Lunedì, 07 Ottobre 2024

Backstage: Tristan a Zurigo - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 08 Febbraio, 2015

Richard Wagner
TRISTAN UND ISOLDE

Personaggi e interpreti:
Tristan STEPHEN GOULD
König Marke MATTI SALMINEN
Isolde NINA STEMME
Kurwenal JOHN LUNDGREN
Melot CHEYNE DAVIDSON
Brangäne MICHELLE BREEDT
Ein Hirt SPENCER LANG
Ein Steuermann IVAN THIRION
Ein junger Seemann MAURO PETER


Chor der Oper Zürich
(Chorus Master: Ernst Raffelsberger)

Philharmonia Zürich
JOHN FIORE

Luogo e data: Zürich, Opernhaus, 7-2-2015
Regia: CLAUS GUTH
Scene e costumi: Christian Schmidt
Luci: Jürgen Hoffmann
Coreografie: Volker Michl
Drammaturgia: Ronny Dietrich

Ieri sera c’è stata l’ultima recita di questa ripresa di uno spettacolo che, a Zurigo, aveva visto la luce nel 2008, con altri interpreti a parte Nina Stemme intorno a cui era stato modellato. Uno spettacolo meraviglioso, di un nitore formale incredibile e di un afflato visionario che lascia senza fiato, espressione delle potenzialità di un autentico genio della regia quale Guth effettivamente è, e che a distanza di molti anni è ancora in grado di esercitare un impatto straordinario sul pubblico che, prevedibilmente, risponde con un’ovazione da stadio.
Spettacolo dominato, prevedibilmente, da una Stemme in forma strepitosa, e in grado di esercitare una compenetrazione assoluta del suo personaggio, sin da un primo atto di cui è interprete pressoché perfetta; e dalla regia di Guth, cresciuta in questi anni – e con qualche interruzione – intorno a questa meravigliosa protagonista.
Ma spettacolo pervaso anche dalla presenza

soggiogante, commovente e per me imprevedibile di Stephen Gould che trova in questa sera e con questo personaggio la sua consacrazione di Grande Interprete Wagneriano.
E spettacolo guidato splendidamente da un direttore a me sinora sconosciuto, John Fiore, che racconta con agilità e senza fronzoli la vicenda di Tristano e Isolda, con l’istinto del vero narratore e con estremo buon senso nell’accompagnamento.

Spettacolo incredibile, dicevamo: una vera leggenda fra gli appassionati che se ne tramandavano le meraviglie. Trattavasi – e trattasi purtroppo tuttora – di sola tradizione orale, perché questo allestimento di straordinaria potenza visionaria non ha trovato, per ragioni misteriose, la strada della registrazione video.
È noto che il regista abbia scelto di ambientare la vicenda a Villa Wesendonck, l’abitazione di Zurigo (appunto!...) ove si era svolta la storia d’amore fra Wagner e Mathilde, moglie di Otto, suo benefattore.
La location, in realtà, sembra più un pretesto per dare una connotazione spazio-temporale a una vicenda di incomunicabilità, destinata a trovare la sua catarsi nell’annullamento, nella morte di un amore malato, paradigma di tutte le rappresentazioni umane (il riferimento, ovviamente, è a Schopenhauer). I protagonisti si inseguono attraverso i locali di una casa che sembra uno di quei labirinti di specchi di luna park, una casa fatta di stanze doppie e speculari, dove i protagonisti rivivono le loro angosce. In quest’ottica così particolare, viene mantenuto il simbolismo del viaggio del primo atto e del distacco di Isolda dalla propria patria, grazie al passaggio da uno spazio all’altro che permette la rievocazione di un passato mai confortante, sempre angosciante perché espressione della rappresentazione e, quindi, del regno del giorno, della luce. Esemplare, da questo punto di vista, la camera da letto scoperta da Tristan in posizione esattamente speculare a quella di Isolda, ma con l’unica differenza del letto macchiato di sangue, che riporta a Tristan il ricordo di quando Isolda l’aveva curato. Tristan, dopo aver bevuto il presunto filtro di morte, spegne l’abat-jour, simbolo della luce e quindi di quel mondo in cui l’amore non può esistere.
La struttura circolare ruotante del palcoscenico permette di accedere alla casa, luogo di ritrovo borghese, linda pulita e opprimente. Persino nell’ultimo atto, i muri scrostati dell’esterno in cui stanno Tristan e Kurwenal, portano in modo imprevedibile e opprimente all’interno della casa di Re Marke, ancora col tavolo apparecchiato lindo e pulito. È il tavolo da cui era stato “processato” da Marke e dai suoi accoliti; è il tavolo su cui moriranno prima lui, e poi Isolda.
La filosofia del “doppio” – un topos della poetica di Guth – trova anche in questo allestimento la propria sublimazione: Brangäne, per esempio, è il doppio di Isolda, e si veste come lei, o al suo contrario (in nero mentre Isolda è in bianco); lei è la metà pratica, quella del mondo civile e rispettosa delle convenzioni borghesi, mentre Isolda si rifugia nel regno del non detto e dell’inespresso, quello in cui può trovare Tristan. L’abito bianco da sposa continuamente presente in camera acquista perciò una valenza fortemente simbolica: quella dell’aggancio con il mondo della rappresentazione, quello sbagliato in cui non può sussistere la felicità.
Ma il momento verosimilmente più eccitante dell’allestimento è forse quello che si svolge nel grande duetto del secondo atto, in cui Tristan e Isolda si cercano disperatamente nella sala da pranzo in mezzo agli altri ospiti, inizialmente bloccati come in una sorta di fermo immagine, ma poi semoventi come marionette, a ricordarci la convenzionalità del dramma borghese che si sta delineando sotto i nostri occhi. È spiazzante vedere che i due amanti si scambiano le prime battute del loro duetto mentre brindano con gli altri ospiti, opponendo la propria finzione alle altrui convenzioni. Di

straordinario impatto visivo, poi, la seconda parte del duetto davanti alla porta della sala mentre una finestra immaginaria e aperta proietta sul muro l’ombra delle foglie mosse dal vento.
Questi sono solo alcuni spunti di riflessione per una delle più incredibili regie del teatro d’opera odierno. È una regia profondamente radicata più che nel teatro di Ibsen – spesso citato come riferimento inevitabile – nella filosofia di Schopenhauer di cui Wagner si era nutrito (come giustamente ricordato dal nostro amico Matteo Marazzi nella conferenza di introduzione) prima di arrivare ai grandi capolavori della maturità.
C’è felicità nell’amore, inganno supremo della rappresentazione umana?
C’è soprattutto spazio per l’amore, in questa vita?
La risposta non può essere altro che no; e mai come in questo allestimento ci era apparso così chiaro il legame fra il cromatismo wagneriano e il “wille” schopenhaueriano.

A una grande rappresentazione teatrale ha corrisposto una realizzazione musicale non meno che splendida, come accennavamo all’inizio.
Quella di Nina Stemme è una prestazione talmente paradigmatica da essere inquietante. È un ruolo che la cantante svedese conosce anche capovolto, e se ne propone come interprete di riferimento non solo dei nostri tempi. Oltre a tutto, si è presentata con una forma vocale spettacolare, che le ha permesso di rendere al meglio i tormenti e il furore della principessa irlandese. Emozionata ed emozionante nel lungo racconto del primo atto, arrogante e smarrita nel duetto del filtro, trepidante nell’introduzione del secondo atto, eccitante nel lunghissimo duetto, sino a uno dei più straordinari Liebestod che si siano mai sentiti: non c’è stato momento che sia stato sottovalutato o reso in modo meno che eccezionale da questa grandissima Artista.

La vera sorpresa della serata, però, è stato Stephen Gould, da cui non mi aspettavo granché dopo i tantissimi Siegfried di Bayreuth

del ciclo di Thielemann e Tankred Dorst; eppure è stato perfetto. Ha iniziato in sordina, con un primo atto giocato un po’ in risparmio. Il secondo atto è stato coinvolgente ed emozionante, grazie anche all’effetto di trascinamento della Stemme. Il terzo atto è stato grandioso! Intonazione perfetta, acuti pieni e timbrati, presenza soggiogante e dolente: tutto è stato splendidamente eseguito, come forse nessuno si aspettava.
Da questo particolare punto di vista è stato quindi il vero trionfatore della serata: e il pubblico gli ha infatti tributato un’ovazione quasi dello stesso livello di quella della Stemme.

Notevole anche il Kurwenal di John Lundgren, splendidamente cantato e benissimo interpretato; mentre ormai decisamente improponibile il glorioso Matti Salminen, che ha letteralmente abbaiato la parte di Marke, trasformando il già di per se stesso pesante monologo del secondo atto in una tortura, neppure mitigata dal noto carisma del grandissimo artista.
Bene gli altri, con una particolare menzione per il Melot di Cheyne Davidson.
Quanto a Michelle Breedt, ha cantato con gusto e commossa partecipazione, ma il suo volume vocale appariva esiguo a fronte di quello della Stemme.

La direzione di John Fiore è stata appropriata e di notevole buon senso. Il direttore americano si è distinto per senso della narrazione, ritmo, souplesse e capacità di accompagnare i cantanti attraverso questa immensa maratona vocale. Non sarà Haitink (che aveva tenuto a battesimo questo allestimento), ma conosce bene quello che dirige e non annoia mai: e questo è merito non da poco.
Alla fine, ovazione da stadio per tutti.
Strameritata.
Pietro Bagnoli

Categoria: Backstage

 

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