Venerdì, 22 Novembre 2024

Backstage: Tristan und Isolde Bayreuth 2015 - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 25 Agosto, 2015

Musikalische Leitung Christian Thielemann
Regie Katharina Wagner
Bühne Frank Philipp Schlößmann
Matthias Lippert
Kostüm Thomas Kaiser
Dramaturgie Daniel Weber
Licht Reinhard Traub
Chorleitung Eberhard Friedrich

Tristan Stephen Gould

Marke Georg Zeppenfeld

Isolde Evelyn Herlitzius

Kurwenal Iain Paterson

Melot Raimund Nolte

Brangäne Christa Mayer

Ein Hirt Tansel Akzeybek

Ein Steuermann Kay Stiefermann

Junger Seemann Tansel Akzeybek



Alla fine i conti, se partono da presupposti di onestà intellettuale, tornano sempre.

Si diceva che Evelyn Herlitzius non avesse più i mezzi vocali per affrontare una parte terrificante come questa, ed è parzialmente vero. Il termine “parzialmente” è un’attenuazione, un portato inevitabile dell’amore che chi scrive nutre incondizionato nei confronti di questa straordinaria Artista che, nel corso degli anni, ha regalato al proprio pubblico incarnazioni indimenticabili, meravigliose, perfette. Le banali considerazioni che lei è sempre un animale da palcoscenico incredibile, e che dà la sensazione di vivere integralmente il personaggio della selvaggia principessa irlandese, non tolgono una virgola all’assunto di base da cui bisogna partire nell’analizzarne la prestazione: l’Evelyn Herlitzius del 2015 è inadeguata alla parte.
L’avevo lasciata a Luglio trionfante Elektra, e avevo sperato che la forza con cui lanciava gli anatemi della principessa micenea fosse il miglior viatico per avere un’Isolde memorabile.
Sbagliato.
La declamazione serratissima di Elektra permette alla Herlitzius di mostrare il lato più privilegiato della sua vocalità: quello delle sciabolate di suono che, negli slanci, ha ancora una pienezza e una forza degni della Nilsson.
Ma Isolde è un altro paio di maniche.
/> Isolde poggia su un declamato violento e scandito, certo, ma nel contesto di frasi lunghissime, infinite, che richiedono una cantabilità che la Herlitzius ha ormai perso per strada.
Nel primo atto può “elektreggiare” nel corso delle invettive furiose del primo duetto con Brangäne e, allorquando la frase è breve o ben scandita, il volume la sostiene adeguatamente. Il problema è quando deve raccontare tutta la vicenda di Morold, dell’inganno di Tantris e degli sguardi che si cercano disperatamente: lì la Herlitzius, ampiamente afona nel settore centrale, è costretta a cercare ripetutamente un sostegno del fiato e conseguentemente stona.
Manca anche clamorosamente il si naturale di “Gab er es preis!”, che può essere assunto come paradigma della sua prestazione proprio perché arriva al termine di una narrazione lunghissima, che la prosciuga prima del momento catartico.
La cantabilità, che qualcuno malintende come un ritorno, una rivincita del vecchio canto all’italiana, è pur sempre un’espressione, un coté di quel declamato che è portato indispensabile per poter realizzare questo ruolo. Solo che è un declamato diverso da quello scandito e martellato di Elektra, o di Lady Macbeth di Mcensk, e richiede un’espansione che, pur ghermendo parole e sillabe, tenga conto anche della fluidità di un infinito raccontarsi. Di questo, la Herlitzius attuale non è più capace: sarà bene rassegnarsi.
È il motivo per cui non le riesce nessuno degli acuti che giungono alla fine di frasi lunghissime, mentre le riescono ancora molto bene quelli “elektrizzanti”. Ed è per questa ragione che il primo atto le riesce discretamente, nel secondo si difende e perde ai punti, ma nel terzo crolla miseramente nel momento in cui Isolde deve chiudere la partita: il Liebestod.
Le riesce abbastanza bene il momento precedente, l’Ich bin’s, Ich bin’s, süssester Freund; ma sul Liebestod, con le sue immense arcate acute, cade malamente facendosi male e perdendo

definitivamente la partita del ruolo.
Credo che questa sia la sua ultima Isolde: mi sembra la prospettiva più ragionevole e, se così effettivamente sarà, sono felicissimo di aver potuto assistervi.
Non si discute il carisma e la credibilità della grandissima interprete; ma senza adeguatezza vocale non si va da nessuna parte. E, su questo fronte, Evelyn – almeno in questo ruolo – non ha purtroppo più niente da dire.

Si diceva che Katharina Wagner, senza avere alle spalle il drammaturgo di “Meistersinger”, il geniale Robert Sollich, sostituito dal ben più prosaico Daniel Weber, non avesse le spalle sufficientemente robuste per gestire un dramma come “Tristan” in cui non succede nulla. È vero: oggi come oggi, se non hai un konzept forte puoi fare arredamento più o meno gradevole, puoi avere qualche idea meritevole di essere ricordata, ma non racconti una storia, come faceva per esempio Guth allorquando ambientava il suo “Tristan” a Villa Wesendonck a Zurigo e giocava tutta la drammaturgia sulla doppiezza delle situazioni.
Qui Katharina sceglie di togliere tutti i riferimenti all’inespresso e al non detto: Tristan e Isolde non perdono occasione per cercarsi e baciarsi sin da ben prima di bere (anzi, di versarsi sulle mani) il filtro. Le scale mutuate da Piranesi, o da Maurits Cornelis Escher, sono un mediatore di incomunicabilità, un trucco non diverso dalle analoghe scale di Harry Potter che snervano l’utente portandolo lontano dalla destinazione. Personalmente le ho trovate un espediente simpatico da vedersi, altri spettatori presenti in sala le hanno giudicate di singolare bruttezza, ma poco conta. Il problema è insito nel loro stesso fine: non portano da nessuna parte, nemmeno dal punto di vista registico. Sono un trucco, un gioco da galleria degli specchi. Non c’è un disegno registico: sono il modo con cui la regista risolve la quota minima sindacale di incomunicabilità che è tenuta a rappresentare per esigenze di libretto.
/> Il problema è che le scale vanno decisamente contro il bacio che i due si scambiano sin dalle prime battute orchestrali del loro incontro. E allora, vien da dire che le scale possono essere una barriera messa da altri, segnatamente i cattivi, e cioè gli uomini di Marke, per impedire – in guisa di labirinto – che i due possano toccarsi. Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata dall’impostazione del secondo atto, la cui scenografia è quella di un laboratorio/stanza delle torture in cui gli uomini in giallo (i cattivi, quelli della luce) puntano pesanti riflettori contro Tristan e Isolde, i buoni vestiti di blu, quelli della notte. I buoni si rifugiano sono un velo con cui si costruiscono una tenda che diventa il rifugio che tutti ci siamo costruiti da bambini; e lo arredano con piccole stelle giocattolo. I buoni cantano il meraviglioso “O sink hernieder” dando le spalle al pubblico, tenendosi per mano e contemplando come un sogno i se stessi da piccoli, in ologramma. Anche qui, in questa sala-laboratorio, ci sono scale: sono formate da anelli che delimitano gabbie o che creano l’illusione di scale messe lì per poter scappare, ma che in realtà crollano appena qualcuno cerca di aggrapparvisi.
Quella di Marke cattivo è una delle poche trovate registiche interessanti, ma non è sviluppata in modo da essere inquadrata in un konzept degno di tal nome: è lì, messa in bella vista come un salmone. A questa categoria delle “trovate” appartiene anche l’idea di quelle che, nell’intervallo, abbiamo chiamato “Isottine”: piccoli simulacri, a metà strada fra le bambole e i nani armonici, che riproducono le fattezze di Isotta e la sua pettinatura, contenute dentro a piramidi luminose che si accendono improvvisamente nella notte. Tristan vi si avvicina disperatamente, ma sono come i simulacri di un moderno film horror: scompaiono, o si trasformano in manichino, o si staccano la testa finta, o sanguinano. Il volto di queste “Isottine”, modellato su quella di una Herlitzius

che non mi è mai parsa così bella come questa sera, non è più una speranza, ma un orrore senza fine, indotto dalla luce che lo circonda. Tristan ne è terrorizzato: l’ultima di esse ha fra le mani la fiala del filtro e, dall’alto, lo versa per terra come lui aveva fatto sulle loro mani unite. È troppo per lui: la ferita di Melot non lo avrebbe forse ucciso, ma dopo aver visto quest’ultima immagine di orrore corre dagli amici ancora riuniti in cerchio e si getta fra di essi, in mezzo ai lumini votivi, esanime.

Ora, ci si può chiedere: un’idea per atto non è sufficiente per quest’opera? Non avevamo forse rimproverato Katharina di aver messo in campo troppe idee per i Meistersinger?
Il problema è quello che dicevamo all’inizio: nei Meistersinger c’era un’idea forte che è stata seguita e dipanata con forza e coerenza. L’idea potrà essere discutibile come tutte le idee, ma è un konzept che va dritto al cuore del problema-Meistersinger (il ruolo dell’Artista nella società e l’influenza delle regole sulla produzione artistica) e ne modifica definitivamente l’approccio: da Katharina in avanti, tutti si devono confrontare con queste tematiche.
Qui invece, alle prese con una sfida oggettivamente più difficile, Katharina fallisce.
Fallisce perché si scontra con la difficoltà pressoché insormontabile di una pièce in cui non succede nulla e i protagonisti passano mezz’ora a discutere di una congiunzione: e questo è un problema comune che non riguarda solo lei.
Ma fallisce anche perché, contrariamente a Guth, non aggira la mancanza di un konzept con l’artificio di un’ambientazione che si fa essa stessa storia, fabula.
Alla fine dello spettacolo di Guth, re Marke si prendeva su Brangäne non in quanto “bonne” con cui trastullarsi, ma come alter ego di Isolde che aveva consumato il proprio liebestod annullandosi come da programma.
Anche qui re Marke si prende Isolde e se la porta via, ma lo fa impedendole la morte e facendole

presagire una vita da sguattera nella sua ombra. La condanna alla quotidianità, senza che nulla ce l’avesse fatto presagire durante il resto dello spettacolo. E, a vegliare Tristan, rimane la spaurita Brangäne cui Katharina, vittima dei suoi trucchi, non sa dare una destinazione finale.

Quanto al resto dei cantanti, sarà meglio fare qualche distinguo.
Stephen Gould è attualmente l’unico che può portare a casa una parte del genere senza incorrere in problemi soverchi. Il fatto che l’abbia cantata peggio rispetto a Zurigo è dovuto probabilmente alla impostazione scenica che prevede che canti alcuni passaggi del suo terrificante monologo del terzo atto dentro alle strutture piramidali in cui ci sono le già citate “Isottine”, cioè i simulacri che danno forma visibile alle sue angosce. Dentro quelle piramidi la voce rimbalza, risulta più ovattata; lui verosimilmente non sente bene l’orchestra, per cui stona. Quando è fuori dalle piramidi canta molto meglio, e cioè non da nuovo Vickers ma da… Gould come l’avevo sentito a Febbraio, vale a dire l’unico o quasi tenore in grado di resistere alla prova per tenore più spaventosa ideata da compositore, per estensione e per lunghezza. Facendo il gioco dei paragoni, al ritorno abbiamo ascoltato il “Tristan” di Bayreuth del 1974, quello diretto da Kleiber: il povero Brilioth, che nella Götterdämmerung di Karajan era un non disprezzabile pur se non trascendentale Siegfried, crolla miseramente nel terzo atto svelandone tutte le terrificanti difficoltà. A suo confronto, Gould giganteggia; ma è comunque una prova lontana dai vertici fissati da altri e, al momento, non superabili interpreti.

Iain Peterson è solo l’ultimo dei Kurwenal in difficoltà con una parte solo apparentemente semplice, ma che in realtà si gestisce su un declamato complesso e ispido che non sconviene ad alcuni grandi interpreti di Wotan (penso a Hotter e McIntyre). Ne viene a capo solo con percettibile sforzo.

/> Molto meglio Christa Mayer, lei alle prese con tutti i vantaggi offerti non solo dalla maggiore cantabilità, ma anche dalla possibilità di risaltare nell’unico vero squarcio melodico, che peraltro risolve molto bene, con voce da vero mezzosoprano.

Georg Zeppenfeld ha una voce più chiara rispetto ai soliti Re Marke di tradizione lagnosa. Canta benissimo e con notevole sicurezza, oltre che con misericordiosa scioltezza il proprio terrificante monologo.
Fra gli altri, l’unico che risalta per virtù vocali è il Melot di Raimund Nolte, che la regista vuole più vigliacco e disgustoso del solito.

Eccezionale l’orchestra del Festival. Certi passaggi degli archi del secondo e del terzo atto cantavano con un suono talmente meraviglioso da commuovere sino alle lacrime: mai sentiti così, nemmeno con Karajan o con Kleiber! Sarà probabilmente dipeso che in prima fila, ove ci trovavamo, le vibrazioni dell’orchestra arrivano come mai ci era capitato di percepire, ma gran parte del merito va ascritto alla bellezza del suono di questa compagine che si riunisce solo in occasione del Festival; e all’impostazione di Thielemann che farà anche probabilmente un “Tristan” di tradizione, sbrodolone e sovrasaturo di tensione emotiva, ma lo fa come nessun altro al mondo e con una tale credibilità che è impossibile non credergli.
È probabile che “questo” Tristan l’abbiamo sentito fare un milione di volte, e che forse desidereremmo qualcosa di diverso (mi immagino cosa possa fare un Petrenko con questa partitura): ma, se vogliamo stare alla tradizione, Thielemann ne dà la versione più affidabile e di classe che si possa desiderare.

Alla fine venti minuti di applausi frenetici per tutti, con qualche isolato buu per Herlitzius e Thielemann

Pietro Bagnoli

Categoria: Backstage

 

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