovatore; come Norma poi fu addirittura monumentale.
Nessuno di questi personaggi ovviamente appare nel repertorio di Rosa Sucher: proprio in quanto pioniera del declamato, non avrebbe potuto – se anche lo avesse voluto – cimentarsi con i personaggi brillanti e virtuosi che fecero la gloria della rivale. La sua carriera ebbe in Wagner il suo inizio e la sua fine: vi si lanciò giovanissima nei primi anni ’70 e non lo mollò fino al ritiro (che avvenne con Sieglinde, nel 1903 a Berlino).
Le uniche deroghe che si permise riguardavano personaggi in qualche modo “adattabili” al declamato: Gluck, Beethoven, e soprattutto Weber di cui fu interprete famosa (a Vienna nel 1886 - per il centenario del compositore - cantò in successione Rezia, Agathe ed Euryante).
Di Verdi fu Desdemona nella prima dell’Opera ad Amburgo. Sempre ad Amburgo creò l’Herodiade di Massenet (ma, notate bene, non il personaggio sopranile di Salome, bensì quello mezzosopranile di Herodiade).
Gli storici ci riferiscono di una voce non priva di asprezze (tipico di chi non coltiva l’omogeneità e l’ossessione dell’immascheramento) ma capace di sottigliezze e accensioni folgoranti (tipico di chi coltiva il colorismo). Significativa poi è l’insistenza con si sottolineava la “sensualità” del suo timbro, persino quando cantava il Sogno di Elsa. Anche questo è normale: se c’è una cosa che il canto immascherato mitiga è proprio la carnalità dei suoni e dunque la loro sensualità. Ma la prova definitiva del contributo di Rosa Sucher al declamato wagneriano ce la fornisce Cosima stessa, che di questa scuola si dichiarò apertamente partigiana: se le belcantiste (come la Lehmann, la Nordica, la Gadksy) cantarono a Bayreuth il tempo di un’estate, la Sucher vi rimase in pianta stabile per quasi tre lustri (dall’86 al 99).
Oltre che in Isolde, tornò sulla collina in Kundry, Eva, Venus e soprattutto Sieglinde,ruolo con cui partecipò all’attesissimo Ring del ventennale (1896) che, come abbiamo detto, ospitò anche la Brünnhilde di Lilli Lehmann. Fortunati gli spettatori di quella serata, che poterono vedere sullo stesso palco le due maggiori Isolde di una generazione, l’una contro l’altra: da una parte i colori roventi della Sieglinde declamatrice, aperta sul futuro;dall’altro lo sfolgorio siderale della Brünnhilde belcantista, ultimo barbaglio di una civiltà al tramonto.

ISOLDE CONTRO BRÜNNHILDE
Una prassi diffusasi molto presto (e avvallata tanto dal Wagner Internazionale quanto nella Bayreuth del dopo-Cosima) vuole che Isolde e Brünnhilde debbano essere affidate allo stesso soprano, traguardo di ogni hochdramatische che si rispetti.
Eppure i due ruoli presentano caratteristiche di scrittura e definizione psicologica molto differenti.
Consegnare Isolde a una specialista di Brünnhilde vuol dire gravare il personaggio di un tonnellaggio vocale e una violenza d’accenti probabilmente eccessivi. Esasperando il lato supersonico della castellana irlandese (a immagine e somiglianza della valchiria), si rischia di comprometterne l’umanità, la femminilità, la gioventù febbrile e a suo modo indifesa. In compenso ne verrà accentuato il lato matronale e vigorosamente propulsivo, come purtroppo è molto spesso accaduto lungo tutto il ‘900: nove volte su dieci Isolde ci è stata presentata come un monumento di forza apocalittica.
Ancora oggi le interpreti di Isolde sono disperatamente attratte dalla Valchiria e viceversa. Il mondo è pieno di eccellenti Brünnhildi troppo “virago” per Isolde (la Varnay e la Nilsson); o di eccellenti Isolde sfracellatesi contro la tessitura troppo acuta di Brünnhilde (la Moedl).
Il colmo è rappresentato da quelle artiste che avrebbero potuto consegnarci Isolde meravigliose (la Crespin, la Rysanek o la Normann) ma se ne sono astenute perché intimorite non tanto dal ruolo, quanto dal formato abusivamente poderoso che latradizione gli ha cucito addosso.
E tuttavia, se andiamo a leggere i cast di Bayreuth, ci rendiamo conto che Cosima Wagner non aveva affatto avallato questa presunta contiguità fra la principessa e la valchiria. Anzi, ella tenne sempre distinte le interpreti di Isolde da quelle di Brünnhilde con una costanza e un’ostinazione che i suoi discendenti non avrebbero affatto osservato.
E dire che, fuori di Bayreuth, tutte e tre le sue Isolde (la Sucher, la Malten e la Wittich) si erano spesso sperimentate in Brünnhilde.
A Bayreuth no: Cosima le impiegò in Sieglinde (la Sucher e la Wittich), Eva (la Sucher e la Malten), Venus (la Sucher) e persino – come vedremo – Kundry (tutte e tre), ma mai in Brünnhilde.
Con la stessa coerenza la vedova di Wagner non permise alle sue Brünnhildi di cimentarsi in Isolde. La “divina” Amalie Materna (prima Brünnhilde e prima Kundry) continuò ad apparire sulla collina fino al ‘91, ma non come Isolde (e questo benché avesse trionfalmente creato il ruolo a Vienna con Winkelmann). Lo stesso dicasi per la Lehmann e la Gullbranson.
La determinazione “cosimaniana” di tener distinte Brünnhilde e Isolde presuppone una visione profondamente meditata dei personaggi e delle loro differenze. Brünnhilde è astrale, altera, metafisica, un fascio di luce eroico, semidivino: scende dall’alto del Walhalla per conquistare – controvoglia – la propria dimensione terrena.
Isolde è esattamente l’opposto: è un delirio di umanità; lo è nella febbre dell’esaltazione come nella disperazione dell’impotenza; ma soprattutto lo è nella grandiosa, volontaria e tormentata accettazione della colpa “originale” che …incolpevolmente si porta dietro. Solo in quanto umana Isolde potrà vincere la sua stessa umanità e (percorrendo un cammino antitetico a Brünnhilde) elevarsi fino alla propria sublimazione.
Una volta chiarite le caratteristiche psicologiche e vocali dei personaggi, le interpreti saranno scelte di conseguenza: e così leBrünnhildi di Cosima saranno adamantine e super-umane (proprio per questo pure “belcantiste”), mentre le sue Isolde saranno umane, calde e grandiosamente femminili come solo le declamatrici sanno essere.
E se proprio vogliono cantare nel Ring il loro approdo dovrà essere non la valchiria, ma Sieglinde, la miserabile Velside, anche lei – come Isolde - “umana troppo umana”.

ISOLDE – KUNDRY – SIEGLINDE
Alle sue tre Isolde (la Sucher, la Malten e la Wittich) Cosima impose di cimentarsi anche con la terrificante protagonista del Parsifal, Kundry.
L’idea di una Kundry lirica e sensuale, se non addirittura “bionda”, non fu - a dire il vero - un parto di Cosima; era stato lo stesso Wagner a suggerire questa possibile lettura del personaggio.
Le tre primedonne che si alternarono nel 1882 alla creazione dell’opera - scelte da Wagner in persona - erano talmente diverse che non è facile capire cosa egli si aspettasse davvero da questo inafferrabile personaggio. Forse desiderava proprio sottolinearne l’inafferrabilità.
La titolare fu l’immensa Amalie Materna, prima “hochdramatische” della storia wagneriana, già creatrice di Brünnhilde.
La seconda Kundry fu Marianne Brandt, mezzosoprano che più non si può (nello stesso anno era stata Brangäne nel famoso Tristano londinese del 1882, al fianco della Sucher).
La terza Kundry voluta da Wagner - e qui sta la sorpresa - fu l’allora giovanissima Therese Malten, una delle future Isolde dell’era Cosima.
Affidare un personaggio di queste dimensioni a una ventiseienne fresca di debutto (…e nelle vesti di Pamina!), mettendola per giunta a confronto con le voci mature e grandiose della Materna e della Brandt, fu un azzardo da parte di Wagner. La Kundry della Malten dovette produrre un effetto simile a quello che fece nel 1958 la giovane e biondissima Regine Crespin: più che una dannata, più che una santa, una semplice donna, schiacciata dalla colpa e dalla condanna, che trova il suoelemento naturale - più che nei rantoli del primo atto - nello stordimento voluttuoso del secondo e nell’estatica devozione del terzo; una Kundry, insomma, che può illuminare alcuni lati del personaggio solitamente in ombra: la fragilità, la femminilità, lo smarrimento, ma anche la forza istintiva della propria consapevolezza, la risolutezza del proprio sacrificio.
Proprio come Sieglinde, proprio come Isolde.
E’ quindi normale, se ci pensiamo, che la terza via aperta da Therese Malten per il personaggio di Kundry abbia trovato larga applicazione anche negli anni di Cosima. C’è come un disegno, un cammino iniziatico che, agli occhi di Cosima, collega Isolde a Kundry e a Sieglinde.
E’ in questa chiave che dovremmo forse leggere la sua ostinazione a metterli nelle mani di una stessa artista, come se di un unico personaggio si trattasse. È un cammino in cui Brünnhilde (l’invitta, la guerriera, la semidea) non ha posto. Dopo la morte di Cosima, i dirigenti di Bayreuth avrebbero promossa una nuova triade di personaggi, a noi più familiare e più assiduamente praticata dalle dive wagneriane: Isolde – Kundry – Brünnhilde. Solo di recente un’immensa interprete come Waltraud Meier ha riportato in auge la triade di Cosima, costringendoci a interrogarci sulla catena di “umanità” che stringe fra loro l’adultera, l’incestuosa e la bestemmiatrice di Cristo.
È una catena di devozione, colpa e sacrificio che Cosima Wagner sentiva sua, più di chiunque altro.

Matteo Marazzi

Categoria: Backstage

 

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