Backstage: Il Trittico di Puccini a Monaco di Baviera – di Francesco Brigo
Aggiunto il 22 Dicembre, 2017
Il Trittico rappresenta forse la massima espressione del virtuosismo creativo di Giacomo Puccini, che in queste tre opere mostra un´enorme padronanza stilistica che gli permette di passare con estrema facilità dalla rappresentazione cupa e tragica di una vicenda degna di un film neorealista (Il tabarro) al lirismo visionario (Suor Angelica), alla comicità più sfrenata e surreale (Gianni Schicchi). Tre opere tra loro diversissime, ma accomunate dalla presenza di cellule melodiche o ritmiche a tratti quasi ossessive che ne costituiscono l´ossatura e sul cui sfondo si stagliano alcune isole di lirismo via via lacerato e passionale, lineare e trasparente, oppure fresco e giovanile.
La vera sfida, per un direttore d´orchestra, consiste proprio nel sottolineare le peculiarità stilistiche di ciascuna opera (la loro diversa “tinta”), mantenendone intatto il legame sotterraneo. Sfida affrontata e pienamente vinta da Kirill Petrenko che, alla guida dell´Orchestra della Staatsoper di Monaco, realizza l´ennesimo capolavoro. Nella concertazione di Petrenko, intelligente e dall´estremo dominio tecnico, emerge pienamente la straordinaria contemporaneità di quel genio europeo del primo Novecento che fu Puccini. Stupisce prima di tutto la diversità nella resa dei colori: Petrenko sembra dirigere le tre opere con il pensiero rivolto alle sonorità orchestrali impiegati da altri grandi compositori europei agli inizi del secolo scorso. Il Tabarro è immerso in un´atmosfera decadente e crepuscolare che rimanda da un lato al lirismo nostalgico e cullante di Mahler e dall´altro alle dissonanze acidule e graffianti di Berg. Il lirismo sobrio e lineare di Suor Angelica nasce dallo stesso universo sonoro di Pelléas et Mélisande, mentre il ritmo indiavolato e il suono spigoloso e a tratti duro del Gianni Schicchi rimandano allo Stravinskij del Sacre e di Petruška.
Supero l´accompagnamento e il sostegno alle voci, realizzato con un´intelligenza e un´attenzione estrema alle
peculiarità timbriche dei singoli cantanti. Emblematico, in tal senso, la scena dello scontro fra Suor Angelica e la Zia Principessa. Il lirismo fragile, rarefatto e quasi congelato degli archi forma un efficacissimo contrasto con l´interpretazione aspra, vibrante e lacerata di Ermonela Jaho, mentre la fissità straniante e velenosa dei fiati rispecchia alla perfezione l´intolleranza glaciale della splendida Principessa di Michaela Schuster. Ma non c´è un solo momento musicale che non sia illuminato e quasi rinnovato dall´interpretazione di Petrenko. L´espansione lirica nel duetto fra Giorgetta e Luigi (“Ma chi lascia il sobborgo vuol tornare… con mille voci liete il suo fascino immortal!”) acquista tutta la propria forza emergendo come un´oasi di allucinata luminosità da una prigione ritmica opprimente, cupa ed ossessiva. Nel Gianni Schicchi l´arietta “O mio babbino caro” smette di essere stucchevole pezzo da concerto pieno di melassa per diventare una breve pausa teatrale dalla consistenza soffice e impalpabile come zucchero filato inserita in un ingranaggio dal ritmo inarrestabile e dalle sonorità taglienti.
Se eccellente è stata la direzione, altrettanto si può dire della parte vocale. Wolfgang Koch, pur penalizzato da una voce sostanzialmente corta e dall´intonazione a tratti precaria, ha reso molto bene la rassegnazione dolorosa e stanca di Michele, pienamente in linea con la visione proposta da Petrenko. Eva-Maria Westbroek è molto affaticata nel ruolo di Giorgetta, gli acuti hanno perso lo smalto e la sicurezza di un tempo, ma resta sempre bravissima (complice anche una straordinaria capacità di stare in scena) nell´esprimere la fragilità del personaggio, e il suo impossibile sogno di felicità sottolineato dal lirismo a tratti dolcissimo e a tratti dolorosamente lacerato dell´orchestra. Il Luigi del tenore coreano Yonghoon Lee ha mostrati una voce impressionante per ampiezza e risonanza, ma purtroppo appiattita da un´interpretazione monotona, dallapronuncia poco chiara e dalla sgradevole tendenza a stimbrare i suoni al termine della frase.
La Suor Angelica di Emonela Jaho e la Zia Principessa di Michaela Schuster sono state senza dubbio le migliori della serata. Il soprano albanese, pur nel timbro ordinario, ha dato vita ad un personaggio ribelle, combattivo ed energico eppur fragilissimo. Il suo “Senza mamma” cantato tutto sottovoce, sostenuto amorevolmente da un´orchestra delicatissima, è stato un momento di grande intensità teatrale, così come lo scontro con la Zia Principessa e il breve dialogo con la badessa che lo precede (“madre, Madre, parlate! Chi è? Madre… chi è?”). Michaela Schuster (impegnata anche come efficacissima Zita nello Schicchi) è stata una Zia Principessa di straordinario impatto teatrale, con una linea di canto essenziale e trattenuta, la dizione perfetta, e una presenza scenica davvero fuori dal comune.
Ambrogio Maestri, pur nella difficoltà a sostenere frasi acute in piano (“Addio Firenze!”) è stato un Gianni Schicchi spigliato e credibile, e abbastanza ben recitato. Parti di fianco molto buone, fra cui si segnala l´eccellente Lauretta dalla vocalità luminosa di Rosa Feola e il Rinuccio baldanzoso e sicuro di Pavol Breslik.
La regia funzionale e nel complesso tradizionalissima di Lotte de Beer è abbastanza piacevole, nonostante alcune gag di pessimo gusto nello Schicchi e i finali d´atto (davvero orrido il dispositivo scenico rotante) davvero insignificanti.
Venti minuti di applausi, con ovazioni da stadio per Yonghoon Lee e, soprattutto, per Ermonela Jaho e Kirill Petrenko. Per intelligenza interpretativa e dominio tecnico, la sua direzione è stata a mio parere una delle più significative ascoltate negli ultimi anni.
Francesco Brigo (Dottor Malatesta)