Walkure
Aggiunto il 04 Marzo, 2007
Nel 1951, data di registrazione di questo spettacolo, era alle porte quell’evoluzione del modo di interpretare Wagner che, prendendo le mosse dal sacro Colle del Festival voluto dallo stesso Wagner, avrebbe anche preso il nome di Neue Bayreuth. Siamo soliti identificare questa transizione con il Tristan rappresentato da Herbert von Karajan, Martha Mödl e Ramon Vinay nel 1952; per inciso, è lo stesso anno del Ring di Clemens Krauss, quello che meglio testimonierà la magica intesa fra Astrid Varnay e Hans Hotter destinata a cementarsi nelle stagioni a seguire, anche con l’interpolazione – al posto della Varnay – della stessa Mödl.
Dunque, un anno sì e no di distanza temporale. E pare invece un’eternità.
Ascoltando questi dischi – tra l’altro, come al solito di splendido suono considerando l’epoca di registrazione, ma una volta di più ci tocca sottolineare quanto i tecnici tedeschi fossero più avanti rispetto ai loro coevi di qualsivoglia altra nazionalità, Italia ahimè compresa – si ha la sensazione di vivere l’ultimo colpo di coda di un ancien régime vocale che sappiamo destinato a spegnersi solo perché sappiamo come andrà a finire la Storia ma che, almeno sul fronte del canto, tenta di sparare le sue ultime cartucce.
Sul fronte del canto, dicevamo, perché la direzione d’orchestra va già in tutt’altra direzione, almeno inizialmente; di tutti gli interpreti in campo, Ferenc Fricsay con i suoi 37 anni è il più giovane in campo ed è anche quello potenzialmente più “proiettato” in avanti, e lo si capisce bene sin dall’ouverture che è frenetica, angosciante, tesa come una frusta: sostanzialmente sono già poste le fondamenta di tutte le interpretazioni moderne che arriveranno di lì a poco, iniziando proprio da Clemens Krauss (poi, si capisce, arriva Suthaus; e appena apre bocca ci troviamo precipitati di botto indietro nel tempo di almeno una decina d’anni. Ma di questo parleremo dopo). Il prosieguo dell’opera, almeno per i primi due atti, lo vede battere un tempo decisamente spedito, corrusco, poco incline alla meditazione e molto all’azione, che viene seguita come in un hard-boiled che sembra uscito dalla penna di un Raymond Chandler; il che è un’intuizione mica da ridere in un’opera come questa che, negli anni a venire, avrebbe preso progressivamente le sembianze del dramma borghese; anzi, ci spingiamo anche un po’ più in là arrivando a sostenere che questo tipo di visione avrebbe costituito un interessante contraltare a tutte quelle metamorfosi che poi avrebbero portato il grande teatro wagneriano – e il Ring in particolare – a una polverizzazione minimalista che sarebbe andata di pari passo (anche per questioni di mera necessità) con la progressiva riduzione del volume vocale. La visione hard-boiled di Fricsay si sarebbe parimenti giovata dell’incipiente espressionismo, ma probabilmente in un’ottica diversa; e sarebbe stato interessante osservarne l’evoluzione. Curiosamente questa prospettiva viene parzialmente abbandonata all’inizio del terzo atto, in una specie di ripensamento emotivo che lascia un po’ interdetto l’ascoltatore; non ce ne sapremmo spiegare abbastanza la ragione, se non imputandola a quella sorta di erraticità ritmica che talvolta affliggeva le interpretazioni del Maestro ungherese. L’esperimento finisce qui, con questa Walkiria, e proprio per i limiti ben evidenziati da alcuni (non tutti) degli interpreti presenti. Altrimenti detto: per poter avere una maggior pregnanza ci sarebbero voluti interpreti complessivamente più allineati con le intenzioni del direttore, il che invece non si verifica perché la maggior parte di essi sono francamente estranei a queste idee, per vocazione intrinseca o per formazione culturale. E questo appare ben chiaro ove si consideri che molti di essi, a quel punto, erano già in carriera da molto tempo e avevano già svolto gran parte della loro carriera all’insegna di altri criteri interpretativi. Se diamo una rapida occhiata alle schede anagrafiche, scopriamo per esempio che il più giovane in campo è Josef Greindl, nato nel 1912 e quindi trentanovenne; purtroppo è anche quello alle prese con il personaggio più convenzionale di tutti. Per carità, lo canta molto bene, con voce ben impostata da tieferbass, sicuramente con Frick e Böhme uno dei più impressionanti prodotti dell’area dell’interpretazione wagneriana in quella particolare corda; ma il personaggio è quello che è e più che tanto non si può pretendere di ricavarne in termini di intuizioni di fraseggio.
Nel pieno delle proprie potenzialità sarebbe invece Ludwig Suthaus, classe 1906; ma, come già anticipavamo poco sopra, la sua vocalizzazione che – per voler essere aulica – finisce per essere lutulenta, affondando nel magma di una morchia baritonaleggiante che fa il verso a Melchior, perde di fatto non solo lo squillo (peraltro poco sollecitato in questa parte) ma anche i pochi acuti presenti nella parte, a dimostrazione che l’imitazione non sempre porta buoni frutti. A ciò si aggiunga che il tenore preferito da Furtwangler non potrebbe essere più lontano dalla concezione ipotizzata da Fricsay, nel cui ritmo serrato annaspa come un pesce fuor d’acqua, chiaramente a disagio di fronte al rivoluzionamento della prospettiva esecutiva. Tutta la sua prova è disastrosa – sembra di sentire un vecchio ubriacone, con rispetto parlando – ma il momento in assoluto più sciagurato è il “Wintersturme” che affonda clamorosamente anche se, va detto, non solo per colpa sua.
Pesantemente inadeguata per la parte è infatti una Maria Müller ormai alla frutta di un’organizzazione vocale che era stata celestiale ma che ormai deve patteggiare con l’intonazione uscendone spesso sconfitta. La grandissima cantante – che sarebbe morta di lì a 7 anni e che aveva già una lunga e gloriosa carriera alle spalle – non sa che pesci pigliare: affronta le fiondate all’acuto con il terrore, rifugiandosi nell’inespressività del grido belluino, per dirla tutta nemmeno particolarmente espressivo essendo palesemente lontano dall’organizzazione vocale della grande cantante cèca. In bocca sua, il “Der Männer sippe” diventa una tremenda tiritera in cui la linea vocale balla terribilmente (e sarebbe il meno, càpita a tante assai meno blasonate) e in cui non si riesce ad avvertire né il tono misterioso né la marea montante del sentimento dapprima soppresso e poi lentamente palesato.
Di tutt’altra pasta l’appena di poco più giovane Paula Buchner – Brünnhilde – sopranone di voce e di fatto, ancora tenacemente ancorata ad un’emissione aulica, molto pompier, estremamente “forte” (quanto a volume), molto oscillante, terribilmente noiosa. In un’epoca come quella in cui le zie Mödl e Varnay stavano affilando i coltelli e quindi non avevano ancora dato il meglio di sé, ma che già aveva visto le angosce splendidamente espresse di Frida Leider e Marjorie Lawrence, ci sta questa cantante di solida voce e (nemmeno tanto) robusta emissione che guarda ancora speranzosa all’icona di Kirsten Flagstad, ma senza avere nemmeno un decigrammo della sontuosa ampleur e del grande carisma dell’illustre modello di riferimento. Ne esce quindi un personaggio perennemente in bilico fra Scilla e Cariddi: l’istinto la porterebbe ad un’impostazione del personaggio terribilmente conservatrice, la direzione d’orchestra la porterebbe invece ad osare qualcosa di diverso. Solo che ogni volta che osa, l’intonazione soccombe e balla paurosamente, il che la costringe a ritornare immediatamente nei ranghi.
L’ombra della grande cantante che fu appare anche Margarete Klose; l’emissione è francamente afona, ma il fraseggio ha ancora qualche sprazzo di torva grandezza che riesce a suscitare qualche fremito.
E così, tutto sommato, la sorpresa più gradevole di questa dimenticabilissima Walkiria la riserva il bravo Josef Herrmann, che parte in sordina, che alla fine non sarà mai uno dei Wotan da ricordare e da portare nella solita isola deserta, ma che dopo un avvio piuttosto imbarazzante, con notevole fatica a inquadrare l’intonazione (problema questo che evidentemente accomuna molti interpreti, ivi compreso … il corno di Hunding) trova un secondo atto interessante e un terzo atto che lo vede inizialmente corrusco e poi progressivamente “umanizzato”, ma sempre nell’ambito di una sorvegliata e asciutta espressività.
Pessimo il gruppo delle walkirie, veramente uno dei peggiori mai assemblato per quest’opera; e orchestra complessivamente di ottimo suono.
Decisamente una Walküre da dimenticare