Backstage: Boheme a Torre del Lago - di Vittorio Mascherpa
Aggiunto il 29 Luglio, 2014
Torre del Lago Puccini, Gran Teatro all’aperto,
26 luglio 2014
Scene liriche in quattro quadri di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Personaggi e interpreti
Mimì: Daniela Dessì
Musetta: Alida Berti
Rodolfo: Fabio Armiliato
Marcello: Alessandro Luongo
Schaunard: Federico Longhi
Colline: Marco Spotti
Parpignol: Ugo Tarquini
Benoit / Alcindoro: Angelo Nardinocchi
Sergente dei doganieri: Marco Simonelli
Un doganiere: Jacopo Bianchini
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Maestro del coro: Stefano VIsconti
Coro delle voci bianche del Festival Puccini
Maestro del coro delle voci bianche: Sara Matteucci
Regia: Ettore Scola
Scene: Luciano Ricceri
Costumi: Cristina Da Rold
Disegno Luci: Valerio Alfieri
Assistenti alla regia: Carlo Negro, Luca Ramacciotti
Aiuto regista: Marco Scola Di Mambro
Assistente scenografo: Francesco Catone
Nuovo allestimento
Maestro concertatore e direttore: Valerio Galli
L’ispirazione musicale di Giacomo Puccini mi sembra avere seguito vie molto particolari. Da Monteverdi a Wagner, passando per Mozart, Rossini e gl’Italiani dell’Ottocento romantico, gli operisti precedenti erano stati, a mio parere, attratti e stimolati da idee universali individuate nei diversi personaggi del dramma, che in questo modo assumevano un carattere, per cosí dire, “archetipale”. Invece, il grande Lucchese è piú colpito da situazioni specifiche riscontrabili nell’esperienza comune dell’umanità: non “posizioni sceniche” propriamente dette, di carattere “eroico” in senso lato, ma vicende possibili nel quotidiano. L’operista maturo le trasfigura con una profonda maestria compositiva e timbrica che ha sempre stupito e deliziato gli analisti musicali, ma anche consegue, in
modo personalissimo, una grande immediatezza comunicativa, il proverbiale “parlare al cuore” che gli garantisce da oltre un secolo un ininterrotto e planetario successo di pubblico. Se i personaggi del suo primo capolavoro riconosciuto, ‘Manon Lescaut’, possono apparire a un critico finissimo quale Fedele d’Amico ancora un po’ a mezza via tra idealismo romantico e disincanto, i successivi, nelle opere da ‘Bohème’ a ‘Gianni Schicchi’, non sembrano ammettere piú alcuna caratterizzazione ideologica, ma si risolvono completamente nella propria individualità effimera e irripetibile, spesso amara. ‘Turandot’, intrapresa dopo una tragedia dell’umanità che non consentiva piú all’artista onesto alcun rifugio nell’individuale, rappresentò un tentativo estremo, tragicamente incompiuto nonostante il lungo tempo dedicato alla composizione, di tornare in modo nuovo al teatro “d’affetti” e d’idealità del “barocco”, del classicismo e del romanticismo: non a caso, il suo personaggio piú “popolare”, proprio perché meno innovativo, è quella Liú con la cui scomparsa scompare per sempre anche la capacità di sintesi drammaturgica del compositore.
Questo carattere del tutto specifico credo possa spiegare perché le applicazioni del dominante ‘Regietheater’ alle opere del “sor Giacomo” siano abbastanza rare, limitate in buona sostanza proprio alla ‘Turandot’ (dalla mia esperienza di pucciniano non accanito, ricordo per questo titolo gli spettacoli di David Pountney, della Doris Dörrie, d’Andréas Hòmoki). Diversamente da quanto accade oggi con Mozart, Wagner o Verdi, con Puccini lo spettatore si può sí trovare di fronte a trasposizioni d’ambiente o d’epoca, alla fin fine sempre abbastanza caute e innocue, ma la struttura relazionale e narrativa dell’opera rappresentata resta quasi sempre intatta e immediatamente riconoscibile. Mi sembra questione oziosa se questo sia un pregio o un limite: è una caratteristica che, nella grande maggioranza dei casi, rende poco attraente Puccini per i
‘Dramaturgen’ e tende a limitare la scelta di fondo del regista all’alternativa tra stilizzazione e realismo. La ‘grisette’ Mimí potrà essere presentata piú o meno intraprendente, Musetta piú o meno ‘professional’, ma la loro refrattarietà all’idealizzazione costringe i registi a non ricamarci sopra piú di quel tanto. Abbiamo visto «in cento» la trottolina del piccolo Dimitri in mano a Sciúischi mentre ne racconta, oppure una sbiadita copia delle torture d’Ivàn il Terribile mentre Barís ne minaccia di peggio per ricambiare il sullodato Sciúischi; «in mille» (e ormai quarant’anni fa!) la cavalcata delle Valchirie resa con nastri trasportatori e soprastanti quadrupedi barocchi stupendamente immobili; qualcuno ha anche visto, e non lo trovo poi senza costrutto, Luna che porge a Manrico vestito da torero un revolver perché faccia da solo, senz’attendere il «ceppo»; ma a me non è ancora successo di veder passare sul fondo del palcoscenico Musetta «in un coupé» o Mimí «in carrozza», con il cuore coperto di velluto o vestite «come una regina», mentre i loro amanti in disgrazia si tormentano amichevolmente con le rispettive corna. Forse il «gran pregio» della brevità di Puccini, forse la chiarezza dell’eloquio dimesso e comune che ne distingue per lunghi passi i libretti esonerano lo spettatore dall’assistere a comodi slittamenti nell’illustrativo in vece d’approfondimenti.
Con queste premesse, direi indubbiamente realistica, quasi didascalica la scelta del celebre regista cinematografico Ettore Scola, incaricato di coordinare la parte visiva dello spettacolo che sabato 26 luglio ha costituito, a parere di molti, la vera inaugurazione del sessantesimo Festival nel Gran Teatro all’Aperto di Torre del Lago. Le aggiunte e le omissioni del regista al “canovaccio” offerto dal libretto si sono limitate a ben poco: quella piú vistosa (e, a mio parere, di non grande senso) si nota nel quadro del Quartiere Latino e consiste nella presenza all’estremità sinistra del“boccascena” (le virgolette, trattandosi d’un teatro all’aperto, mi sembrano d’obbligo) d’un cavalletto da pittore e d’un figurante che, sorta di Manet da strada improbabilissimo per poetica, sta ritraendo alcuni personaggi nell’atto di fare colazione sull’erba… Opportunamente sottolineata l’intenzione anche da parte di Mimí di spegnere il lume; lasciato invece cadere, nel finale, il riparo alla fiamma che sventola. Molto ben caratterizzato, nella regia di Scola, il personaggio di Schaunard, come quegli che nel gruppo d’amici manifesta il maggiore senso pratico, la maggiore attenzione alla “presentabilità” sociale. Correttamente condotti nel secondo quadro, l’unico “d’insieme”, i movimenti di massa. Vana, sia chiaro, la speranza d’essere liberati dalle viete macchiette d’Alcindoro che crolla sulla sedia alla presentazione del conto “sommato” e dell’ubriaco che, in apertura del terzo quadro, esce barcollando dall’osteria in cui vivono Musetta e Marcello (ma qui ritorna subito dentro, trascinandovi la signorina uscita un attimo anche lei).
In uno spettacolo all’aperto l’impianto scenico deve essere innanzitutto di solida realizzazione (anche se a una regia adeguatamente “gestuale” potrebbero bastare spazio vuoto e luci). Lo scenografo Luciano Ricceri ha realizzato due elementi laterali fissi, raffiguranti in modo realistico l’ambiente urbano della Parigi popolare ottocentesca, tra i quali è collocata una struttura cilindrica girevole (manualmente e faticosamente, a causa proprio delle robustezza strutturale necessaria per resistere a probabili intemperie). Questo corpo centrale contiene, su tre settori visibili uno per volta, l’interno dell’abitazione dei bohémien, la facciata del Café Momus e l’edificio del dazio con la contigua osteria-locanda; irrilevante che la soffitta diventi necessariamente un piano terra con soppalco. Ambientazione del tutto tradizionale, quindi, della quale è però doveroso sottolineare l’elevata qualità decorativa. Analogovalore d’ottimo artigianato si può riscontrare nei costumi di Cristina Da Rold, che riproducono con intenzionale esattezza il vestiario popolare della seconda metà dell’Ottocento (il celebre quadro Le dejeuner sur l’herbe, che forse vuole “datare” l’ambientazione, fu dipinto da Manet negli anni 1862-63). Funzionali all’insieme le luci di Valerio Alfieri. Causa maltempo, la sera della “prima”, non è riuscito l’effetto della neve sparata dal tetto del dazio all’inizio del terzo quadro: mi si dice che alla prova generale avesse lasciato tutti a bocca aperta.
La maggior parte del pubblico ha dimostrato di gradire molto questa realizzazione scenica dell’opera amatissima. Chi invece non ha trovato aggiungesse alcunché a un’esecuzione in forma d’oratorio, s’è opportunamente limitato a non applaudire.
Dal punto di vista musicale tutto è andato “a puntino” ed è anzi stato possibile rilevare numerosi e interessanti elementi di novità. La concertazione e la direzione erano affidate al maestro viareggino Valerio Galli, ricco di solida esperienza internazionale nonostante la giovane età e gratificato lo scorso dicembre “per” la carriera con uno dei Premi Puccini distribuiti annualmente dal Festival. Galli ha preparato molto bene un’orchestra in ampia parte rinnovata, amalgamando, bene come di rado capita d’ascoltare, una compagnia di canto in cui, a fianco di due quasi “veterani”, numerosi sono gli elementi giovani, alcuni destinati a subentrare nelle ultime due repliche dello spettacolo. Flessibile e precisa come non la ricordavo, capace di sfumature e pianissimi non usuali in uno spettacolo all’aperto, sotto la bacchetta di Galli l’orchestra del Festival ha anche avuto ragione delle non facili condizioni acustiche dell’ambiente grazie a un accurato e paziente studio della disposizione in buca, che ha condotto a un rimarchevole equilibrio dell’insieme (sono risaltati troppo solo alcuni passi delle trombe, in sé correttissime, forse a causa dellapannellatura laterale del “boccascena”). Intensamente lirica, sempre drammatica senza cadute nel sentimentalismo e concessioni all’effetto, la direzione di Galli ha coinvolto l’ascoltatore dall’inizio alla fine, superando l’inconveniente della lunga interruzione dopo il primo quadro a causa d’un violento nubifragio: quasi un’ora e mezza d’attesa, e sappiamo tutti che guai avrebbe potuto combinare un simile “calo di tensione”! D’insolita bellezza la seconda parte dell’ultimo quadro, arcata di compianto in cui la struggente romanza del basso ha teso la mano alla celebre chiusa orchestrale, tanto piú efficace perché resa senza forzature dinamiche e con grande attenzione alla ricchezza timbrica. Non meno felice era stato l’inizio del terzo quadro, dove i suoni “soffocati dal gelo” avevano preparato straordinariamente bene la frase fuori scena di Musetta, qui disperata “fanciulla-fiore”.
Tra i cantanti, è un vero piacere dover cominciare con una Daniela Dessí in ottima forma vocale e perfettamente calata nel personaggio di Mimí, al quale ha saputo dare vera potenza tragica sin dalla romanza d’esordio grazie a una ricchezza timbrica straordinaria. Musetta è stata Alida Berti, presenza costante nel cartellone del Pucciniano: ottima l’intesa con Galli nel valzer, giustamente intriso di malinconia. Sempre elegante Fabio Armiliato; dopo un inizio molto buono ha saputo controllare con sicurezza la forte tensione della grande romanza di Rodolfo ed è stato ben presente e preciso negli ‘insieme’ del secondo quadro. Del tutto positiva la prova del baritono Alessandro Luongo, Marcello vocalmente correttissimo, mai sopra le righe ma capace d’accensioni appassionate. Come ho già accennato, lo Schaunard di Federico Longhi è risultato d’insolita pertinenza; Marco Spotti ha colto un cordiale applauso al termine di «Vecchia zimarra», tradizionalmente molto gradita al pubblico. Ugo Tarquini s’è ripreso con baldanza da uno scivolone sul palcoscenico fradicio dopo il nubifragio e haben cantato le frasi di Parpignol. Angelo Nardinocchi è stato un eccellente Benoit. Piú che corretti gl’interventi di Marco Simonelli e Jacopo Bianchini all’inizio del terzo quadro.
Stefano Visconti e Sara Matteucci hanno portato il coro e il coro delle voci bianche a intervenire con disinvoltura e senza mende nel secondo quadro.
Alla fine, applausi prolungati nonostante si fosse fatta l’una e venti del mattino, con punte d’entusiasmo per Daniela Dessí e Valerio Galli, che ha sempre simpaticamente mostrato di voler condividere il successo con i complessi da lui diretti
Vittorio Mascherma