Backstage: Il trionfo del tempo e del disinganno, Berlino - di Vittorio Mascherpa
Aggiunto il 19 Giugno, 2014
Berlino – Staatsoper im SchillerTheater
7 giugno 2014
Georg Friedrich Händel
Il trionfo del tempo e del disinganno, oratorio in due parti (Roma, 1707)
Personaggi e interpreti
Bellezza: Sylvia Schwartz (soprano)
Piacere: Inga Kalna (soprano)
Tempo: Charles Workman (tenore)
Disinganno: Delphine Galou (contralto)
Les Musiciens du Louvre de Grenoble
Direttore: Sébastien Rouland
Realizzazione scenica del Opernhaus di Zurigo
Regista: Jürgen Flimm con Gudrun Hartmann
Scene: Erich Wonder
Costumi: Florence von Gerkan
Coreografia: Catharina Lühr
Luci: Martin Gebhardt e Sebastian Alphons
Drammaturgia: Ronny Dietrich e Detlef Giese
Il teatro, quello musicale in particolare, è arte ibrida le cui realizzazioni anche piú grandi devono molto alle circostanze della loro origine. E alle circostanze dell’esecuzione devono successi e cadute le opere del repertorio e del passato, spesso al di là dei meriti intrinseci e, talvolta, quasi in contrasto con essi. Nel 1703 Georg Friedrich Händel giunge diciottenne ad Amburgo, in quegli anni la prima piazza teatrale della Germania e ancora oggi una delle principali, assoldato come secondo violino del teatro; poi passa al cembalo, ruolo che maggiormente lo coinvolge nella conduzione drammatica degli spettacoli e in meno d’un anno e mezzo coglie l’occasione di musicare con eccellente esito d’incassi ‘Almira’, un libretto veneziano di soggetto spagnolo risalente a una dozzina d’anni prima e tradotto parzialmente in tedesco per l’impresario-compositore Reinhard Keiser, che però era dovuto fuggire per debiti… (“Riscoperta” una ventina d’anni fa, ‘Almira’ sarà rappresentata anche l’estate prossima a Innsbruck per le cure d’Alessandro De Marchi; spero venga mantenuto il bilinguismo dell’originale.) Pochi mesi dopo, il ritorno in teatro di Keiser ridimensiona la posizione di Händel, che a metà del 1706 decide
d’accettare l’invito del principe ereditario di Toscana e gran mecenate di musicisti, Ferdinando de’ Medici, e lo segue in Italia. L’ambizioso giovane salvaguarda molto bene la propria indipendenza e dopo un breve soggiorno a Firenze si trasferisce senza contrasti a Roma, dove colpisce tutti per la bravura d’organista e rapidamente adegua il proprio talento drammatico al divieto delle rappresentazioni operistiche che dopo il carnevale del 1677 vigeva nella città dei Papi, unitamente a quello, molto piú antico, del canto in pubblico per le donne. Sur un libretto ben tagliato e versificato del ricco e influente cardinale Benedetto Pamphilj, pronipote del pontefice Innocenzo X immortalato dal Velázquez, l’oratorio ‘Il trionfo del Tempo e del Disinganno’ è eseguito con successo la tarda primavera del 1707 nel Teatro del Collegio Clementino, un’istituzione dei Gesuiti protetta dal cardinale-librettista. Händel tenne in gran conto la musica composta per quest’occasione e ne riutilizzò una consistente parte nell’’Agrippina’ scritta due anni dopo per Venezia (ma anche un’aria del ‘Trionfo’ proveniva da una sarabanda strumentale dell’’Almira’ e sarà riutilizzata nel ‘Rinaldo’, la prima opera per Londra). Una trentina d’anni dopo, al culmine della fama e dopo averne già ripreso alcuni altri numeri in un paio di lavori, il compositore rielaborerà l’oratorio giovanile, mantenendo il testo italiano salvo sostituire il nome Disinganno con Verità ma adeguandolo al gusto inglese con l’inserimento del coro. Altri vent’anni dopo, ormai mezzo secolo dalla prima stesura, produrrà con l’aiuto d’un collaboratore una versione inglese dell’oratorio, con vari ricuperi a fianco d’una residua dozzina dei trentuno numeri originali.
In un intervento scritto per il programma di sala di Berlino e significativamente intitolato ‘Carpe diem’, il regista Jürgen Flimm racconta, riferendosi alla stagione 2002-03, che stava preparando per Zurigo ‘Alcina’, uno dei titoli piú celebri e frequentati
di Händel. Il direttore musicale designato, Nikolaus Harnoncourt, disdice per malattia; Marc Minkowski, a cui il teatro si rivolge per sostituirlo, non è disposto a dirigere ‘Alcina’ e propone un oratorio allora non molto noto, appunto il ‘Trionfo del Tempo e del Disinganno’, che la star vocale prevista per Alcina, Cecilia Bartoli, aveva già cantato con Harnoncourt (anche a Torino, nel 1998). Il “buco” che s’era creato nel cartellone richiedeva però uno spettacolo d’opera; Flimm pensa a una realizzazione scenica dell’oratorio e ha l’idea di tramutarlo nel racconto d’un “dopo teatro”, tipico momento d’eccitazione e dibattito, ma cedente con le ore a riflessioni talvolta malinconiche e sconfortate. Lo scenografo Erich Wonder lo ambienta in un ristorante notturno per il quale s’ispira con gusto sicurissimo e grande funzionalità d’impianto alla celebre brasserie «La Coupole», aperta nel 1927 a Parigi e curiosamente anticipatrice d’un certo stile tra il razionalista e l’alto borghese, che un Italiano come me tende a considerare caratteristico degli ultimi anni Trenta. La costumista Florence von Gerkan, giovane ma già collaudata collaboratrice di Flimm e Wonder in numerosi altri spettacoli, veste personaggi, comparse e danzatrici temperando un solido riferimento di base ancora agli anni Trenta con allusioni all’abbandono, per cosí dire “postmoderno”, d’un rigoroso formalismo dell’abbigliamento; gli esiti sono talvolta molto convincenti, tal’altra forzati. Lo spettacolo, a cui già allora avevano collaborato Gudrun Hartmann, Catharina Lühr e Martin Gebhardt, ebbe grande successo. Due anni fa lo spettacolo è entrato nel repertorio della Staatsoper Berlin, di cui Flimm è Intendant dal 2010, e ha avuto in questi giorni tre nuove rappresentazioni, a partire dalla serata di sabato 7 giugno. Presumo siano intervenuti a Berlino aggiustamenti nella regia poiché in locandina compaiono i nomi di due nuovi ‘Dramaturgen’ e i ringraziamenti di rito a Zurigo riguardano solo le scene e i
costumi. Ricordo che Calixto Bieito ha realizzato un’altra messinscena di quest’oratorio per lo Staatstheater di Stoccarda, che è stata presentata anche alla Fenice pochi mesi fa.
La platinata e vagamente accidiosa Bellezza è contesa tra le lusinghe sottilmente androgine (e forse troppo poco eleganti) di Piacere, la sottile e minacciosa mondanità di Tempo (che a tratti non disdegna d’illudere e ingannare altre beltà presenti) e la maggiore severità di Disinganno (il personaggio a mio parere meno caratterizzato visivamente, forse a causa dei costumi). Verso la fine dello spettacolo, accompagnato da un progressivo rarefarsi delle altre presenze sceniche tranne quelle fin troppo realistiche dei camerieri impegnati nella chiusura triste del locale dopo avere volteggiato onnipresenti al momento del maggiore affollamento, l’inclinazione riflessiva prevale in Bellezza, che lascia calare su di sé le ombre del Tempo e del Disinganno, invoca l’oblio di Piacere e canta la mirabile aria «Tu del Ciel ministro eletto», ultima sua e dell’oratorio, travestita in un saio monacale e giacendo come per una professione di voti. Tutta la contesa, quasi una novella “rappresentazione d’anima e corpo” realizzata non piú all’apice della controriforma ma sul declinare dell’età barocca, s’era svolta sullo sfondo d’una vicenda parallela d’ospiti piú o meno coesi e appagati, d’interventi coreografici danzanti (pin-up sul lungo e sinuoso bancone del bar), di trovate sceniche (una sussiegosa coppia d’affiatati signori che per due volte si fa infilare i cappotti dai camerieri come “atto dovuto”; marinai molto educati che entrano ed escono; l’organo positivo trasportato sulla scena come strumento obbligato per un’aria e sonato in abiti settecenteschi insieme al violino del Konzertmeister; una vistosa autocombustione dell’alcolizzato-manichino). Tutto questo si costituisce come un’autentica e quasi continua manifestazione di virtuosismo registico.
La durata dell’oratorio è di quasi due
ore e mezza, con una leggera prevalenza della seconda parte. Senza dubbio lo spettacolo di Flimm è all’inizio molto accattivante, ma col tempo l’interesse visivo m’è apparso decisamente piú debole di quello musicale: non si possono non cogliere ripetizioni del già visto e cadute nel gratúito, che finiscono per sfuocare il baricentro della rappresentazione. Piú volte, durante lo spettacolo mi sono chiesto se, al di là dell’occasione abilmente colta e sfruttata nel 2003 e dell’oggettivo interesse della ripresa, quel che vedevo aggiungesse effettivo valore alla musica di Händel, già ricchissima in sé d’espressione drammatica.
Sabato 7 la musica ha goduto d’un’esecuzione d’alto livello. Assente per motivi di salute il previsto direttore Minkowski, che dopo gli spettacoli zurighesi aveva diretto anche la ripresa del gennaio 2012 alla Staatsoper, il suo noto ed eccellente complesso Les musiciens du Louvre Grenoble ha reso comunque piena ragione della variegatissima mobilità timbrica che il giovane Händel sa trarre dal ridotto organico a sua disposizione (o da lui adottato): solo oboi e flauti dritti oltre ad archi, organo e clavicembalo. Sébastien Rouland, musicista di sicurissimo curriculum, aveva già diretto e ripreso la realizzazione scenica di Stoccarda; la sua scelta s’è rivelata a mio parere molto felice, forse proprio per la sua indipendenza professionale e d’interprete: al gusto piú pomposo di Minkowski, alla sua predilezione per sonorità direi molto “campíte”, Rouland m’è sembrato preferire una discorsività piú lirica e confidente, lasciando alla partitura di questo Händel tutto il suo carattere d’immediatezza italiana, già appresa a Halle dall’insegnamento accurato e critico di Friedrich Wilhelm Zachow e velocemente approfondita nei primi mesi del soggiorno romano grazie a una capacità d’assimilazione che trova pochi paragoni nella storia della musica.
Inutile stabilire una graduatoria di merito tra i quattro interpreti vocali, gli stessi di dueanni e mezzo fa e tutti sempre in possesso d’una precisione d’intonazione e di ritmo indubbiamente insolite. Il soprano protagonista Sylvia Schwartz (anglo-spagnolo nonostante il nome), paga l’ingrato compito d’aprire lo spettacolo con una certa rigidità iniziale del timbro, ma nel proseguo della lunga parte, che comprende ben sette arie di cui l’ultima preceduta da un ampio ed espressivo ‘accompagnato’, un arioso con intervento di Disinganno e un altro ‘accompagnato’ che segue la sua penultima aria, l’argento della sua voce si colora e arricchisce; si staglia netto nei tre pezzi d’assieme in cui è impegnata (il duetto con Piacere e i due quartetti) e, complice Händel, conclude la serata come meglio non si potrebbe. All’altro soprano, la lituana Inga Kalna, spetterà il maggior plauso del pubblico; il suo timbro soffuso di chiaroscuri ne rende immediatamente distinguibili gl’interventi (sette le arie solistiche, tra le quali la piú conosciuta, «Lascia la spina», poi diventata «Lascia ch’io pianga» nel ‘Rinaldo’), anche indipendentemente dall’andamento melodico, piú mosso rispetto a quello talvolta quasi svagato di Bellezza; ideale, quindi, anche la differenza tra i due soprani nei già ricordati pezzi che li vedono collaborare. Delphine Galou ha cantato le cinque arie di Disinganno, il duetto con Tempo e le sue parti nei due quartetti e nell’arioso con Bellezza avvalendosi d’una ricchissima gamma di chiaroscuri; se per “bel canto” intendiamo in primo luogo la capacità di variare il timbro dell’emissione per ottenere il massimo dell’espressività, il contralto francese può esserne considerato felicemente padrone. La parte di Tempo comprende solo quattro arie, ma i suoi interventi nei recitativi sono molto estesi e determinanti: il celebre tenore statunitense Charles Workman, “veterano” della compagnia, m’è apparso in eccellenti condizioni di voce. La sua grande esperienza scenica, il gusto e la fantasia drammatica dimostrati nei ‘da capo’ ne hanno fatto il filo rossodell’intera rappresentazione: una presenza inesorabile sotto una maschera sorridente e quasi sorniona.
Tale è stata la maestria musicale degl’interpreti che anche alla fine, uscendo dal teatro, mi sono nuovamente chiesto, e ancora mi chiedo, se il contrasto drammatico d’idee e “affetti” costruito da Händel, culminante nel grande quartetto della seconda parte e nella conclusione dominata da una Bellezza mutata d’animo, non sarebbe risaltato ancor meglio senza l’ibridazione scenica non prevista dagli Autori, che ha finito per sembrarmi pleonastica. Questo è il mio dubbio e ho desiderato esporlo, ma non intendo indurre nessuno a condividerlo.
Vittorio Mascherpa