Backstage: Fidelio alla Scala - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 07 Dicembre, 2014
Questo non è un bel Fidelio.
Non lo è né sul fronte musicale, né su quello rappresentativo: in nessuno dei due casi le idee messe in campo sono interessanti o meritevoli di memoria non dico imperitura, ma anche banalmente provvisoria. Ad ogni modo, questo spettacolo appare come la degna chiusura di una stagione – quella di Lissner – che sul fronte organizzativo sembrava agli inizi promettere molto, ma molto di più di quanto abbia mantenuto.
Barenboim – sguardo truce e gesto sferzante – propone nell’ordine Inno Nazionale e ouverture Leonore II°, bellissima ma messa sull’impianto di un Fidelio per altri versi tradizionale.
I tempi sono tragicamente lenti, agonizzanti; i cantanti fanno moltissima fatica a starvi dietro e quindi non offrono prestazioni all’altezza delle impegnative richieste delle rispettive parti. Non c’è un colore che sia uno: si ascolta una marmellata uniforme, grigiastra, triste.
Le dinamiche e i volumi orchestrali, in compenso, sono assolutamente soverchianti e coprono tutti i cantanti che non hanno per conto proprio volume adeguato per sovrastare i marosi evocati da Barenboim.
Il canto viene abbandonato a se stesso; e, a parte Mattei e Vogt, nessuno sul palcoscenico ha mezzi propri per poter sopravvivere in un contesto così difficile.
Non la Kampe – peraltro festeggiatissima dal pubblico – che ha emissione Falcon con impostazione da declamatrice pura, e che quindi è quanto di meno adatto alla gestione di una parte acuta, impegnativa e di impianto fondamentalmente belcantista. Questo è purtroppo il solito equivoco in cui cadono (quasi) tutti coloro che allestiscono quest’opera: Fidelio è un’opera tedesca, di stampo para-romantico, quindi usiamo cantanti wagneriani. Questo andrebbe abbastanza bene se si disponesse di Birgit Nilsson, che li acuti li aveva svettanti e granitici; ma con la Kampe siamo su un altro pianeta. “Abscheulicher!” è tremendo: le mancano tragicamente gli acuti, i gravi, i fiati. Le
mancano i colori. Le manca la tenuta sulla frase, ma qui è colpa anche di Barenboim e dei suoi corni. In più, arriva veramente sfinita sul finale. È lo stesso problema che caratterizzava – per versi non molto dissimili – anche Kirsten Flagstad che urlava se possibile anche di più e che però, quanto meno, una specie di grandezza (al riascolto odierno, invero molto ridimensionabile) riusciva a ritagliarsela grazie all’intesa con un direttore di ben altro spessore come Furtwaengler.
Nonostante il notevole carisma personale riconosciutole dal pubblico (alla fine è un’ovazione) questo è un grossolano errore di attribuzione; quanto meno con questo direttore.
Continuo a pensare che – fatti salvi i limiti personali – gli unici che hanno capito veramente qualcosa di questo personaggio siano stati Blomsted, Harnoncourt e Gardiner, che hanno messo nelle rispettive registrazioni cantanti mozartiane, di quelle abituate a misurarsi con Elettra o Vitellia.
Non Mojica Erdmann – Marzelline di figura attraente ma di canto stridulo e di dubbia intonazione, oltre a essere quella con cui si è accanito maggiormente il direttore, con le sue terrificanti sciabolate sonore.
Non Falk Struckmann, che sbraita la propria parte in modo inverecondo, e che dimostra di non essere nemmeno più in possesso di quel carisma che ne caratterizzava le performances a Bayreuth come Wotan con Thielemann prima del ben altrimenti persuasivo Albert Dohmen.
Non Kwangchul Youn, Rocco corretto e di canto complessivamente gradevole, anche se molto lontano da quel ruolo di Fenomeno di cui gli appassionati vorrebbero fargli credito. Anche per lui, valgono le stesse considerazioni già espresse per Barenboim: manca totalmente di colori.
Canta bene, con gusto e si muove discretamente sul palcoscenico. Punto.
È probabile che sia il ruolo che non lo stimola più che tanto, ma l’impressione è quella di aver a che fare con un gran bravo cantante, non con un mostro. Oggi, dopo
tanta acqua passata sotto ai ponti, forse desideriamo qualcosa di più.
Oltre a tutto, mi sia concessa un’osservazione che condividevo con Matteo Marazzi: che senso ha Youn in una parte démi-caractère come come questa?...
Lievemente meglio lo Jaquino di Florian Hoffmann, perennemente imbronciato per esigenze registiche, ma vivace.
Decisamente meglio Klaus Florian Vogt, che va tanto in falsetto, ma svetta bene sopra l’orchestra e – soprattutto – capisce qualcosa della temperie stilistica del proprio personaggio, evitando di rifugiarsi nei wagnerismi di maniera. Continua a non essere il mio cantante ideale, se ci pensi ti vengono in mente almeno cinque interpreti che ti piacciono di più, ma alla fine riesce a dare una credibilità complessiva al proprio tormentato personaggio.
Infinitamente meglio Peter Mattei che, nelle poche frasi di Fernando, riesce a imporre la classe del cantante di rango superiore.
Il coro di Casoni, stavolta, non funziona al meglio.
Lo spettacolo di Deborah Warner è avvilente nel suo didascalismo di basso profilo.
Il solito palazzo opprimente che presenta muri scrostati e pericolanti di cui non è difficile prevedere la caduta (che, infatti – oh meraviglia! – accadrà alla fine).
La solita modernizzazione afinalistica, senza che ci sia dietro un disegno preciso.
Il cattivo è vestito di nero e alla fine viene ucciso con un colpo di pistola, mentre tutto il coro canta la propria felicità sul proscenio, sotto una placida nevicata di paillettes dorate, hai visto mai che qualcuno non abbia capito che il drammone è andato a finire bene…
La marcia del primo atto diventa l’accompagnamento di gente che gioca a palla (prigionieri? secondini?); se fossero i prigionieri, si perderebbe il significato del commovente coro successivo dei prigionieri stessi, che diventa assolutamente incongruente.
Jaquino è perennemente incazzato col mondo in genere e con Marzelline in particolare;
lo si capisce facilmente perché continua a rovesciare tutto quello che trova sul suo cammino. Alla fine, dai movimenti dei protagonisti, ho temuto che Marzelline si mettesse con lui, ma questo siparietto almeno ci è stato pietosamente risparmiato.
Non c’è un solo momento veramente memorabile.
Non c’è un’idea che sia una che caratterizza questo spettacolo di rara bruttezza e inutilità, degna epitome di uno dei momenti più bui e tristi del teatro milanese.
Mi sembra difficile pensare che Pereira possa fare peggio di così
Pietro Bagnoli