Sabato, 27 Luglio 2024

Editoriale: I Meistersinger a Bayreuth e la questione della cornice

Aggiunto il 30 Luglio, 2008

Conductor: SEBASTIAN WEIGLE
Production: KATHARINA WAGNER
Stage Design: TILO STEFFENS
Costumes: MICHAELA BART / TILO STEFFENS
Dramaturgy: ROBERT SOLLICH
Chorus Director: EBERHARD FRIEDRICH

 Hans Sachs: FRANZ HAWLATA
 Veit Pogner: ARTUR KORN
 Kunz Vogelgesang: CHARLES REID
 Konrad Nachtigall: RAINER ZAUN
 Sixtus Beckmesser: MICHAEL VOLLE
 Fritz Kothner: MARKUS EICHE
 Balthasar Zorn: EDWARD RANDALL
 Ulrich Eisslinger: HANS-JÜRGEN LAZAR
 Augustin Moser: STEFAN HEIBACH
 Hermann Ortel: MARTIN SNELL
 Hans Schwarz: ANDREAS MACCO
 Hans Foltz: DIOGENES RANDES
 Walther von Stolzing: KLAUS FLORIAN VOGT
 David: NORBERT ERNST
 Eva: MICHAELA KAUNE
 Magdalene: CAROLA GUBER
 Ein Nachtwächter: FRIEDEMANN RÖHLIG

In fondo, verrebbe da dire al termine di questo allestimento dei Meistersinger, l’Arte è solo una questione di cornici. È un aspetto che abbiamo dibattuto a lungo Matteo Marazzi e io di fronte ad uno splendido filetto di Angus al ristorante del nostro albergo, ancora imprevedibilmente commossi dopo aver assistito al complesso allestimento di Katharina Wagner, peraltro abbondantemente fischiato da quella solita parte di pubblico ancora affezionata ai vecchi stili esecutivi e che fa parte dell’arredamento della Festspielhaus (ma non solo, verrebbe da dire).
Perché l’idea della cornice? Perché è l’asse intorno a cui gira la vicenda umana del giovane Walther, artista dotato di talento istintivo, ma scapestrato e totalmente privo di una logica che ne indirizzi la creatività. Il che, conveniamone, ha una sua logica ben precisa perché è il concetto che sta alla base della vicenda dei Meistersinger.
Walther, nel primo atto, vestito in modomolto grunge presenta agli allibiti e scandalizzati Maestri alcune sue produzioni in forma di poster senza cornice e perde la propria battaglia. Per lui la cornice è un concetto totalmente privo di senso: la prova per diventare Maestro è, in modo molto originale, la composizione di un puzzle raffigurante la vecchia Norimberga proprio dentro una cornice, e lui lo monta all'incontrario mentre Beckmesser fa tutto giusto in pochissimo tempo!...
Lo stesso Walther, nel terzo atto, ripulito e leccatino, in smoking, presenta agli spettatori della Fiera di San Giovanni il proprio Preislied mentre una gigantesca cornice – copia più grande di quella che lui stesso aveva creato poco prima a casa di Hans Sachs – cala su di lui e su un improvvisato teatrino in cui una coppia di teatranti dozzinali recita uno spettacolo qualunque. Il pubblico stavolta lo accetta e gli dà anche il premio del festival sotto forma di uno di quegli assegnoni giganteschi che anche il nostrano Jerry Scotti attribuisce ai vincitori dei suoi quiz, con tanto di vallette in paillettes!
Dall’altra parte della barricata ci sta il buon vecchio Beckmesser che fa il percorso inverso: atticciato, paludato e serioso nel primo atto vince facilmente sullo svaporato rivale; nel terzo atto, dopo la batosta davanti alla bottega di Sachs, perde tutti i freni inibitori e, perso per perso, fa l’artista provocatore gettando schifezze addosso al pubblico inorridito, che gliela fa pagare cara. Ha perso la sua cornice, ma ha guadagnato la sua libertà di vero Artista e se ne va facendo uno sberleffo a Sachs che tronfio, impettito e in grisaglia, illuminato dal basso verso l’alto in uno scenario che riporta alla memoria i discorsi di Goebbels, fa la sua perorazione finale a difesa della Sacra Arte Tedesca.

Ma fra i protagonisti di questa kermesse, a chi va la simpatia della regista? Il quesito rimane irrisolto, anche perché nessuno può stabilire aprioristicamente il destino dell’interpretazione;destino di cui questa regia è una profonda riflessione.
Nemmeno seguendo il percorso di Hans Sachs ci chiariamo le idee. Sachs arriva alla riunione dei Maestri in modo molto informale, vestito di nero “impegnato” e a piedi nudi. Non è difficile vedere in lui uno di quei Maestri dell’Esistenzialismo degli Anni Sessanta. Si siede, accende una sigaretta e rifiuta di mettere la toga che tutti gli altri indossano. Fumerà per tutta l’opera sino a che non indosserà la grisaglia; a quel punto diventerà serissimo e si calerà completamente nel suo ruolo di educatore (o di Ministro della Propaganda?…) perdendo drasticamente tutti quei punti che aveva accumulato nella simpatia del pubblico.
È sempre antipatico fare classificazioni ideologiche, ma sin dal primo atto c’è una certa distinzione manichea fra tutto ciò che è bello, simpatico e intelligente, e cioè Walther e Sachs, simboli di quella Sinistra sessantottina della “fantasia al potere”, fuori da ogni regola; e tutto ciò che è odioso, rappresentato dai Maestri grigi e impenetrabili, chiaramente di Destra. Ma coll’avanzare dell’opera, nel secondo atto questi ruoli iniziano a confondersi: Sachs continua a fumare una sigaretta dietro l’altra, ma è costretto a rimarcare gli errori altrui lavorando pedissequamente a una macchina da scrivere vecchio stile; Walther continua a fare “paint art”, ma in modo più delicato, meno aggressivo, anche perché stavolta l’oggetto della propria arte è il corpo di Eva; non più gli schizzi afinalistici di colore lanciate con pennellate, ma body art, in un primo tentativo di dare forma e inquadrare le proprie pulsioni. Nel terzo atto non c’è più anarchia, anche perché compaiono le cornici: quella che Walther ritaglia da una tela bianca e che, opportunamente ingrandita, lo circonderà nel Preislied; e quella che Sachs fa discendere nel Quintetto a circondare le coppie Eva-Walther (con nonno Pogner con un sorriso ebete) e Magdalene-David con i rispettivi futuri figli, in una sorta diduplice stucchevole quadretto di famiglia.
Ma la bionda Katharina ne ha per tutti, e questo forse è l’unico vero limite di una regia che lascia presagire i germi di una genialità che la famiglia Wagner riesce fortunatamente a trasmettere attraverso le generazioni: il limite, cioè, di voler dire troppe cose, finendo così per disperdere l’attenzione dello spettatore su troppi dettagli e perdendo di credibilità.
Qualche esempio, fra quelli che seguono, potranno chiarire il concetto.
Nella scenografia del secondo atto c’è la scultura di una manona levata che sembrerebbe indicare una direzione; la manona si abbatterà progressivamente diventando il piedistallo su cui Walther porrà la sua beneamata facendola oggetto di body art.
Nel passaggio fra la scena nella casa di Sachs e la festa sulla Pegnitz, fanno la loro comparsa i gloriosi Autori della Grande Tradizione Germanica (fra cui lo stesso Wagner), con i grossi testoni caricaturali di cartapesta delle sfilate di Carnevale; se ne andranno alla chetichella dopo che lo stesso Sachs avrà presieduto al “rogo degli interpreti” (regista, scenografo e direttore d’orchestra; è un’altra metafora che richiama i roghi iconoclasti dei nazisti) ricavandone il “Cervo d’oro” (a quanto è dato capire, una sorta di “Telegatto” tedesco; non tutti i simboli messi in campo sono di facile comprensione per uno spettatore non tedesco).
Nella perorazione finale sulla Pegnitz il pubblico, con un autentico coup de teathre, si toglie gli abiti casual con cui aveva assistito all’esibizione provocatoria di Beckmesser rimanendo istantaneamente in abito lungo da sera stile Anni Trenta, mentre Sachs si mette in posa impettito illuminato in modo inquietante dal basso e ai suoi fianchi sorgono due statue dorate.
È questa la Sacra Arte Tedesca?
Forse sì, forse no.
Beckmesser, per parte sua, gira disgustato intorno a questa versione di Sachs stile Ministro della Propaganda e se ne va. Il pubblicotedesco – quello vero, quello della platea del Festival – reagisce buando violentemente la bionda Katharina; e anche questo fa molto Bayreuth.

Cosa ci rimane di uno spettacolo del genere?
Molto, tutto sommato.
Un’analisi profonda ed intensa del ruolo dell’interpretazione nel processo creativo. Questo fatto non può non far riflettere, e non solo gli appassionati wagneriani. Questa considerazione tocca molto da vicino anche chi come noi ritiene che non si possa oggettivamente continuare a rimpiangere in modo veramente infantile una sorta di età aurea dell’interpretazione che non esiste se non nella mente di chi la vagheggia (o vaneggia?...). L’interpretazione non è il coperchio per tutte le pentole o, se vogliamo, la coperta corta con cui si cerca di occultare tutte le magagne vocali: prova ne sia il fatto che, nello spettacolo cui abbiamo assistito, c’era un cast perfettibile come tutti i cast, ma completamente convincente e del tutto paragonabile come qualità a tanti altri di cinquant’anni fa, con alcune punte di eccellenza assoluta (Michael Volle su tutti). L’interpretazione è un plusvalore indispensabile che nasce da una più completa maturità dell’artista musicale (cantante o direttore che sia) e che lavora in stretta sinergia con coloro (regista, scenografo, light engineer, costumista, drammaturgo) che allestiscono lo spettacolo, a loro volta consapevoli di quello che la musica sta raccontando. Da questo punto di vista, questo spettacolo è esemplare almeno quanto lo furono – giusto per citare gli spettacoli di questo Festival ne corso degli anni – gli allestimenti del Ring di Wieland, Boulez/Chèreau/Peduzzi e di Kupfer, il Tannhauser dello stesso Wieland e Bèjart, l’Olandese ancora di Kupfer, il Tristan sempre di Wieland e di Heiner Muller. E se un Festival nell’arco degli ultimi cinquant’anni è stato in grado di rinnovare se stesso in modo così profondo, rinunciando ogni volta a fermarsi sugli allori di tutto ciò che avevaguadagnato, vuol dire che pulsa di una vivacità intellettuale che merita di essere propagata nel tempo.

Non vorrei essermi dilungato in modo forse eccessivo nella descrizione di uno spettacolo che meriterebbe ulteriori considerazioni data la sua complessità, dando così forse l’impressione di aver trascurato l’aspetto musicale; ma oggi più che mai, in questa che dovremmo definire una vera e propria età d’oro per l’interpretazione dell’opera, questo è un portato inevitabile.
Eppure l’opera la fanno i cantanti, direbbero gli insonni orfani dei Buoni Vecchi Tempi che Furono.
La buona notizia è che i cantanti ci sono, eccome.
Trionfatore della serata è Michael Volle, interprete di Beckmesser: a lui il pubblico ha tributato una vera e propria ovazione. Vocalmente sicurissimo in tutta l’ampia gamma della propria difficilissima parte, è riuscito ad essere ricco di personalità e humour nell’ambito di tutto l’arco narrativo. Come sottolineava in altra sezione del nostro sito Matteo Marazzi, conosce alla perfezione il segreto del vero declamato wagneriano con tutti i tempi e soprattutto i colori che ne costituiscono l’essenza più pura. Non c’è un inciso, una frase o un gesto che venga sprecato nell’economia di una resa – vocale e attorale – che non è meno che straordinario. A tutt’oggi è non solo la migliore personificazione possibile di Beckmesser, ma anche uno dei cantanti più interessanti della nostra generazione, uno di quelli che ci autorizza a ribadire che stiamo vivendo un periodo eccezionale nell’interpretazione dell’opera.
Un gradino al di sotto – questione di sfumature, tuttavia – ci sta Franz Hawlata, Hans Sachs, che appartiene alla categoria oggidì sempre più imperante dei bassi che si appropriano di questa parte che propriamente da basso non sarebbe, essendo piuttosto acuta. Anche mostra or quinci e or quindi la fibra, soprattutto nel terzo atto, pur senza far sentire nulla di veramente disdicevole. In compenso la provaè ricca di autorità e, in linea con il taglio proposto dalla regista, molto interessante col proporre un protagonista molto più coinvolto dal gioco delle parti di quanto non appaia in altre edizioni. Questo Sachs, giovanile, intellettuale, ancora nel pieno della propria maturità, ambirebbe chiaramente a candidarsi al cuore di Eva con molta maggiore credibilità di quanto non abbiano fatto vedere interpreti non meno blasonati. I monologhi sono molto ben cantati (più quello della Follia che non quello del Lillà), ma forse sarebbe desiderabile un canto più sfumato e vario.
Eccellente sotto ogni punto di vista è Klaus Florian Vogt, una delle realtà dei ruoli tenorili “biondi” del canto wagneriano, avendo già interpretato anche ruoli come Lohengrin. Voce chiara, limpida, estesa, dal registro acuto franco e luminoso. La figura è spigliata; fisicamente ricorda molto Hofmann, ma vocalmente è molto più interessante. Anch’egli aderisce completamente all’idea registica ed è assolutamente bravo e credibile nel far vedere l’evoluzione del proprio personaggio. Il Preislied è cantato con commossa partecipazione emotiva sin dalla fase di studio nella casa di Sachs, riuscendo a rendere con sufficiente credibilità l’evoluzione da “abbozzo” a “carme compiuto”.
Mi è piaciuta discretamente – pur senza apparirmi eccezionale – la Evchen di Michaela Kaune, che è risultata ben calibrata vocalmente, ma percettibilmente in difficoltà nei passaggi più acuti. Fra gli interpreti in campo è anche quella complessivamente più ingessata, ma dipende anche dall’impostazione registica che la vede come “soggetto” di una disputa artistica.
Interessante anche Norbert Ernst nella difficile parte di David, dominata con sicurezza e bel piglio, mentre la Magdalene della Guber gioca più in difesa.
I Maestri, coinvolti in una complessa operazione registica, presentano un livello variabile ma complessivamente buono.
Eccellente il coro – messo alla frusta in quest’opera cosìdifficile – splendidamente diretto da Eberhard Friedrich, cui il pubblico decreta una vera e propria ovazione.
L’orchestra – sulla cui idiomaticità in questo repertorio appare superfluo spendere parole – ha fornito una prova eccellente sotto la bacchetta di un (al termine) provatissimo Sebastian Weigle, apparso al pubblico con indosso una specie di tunica indiana. Nato a Berlino nel 1961, dal 2004 è direttore musicale del Liceu di Barcellona, ma ha diretto anche a Cincinnati, Dresda, New York, Mannheim, Vienna, Francoforte, Sidney e Granada. Il suo sound inizialmente fa fatica a conquistare l’ascoltatore, ma progressivamente riesce a coinvolgere ed emozionare grazie anche a scelte logiche che non stremano i cantanti e ad una narrazione fluente che richiama il miglior Barenboim.
La locandina (una fotocopia venduta al costo esorbitante di 1 Euro!) annuncia la registrazione dello spettacolo in un DVD che verrà probabilmente commercializzato nel Novembre 2008: ed è giusto fissare su disco uno spettacolo così importante

Categoria: Editoriale

 

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