Traviata
Aggiunto il 02 Marzo, 2011
Sono partito piuttosto prevenuto, lo ammetto: l’ennesima Traviata discografica, per di più assemblata per celebrare le virtù(?) di una delle tante famiglie canore dell’opera, e forse nemmeno la più importante; un baritono non particolarmente interessante; un direttore perfettamente sconosciuto; una foto fi copertina che mostra la Dessì, con gli occhi al Cielo nemico, sorretta dal consorte in una posa che sarebbe apparsa demodé anche per il poster di "Viale del tramonto"...
E invece, a conti fatti un ascolto un po’ più che interessante.
Certo, bisogna accettare il presupposto assolutamente autoreferenziale di questa registrazione, che - con un cast totalmente italiano in ogni sua parte eccetto che nel direttore, e chissà per quale ragione - celebra di fatto la decadenza di un modo di cantare che finisce completamente proprio con Daniela Dessì, ultima Diva del canto all’italiana almeno per quanto riguarda la corda sopranile.
Infatti lei è bravissima: piena, pastosa, perfettamente immascherata, canta sul fiato comme il faut, è adeguatamente varia nell’espressione, è languida e appassionata come la protagonista di un romanzo Harmony, è malinconica e fané come la vera eroina ottocentesca.
Vogliamo fare i fiscali? Le manca il mi bemolle alla fine di "Sempre libera"; e chi se ne frega, è una pacchianata, non è prescritta dal Cigno di Busseto. Vogliamo essere ancora più pignoli? Le manca il senso della rivolta fatto sentire dalla Callas in avanti; le manca l’ebbra joye de vivre, il senso di consumarsi le ultime molecole di ossigeno in una rincorsa pazza e disperata prima alla follia del divertimento a tutti i costi (ecco il vero significato di quella chevauchée à roulades alla fine del primo atto, ed ecco la ragione per cui nessuno, dotato di un minimo di cervello, va a vedere quanto un soprano lirico riesca ad aderire al "Manuale della perfetta vocalista"), poi all’amore che sa esserle negato per l’aride follie del viver suo. Questo è - per dire - il plot narrativo di una Dessay, che non ha le note languide e pastose di una Dessì, né peraltro la sua tenera malinconia; ma, d’altra parte, qui si sta parlando di Ultimo Atto del canto all’italiana che morirà con Daniela. Ed era ora, aggiungiamo noi.
Ma perché dopotutto? In fin dei conti, italiana per italiana, meglio una Dessì che sa sempre quello che dice anche se sembra uscita da un film di Camerini, piuttosto che un’altra eminente ex Violetta, che ha anche inciso il ruolo cantandolo splendidamente – almeno come dicono i suoi ammiratori; io non sono d’accordo - ma anche con la stessa affettività di un ferro da stiro. Certo, ma è proprio questo modo di cantare ad essere antiquato, con la voce sempre perennemente impostata anche nella conversazione, che non ha più nulla da dire. Va bene se sei Daniela Dessì, ottima professionista, intelligente, preparata, anche simpatica; certo, una Violetta così retrò fa sorridere se si pensa alla modernità di eloquio di cantanti meno vocalmente dotate ma, se si sta al giuoco, ci si può divertire anche perché Daniela il suo lo sa fare davvero bene, ma Violetta è in un altro mondo; e non ce lo dice oggi la Dessay, ce l’aveva già raccontato oltre cinquant’anni fa la Callas.
Tutto ciò premesso, sinché sta in campo lei ci si diverte: è una vecchia (di mestiere, non di anagrafe) affabulatrice, sa come intrattenere il suo pubblico. È sicuramente un po’ troppo avanti negli anni per un’operazione del genere, ma questo riguarda solo la credibilità del personaggio, non l’organo vocale che invece è assolutamente integro, anche se le manca l’inutile mi bemolle; in compenso, il già citato finale del primo atto è dominato davvero bene. La presente registrazione è integrale in ogni sua parte, ma lei è molto brava nel diversificare le seconde strofe sia di "È strano" che di "Addio del passato". Manca singolarmente di mordente nell’Amami Alfredo in cui, senza arrivare agli schianti emotivi delle più grandi (Callas, Scotto e Netrebko in rigoroso ordine cronologico su tutte), basta anche una Inva Mula a bagnarle il naso. È invece molto brava e eloquente nel canto intimo di conversazione, grazie al tono naturalmente malinconico, sicché il meglio di sé riesce a darlo nel duetto del primo atto con Alfredo e in quello fondamentale del secondo con Germont, un eccellente e misurato Claudio Sgura. Quindi, una prova complessivamente più che decorosa, ricca di buon senso e di canto di ottima fattura, al limite anche superiore alle attese, che merita complessivamente un ascolto attento.
Al suo fianco sul podio possiamo serenamente mettere la prestazione di Claudio Sgura. Sovente criticato, probabilmente non un fulmine d’eloquenza, talvolta un po’ mugghiante nelle prestazioni dal vivo, qui suona invece molto bene. L’impostazione vocale è molto "alta" sul fiato come dovrebbe piacere ai puristi di alta scuola che invece non lo amano. Strano, perchè tra l’altro - almeno in questa registrazione - Sgura si ispira nettamente al modo particolarissimo di emettere tipico di Bruson. Quindi: buon canto di conversazione in un Germont commosso e partecipe e più giovanile del solito.
La direzione dell’a me sconosciuto John Neschling è piuttosto lenta ma ha una trama molto leggera e trasparente; dopo un’iniziale perplessità ci si abitua piuttosto bene e, alla fine, si rimane convinti.
I comprimari sono complessivamente buoni.
Tutto bene, quindi, o stiamo per caso dimenticando qualcuno?...
Già, Armiliato. Prevedibilmente, il buco nero della produzione nonché, a dirla tutta, la prova più evidente del decadimento del modo di cantare all’italiana. Ora, non si può onestamente dire che Armiliato canti male: al di là di una certa fibrosità dello strumento, peraltro di timbro e colori piuttosto ordinari, le note ci sono anche più del dovuto (come, per esempio, l’acuto fuori ordinanza alla fine di "O mio rimorso"). C’è anche qualche discreta intuizione di fraseggio: niente di straordinario o che non sia stato già tentato, come il tono sommesso e affettuoso con cui attacca il "Parigi o cara", ma insomma c’è. Ci sono anche alcune brutture, come certi suoni falsettanti che vorrebbero imitare le mezzevoci nei duetti. Ma c’è anche, complessivamente, un navigare a vista a mio gusto davvero brutto. Anche in un personaggio così semplice e dalla psicologia tanto lineare manca tutto: non c’è un’idea interpretativa, il fraseggio è quasi sempre sciatto e banale, si ha sempre la sensazione di un cantante - peraltro navigato ed esperto - come perennemente preoccupato, più che delle note, della tessitura e del modo di porgere tali note e la frase nel suo complesso. La Dessì fa un personaggio un po’ vecchiotto e old style, ma l’idea nel suo complesso c’è ed è ben perseguita; lui vive la frase preparandosi agli acuti. La differenza, a mio modo di vedere, sta tutta in questi termini.
La storia esecutiva di "Traviata" prescinderà quindi forse da questa esecuzione che merita di essere ascoltata sostanzialmente per la bella prestazione della Dessì e perchè suona il de profundis quasi definitivo al canto all’italiana. Per la chiusura della pratica aspettiamo il pensionamento dell’altra ex-Violetta cui accennavo prima; non dovrebbe mancare teoricamente molto, ha 63 anni, ma sta continuando a girare l’Italia da anni con una serie interminabile di "ultime recite"...