Boheme
Aggiunto il 05 Febbraio, 2008
Pur prediligendo e ponendo nella mia graduatoria di preferenze personali al primo posto fra gli operisti italiani Puccini, devo confessare che La Boheme è un titolo che non mi ha mai entusiasmato. Trovo quest’opera piuttosto carente di veri effetti drammatici, o di passioni portate all’eccesso (al contrario di molti altri titoli pucciniani): è un’opera che parla di amore, di umanità, in certo senso, povera e frustrata e francamente i miei interessi vanno altrove. Parafrasando Scarpia “Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso”. Ecco in Puccini le mie preferenze vanno verso quel tipo di azione, molto meno verso La Boheme. Però questo disco ha tre motivi (i primi due collegati) per fregiarlo dell’eccezionalità: il particolare taglio interpretativo, la compagnia orchestrale e vocale e la resa acustica. Inizierei con il primo elemento: se guardiamo alla data (1942) e a quello che in Italia circolava nella discografia di Boheme con quest’edizione ci sembra di essere in un mondo completamente diverso. Sappiamo quanto zucchero e quanto miele certi interpreti degli anni ’40 e ’50 hanno versato in questa partitura. Bene: qui abbiamo un cammino completamente diverso. Si racconta una vicenda disperata ma anche dignitosa e riservata in quelli che sono i suoi contenuti senza che si corra il pericolo dell’inaridimento o della freddezza. I brani che ci vengono presentati sono 8 e scelti tutti intelligentemente: Ingresso di Mimì fino al Finale I, Scena di Musetta (a partire dalla frase di Rodolfo “Sappi per tuo governo….”) nel II fino al termine dell’atto, tutto il dialogo Marcello-Rodolfo, il successivo dialogo Mimì-Rodolfo e il Quartetto conclusivo del III atto, il “Mimì più tu non torni” di Rodolfo e il “Sono andati” e finale dell’opera con l’aggiunta di un bonus di quattro brani sempre tratti dalla stessa opera e incisi dalla Cebotari e da Anders 2 anni dopo sotto la direzione di Rother. Ma restiamo alla selezione più ampia. Dicevo del taglio interpretativo: severo, scarno, lo si potrebbe definire, ma anche esistenzialistico in cui l’orchestra e i cantanti parlano anche per silenzi e toni sommessi: il finale dell’opera perciò rifugge da ogni accento strappacuore e limita le battute di conversazione ad un tono colloquiale eppure spettrale che anticipa movenze e ritmi del teatro novecentesco. La morte è davvero entrata nella soffitta parigina e lascia tutti sgomenti e impotenti: di un’impotenza che è testimoniata dagli accenti dei cantanti e da un’orchestra geniale, ridotta al minimo perché lì è necessario. È chiaro che per un’operazione del genere ci vogliono artisti che sappiano il fatto loro e qui ci sono. P. Anders è uno splendido Rodolfo che sa alternare accenti vigorosi e tinte soavi all’occorrenza, ma anche un fraseggio semplice laddove occorre sottolineare il carattere quotidiano della vicenda. Basterebbe qui ascoltarsi il lungo duetto con Marcello in cui domina una nota di triste desolazione che ben si sposa con il timbro ed il tono consolatorio dell’ottimo Domgraf-Fassbaender che ci presenta un Marcello, amico cordiale, di voce morbida ed estesa (ciò si rende evidente anche nell’unisono lungo l’arioso “Mimì tu più non torni”). Molto bravi i due soprani: la Eipperle (che 9 anni dopo inciderà con Anders un superbo Lohengrin) ha voce giovanile, fresca, luminosa e compatta, mai lamentosa o zuccherosa nell’espressione ed artefice di una singolare trovata interpretativa fatta di un pianissimo molto espressivo alle parole che commentano il dono del manicotto (e che sono quelle conclusive di Mimì). A partire da qui si dipana tutta la concezione interpretativa di questo finale di Boheme: il migliore che io abbia mai sentito. Elemento decisivo alla bravura della Eipperle è il particolare affiatamento con Anders, il che significa molto tanto nel lato amoroso (I atto), quanto in quello più triste (III e IV atto) e ciò non soltanto a livello espressivo, ma anche a quello vocale in quanto entrambi cantano con un’abilità di fiati molto rimarchevole. H. Güden non è solo una splendida Musetta (e sappiamo che 9 anni dopo la inciderà con la Tebaldi), ma anche una ‘signora’ cantante ed interprete che sa essere frivola e misurata nel II atto, irridente nel III, partecipe e commossa al capezzale di Mimì (da notare la preghiera molto espressiva: ‘submissa voce’ direbbero i parametri liturgici). Il tutto realizzato con voce cristallina, sicura in alto capace di piani e pianissimi ed insomma grande cantante. Bene l’apporto di Fuchs nel finale II, mentre non compare la zimarra di Windisch per cui non se ne può avere un’idea precisa. Molto bene invece Florian quale Alcindoro, un signore composto senza inclinare al clownesco.
La resa acustica è ottima e giusto al termine tiro le conclusioni: è una selezione ed è in tedesco, ma viene voglia di dire (e lo faccio): “Meditate e imparate gente !” A buon intenditore e a chi resta ancorato a certa tradizione italiana …… venite e sentite !
Luca Di Girolamo