Backstage: Aida a Milano - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 16 Febbraio, 2015
AIDA – Teatro alla Scala Milano – 15/02/2015
Direttore: Zubin Mehta
Maestro del coro: Bruno Casoni
Regia: Peter Stein
Scene: Ferdinand Woegerbauer
Costumi: Nanà Cecchi
Luci: Joachim Barth
Coreografia: Massimiliano Volpini
CAST
Il Re: Carlo Colombara
Amneris: Anita Rachvelishvili
Aida: Kristin Lewis
Radamès: Massimiliano Pisapia (15 feb.); Fabio Sartori (18, 21, 24 feb.; 1, 11, 15 mar.)
Ramfis: Matti Salminen
Amonasro: George Gagnidze (15, 18, 21, 24 febb.; 1 mar.); Ambrogio Maestri (11, 15 mar.)
Sacerdotessa: Chiara Isotton
Messaggero: Azer Rza Zada
C’era veramente bisogno di questo spettacolo?
Questa è la domanda che mi frullava per la testa ieri notte, tornando a casa dopo una delle più tristi, brutte, infelici, morchiose e pesanti edizioni del capolavoro verdiano in cui mi sia imbattuto nella mia carriera di spettatore.
La terza Aida in pochi anni, la prima non di Zeffirelli, è stata affidata a Peter Stein che ha programmaticamente lasciato perdere geroglifici, possenti Ftà e Isidi venerate, e ha giocato più su atmosfere, luci e ombre. Questo ha funzionato bene in alcuni momenti, come la prima scena in cui l’Egitto è rievocato da una grande porta trapezoidale inondata di luce che rompe la penombra; ma decisamente maluccio in altri, come quella sulla riva del Nilo in cui c’è la solita, didascalica separazione fra il piano alto dei nobili e quello basso dei poveretti sfigati; o nel solito ipogeo sotto il tempio del possente Ftà.
Ma al di là del dato estetico sulle scenografie, quello che va sottolineato è – analogamente agli allestimenti che lo hanno preceduto – la totale mancanza di un’idea registica che non sia quella privativa.
Tolgo l’Egitto: punto.
In compenso i cantanti sono abbandonati a se stessi e non sanno cosa fare, rifugiandosi nel solito campionario di manine sollevate o con l’indicepuntato, come nella (credo involontariamente) comica scena del giudizio. Quando sono invece istruiti, come sembrerebbe, entriamo nel grottesco; come quando Amneris, nel secondo atto, prende a calci Aida; o come quando la stessa figlia del Faraone chiude l’opera tagliandosi le vene sulla fatal pietra, togliendo quindi tutta l’ambiguità di un finale giocato su quel “pace t’imploro” che è conclusione fra le più geniali non solo di Verdi, ma di tutto il teatro d’opera.
La banalizzazione della materia è giocata non solo su Amneris, vale a dire uno dei personaggi più ambigui e sfuggenti creati da Verdi, qui svilita a livello di una qualunque squinzia di borgata; ma anche su altri momenti dell’opera come per esempio la Marcia Trionfale, in cui dietro al Re c’è l’orchestrina – anzi, la banda, si parva licet – in cui i musicanti hanno lo spartito sul letturino come in una qualunque manifestazione strapaesana.
Di esempi di questo genere se ne possono fare ancora a iosa.
Raramente ho visto una materia così svilita, non si capisce bene in nome di cosa.
Inaccettabile che nel 2015 si facciano dei tagli (le danze della Marcia Trionfale), alla Scala, in un’opera come l’Aida che dovrebbe starvi piantata come il Parsifal a Bayreuth.
Triste spettacolo, totalmente privo di idee tranne quelle che sviliscono o tradiscono il pensiero verdiano.
Ma, per brutta che fosse la parte visiva, è da quella musicale che sono arrivate le note (è il caso di dirlo) più sconfortanti.
Con un paio di eccezioni.
Anita Rachvelishvili ha mezzo dovizioso, centrato, potente, ben scandito, di splendido colore, proiettato molto meglio rispetto ai tempi della Carmen – sempre alla Scala – che l’aveva svelata al mondo. L’unico rischio è che adesso voglia fare il Mezzosoprano del Secolo, finendo così per cadere nel ridicolo o nell’involontario grottesco. Sarebbe un peccato perché è brava e la voce è splendida; gli unici applausi convinti della seratali ha portati a case lei
Zubin Mehta conosce benissimo questa partitura e l’ha diretta bene, con bei colori, con sonorità gradevoli, ambrate e non soverchianti.
Punto.
Il resto è sconfortante.
Anche a voler riconoscere a Massimiliano Pisapia (che, come precisato da Pereira prima dell’attacco dell’ouverture, non è parente del sindaco) tutte le attenuanti del caso, non si può non rilevare che semplicemente non abbia le note della parte. In basso la voce è afona, e infatti si è trovato in terribili difficoltà nel quarto atto. Il personaggio – con il cantante sempre in difficoltà con le note – è semplicemente inesistente.
Va ringraziato per aver salvato lo spettacolo.
Punto.
Disastroso il glorioso Matti Salminen, uno dei cantanti che ho maggiormente amato. Sabato scorso, come Re Marke a Zurigo, era berciante; come Ramfis è inascoltabile. È indescrivibile quello che fa nella scena del giudizio; ormai, nemmeno il carisma lo soccorre più.
Appena meglio George Gagnidze, che del suo personaggio coglie alla perfezione il coté burino e vi si attacca con lodevole pervicacia: in fondo, Amonasro sta a Rigoletto come un piatto di trippa a un filetto mignon con salsa al Roquefort, quindi why not?
La voce è emessa alla brava, e – per non saper né leggere né scrivere – anche lui si prende la briga di strapazzare fisicamente Aida, come già Amneris nell’atto precedente.
La quale Aida, è la bellissima Kristin Lewis. Nativa di Little Rock nell’Arkansas, è cantante di già discreto corso che ha costruito su Aida parte della propria fama.
Inizia maluccio, con un “Ritorna vincitor” in cui mostra alquanto la corda ma è un problema comune.
Si riprende con altri tre atti dignitosi, e nulla più. Veramente nulla.
Adesso, senza stare a scomodare le solite dive dei 78 giri, è un ruolo in cui abbiamo sentito – cito in ordine sparso – Montserrat Caballé, Martina Arroyo, Leontyne Price,Jessie Norman, tanto per citare le fuoriclasse. Al limite anche la Chiara.
Persino la Freni.
Mi voglio sprecare: la Ricciarelli.
Occorre carisma, credibilità, dare la sensazione di crederci. Stiamo parlando di uno dei ruoli più polisemici ideati da Verdi, uno di quelli in cui l’interprete deve saper creare la sensazione di sospensione.
Di tutto ciò, la splendida Kristin ci offre il sopranatante: una voce di bel timbro, qualche tentativo di filato, peraltro totalmente spoggiato, l’accorata mestizia e la rassegnazione a prenderle sempre e comunque.
La dizione, poi, è calamitosa: non si capisce una parola che sia una.
Sono disposto a credere che Kristin Lewis possa essere Aida; non ieri sera, però.
Degli altri: Colombara è efficace, non così il Messaggero e la Sacerdotessa che vivono con titubanza le rispettive parti.
Coro non sempre precisissimo.
Una nota di colore, infine.
Nessun fischio.
Che bello: bastava uno spettacolo così mediocre per fare contenti i contestatori duri e puri, improvvisamente zittiti come agnellini.
In fondo, forse aveva ragione Lissner: per mettere a posto i beceri, basta dar loro quello che cercano.
Che tristezza
Pietro Bagnoli