Nachtviolen di Christian Gerhaher
Aggiunto il 01 Novembre, 2014
Devo all’amico Maugham la scoperta di questo meraviglioso cantante. Nato in Baviera nel 1969, ha frequentato la Scuola d’Opera dell’Accademia Musicale di Monaco studiando nel contempo interpretazione del Lied con Friedemann Berger. Parallelamente agli studi di Medicina (!) ha approfondito le tematiche di interpretazione con Elisabeth Schwarzkopf, Paul Kuen, Dietrich Fischer-Dieskau e Inge Borkh.
È anche fondamentalmente un cantante d’opera, ma non è questo aspetto che ci interessa, perché questo che stiamo esaminando è appunto un disco di Lieder, un genere che in Italia è ancora visto come materiale per concerti che fanno fine e non impegnano, scappatoia per cantanti che hanno paura di affrontare le arie di Rigoletto e del Conte di Luna, perché Verdi pianse e amò per tutti mentre questa roba va bene per i tedeschi. Ricordo una battuta che circola – se non è vera, è ben trovata – che nel corso di un recital liederistico uno dal pubblico di non so quale teatro nazional-popolare urla: “El duètt de la barèla!”, come per dire basta con queste monate, tiriamo fuori l’opera, quella vera.
Non manchiamo mai di segnalarci per la nostra cultura e voglia di imparare cose nuove…
Non è questa la sede per trattare una storia dell’interpretazione del Lied che, come noto, nato nell’età carolingia, ha trovato in epoca romantica la massima espressione possibile.
Numerosi cantanti di estrazione operistica vi si sono applicati, con esiti alterni dovuti alla fondamentale differenza con l’espressione tipicamente teatrale. Il Lied è stato quindi affrontato più o meno da moltissimi dei grandi di area tedesca (Hotter, Anders, Husch, Schwarzkopf, Schreier, Wunderlich e tanti altri), britannica (sir Peter Pears, che ha inciso una fondamentale Winterreise con Benjamin Britten, Sarah Walker, Barry McDaniel), francese (Gérard Souzay), canadese (Vickers) e altri ancora.
Inevitabilmente, lo spartiacque di questo meraviglioso repertorio è Dietrich Fischer-Dieskau che, oltre ad aver registrato numerose volte i grandi cicli (per lo più in associazione con Gerald Moore), ha lasciato qualcosa di simile a un’integrale di Schubert. Il merito principale è stato di svecchiare l’interpretazione per lo più operisticamente emotiva di questi brani meravigliosi, spesso vissuti in modo eccessivamente “chantant” (absit iniuria verbis), giocando tantissimo sulla morcellizzazione della frase musicale, sulla sua sublimazione, sulla sottolineatura di tutti i segni espressivi.
Questa fu ovviamente una rivoluzione stilistica non gradita da tutti, ma nondimeno una nuova strada che apriva una prospettiva nuova su un dato che nel Lied è fondamentale: il testo, in tutte le sue sfumature e le sue compenetrazioni con la musica.
Il limite fu – nella grandezza complessiva dell’insieme (un insieme stratosferico, grazie anche all’ampiezza del repertorio affrontato) – un’emissione talvolta impettita, un filo didascalica, rigorosamente fissa sui segni espressivi del pentagramma, che non sempre giovava alla resa della bellezza intrinseca del testo spesso enunciato senza una vera riflessione su di esso.
Matthias Goerne, Thomas Quasthoff, Thomas Hampson, Ian Bostridge, Dame Margaret Price, Alice Coote, Christine Schäfer e tanti altri, in varia misura, discendono dalla scuola di Fischer-Dieskau cui hanno aggiunto, ognuno per conto proprio, elementi di un crescente espressionismo apparentato col colorismo della cui tradizione il baritono tedesco era stato l’erede anche in campo operistico. Parallelamente è però cresciuta una riflessione sempre maggiore sul testo; ed è questa riflessione che ha portato a Gerhaher e Huber.
Meriterebbe un discorso a parte l’altro grande “polo liederistico”, e cioè Jonas Kaufmann che sta facendo del liederismo un percorso parallelo, anch’egli con un pianista stratosferico come Helmut Deutsch, ricavando da questo grande repertorio romantico indicazioni espressive che applica anche alle sue interpretazioni operistiche: si pensi a “In fernem land” affrontato con la stessa espressività con cui racconta il Winterreise o il Dichterliebe, in questo apparentato a un altro grandissimo tenore wagneriano che gli assomiglia particolarmente per eloquio, come Jon Vickers.
Esattamente come per Fischer-Dieskau e come per Kaufmann, appare fondamentale la collaborazione con il pianista che assume pari dignità interpretativa: qui – come sempre con Gerhaher – è il trascendentale Gerold Huber, capace di evocare atmosfere mesmerizzanti.
Non è il primo disco che la coppia Gerhaher-Huber registra di questo repertorio.
Avevano già affrontato i grandi cicli di Schumann e Schubert, oltre a altre registrazioni antologiche, una delle quali – “Abendbilder”, del 2006 – aveva vinto svariati premi discografici.
Ma questo disco direi che ne consacra definitivamente non tanto il talento, perché quello era già chiaro anche dalle registrazioni precedenti, quanto la visibilità anche in un luogo come l’Italia dove, come dicevamo all’inizio, i Lieder sono considerati come roba da concerti per cantanti poco talentuosi.
In questo disco meraviglioso, che negli ultimi giorni non mi sono stancato di ascoltare e riascoltare più volte, c’è una carrellata di brani selezionati con sapienza dall’immenso catalogo di Schubert.
Tutti i brani sono perfettamente bilanciati nel dosaggio delle emozioni da parte di questi due grandissimi comunicatori.
Si comincia dal meraviglioso “An den Mond in einer Herbstnacht” di cui Gerhaher fornisce la versione di gran lunga più emozionante che si sia mai sentita, grazie anche a una scelta di tempo estremamente narrativa.
Eccezionale “Abschied” su testo – meraviglioso – di Johann Mayrhofer, cui Gerhaher presta un filo di voce timbratissima su un fiato appena alitato.
Meraviglioso anche “Herbst”, su testo di Ludwig Rellstab: qui compare lo sturm und drang di cui entrambi gli interpreti sono capaci.
E così via, compreso ovviamente il brano – meraviglioso, su testo ancora di Mayrhofer – che dà il titolo alla raccolta, sino alla fine: non c’è un brano che sia tirato via, o per il quale i due interpreti non cerchino di dare una rappresentazione che sia allo stesso tempo discorsiva e teatrale.
Si potrebbe analizzare ogni singolo brano, ma si correrebbe il rischio di essere ripetitivi: quello che conta è rilevare come la voce di Gerhaher – con il contributo fondamentale del pianoforte di Huber – segua il filone della teatralizzazione mediante fusione discorsiva e plurisensoriale della voce che racconta la storia con la musica che l’accompagna.
Da questo punto di vista, che dobbiamo considerare come la nuova vera frontiera dell’interpretazione di questi meravigliosi brani, la coppia Gerhaher-Huber deve essere considerata l’ideale. La voce del baritono tedesco, apertissima, confidenziale, iridescente di mille colori diversi, non è più quella del cantante lirico tradizionale che si “piega” a un repertorio concertistico, ma è qualcosa di completamente nuovo, che forse – in questi esatti termini – non avevamo ancora sentito, se non dal solito straordinario Jonas Kaufmann che nei suoi cicli liederistici, in particolare la Winterreise, riesce a tessere un arco narrativo di una teatralità sconcertante piegando la sua voce a inflessioni che non saranno quelle di Gerhaher, ma sono le uniche nel panorama attuale che ci vanno molto vicine.
Ciò che affascina maggiormente l’ascoltatore sono proprio i colori, tutti pennellati con l’acquerello di un fiato perfetto ma che pure non si percepisce. La voce è nominalmente di baritono, ma in realtà è un colore completamente nuovo che pure è ovviamente apparentato con quello dei grandi esponenti tedeschi del passato, che già cantavano apertissimo negli Anni Trenta
Un disco capolavoro, che svela definitivamente al mondo una coppia di esecutori che si pongono come riferimento assoluto per questo repertorio, da ascoltare più volte con commossa partecipazione.
Pietro Bagnoli