Sabato, 23 Novembre 2024

Editoriale: La baruffa e la frattura - seconda parte - di Matteo Marazzi

Aggiunto il 24 Gennaio, 2016

WOLFGANG WAGNER E LA WERKSTATT

Wieland muore nel 1966, alla vigilia di un fenomeno – la Contestazione – che avrà grande influenza sulla regia musicale. Dai primi anni settanta il teatro d’opera cede spazi alle nuove generazioni (forgiate al Regietheater e fortemente ideologizzate) e le sollecita a ripensare i classici del repertorio. Pur tenendo conto della lezione di Wieland, gli interpreti contestatori sono costretti a spingersi oltre alla de-contestualizzazione dei Musikdramen e alla sublimazione di Wagner nell’universalità del mito, al riparo dalla Storia. L’urgenza della denuncia impone loro di ritornare al contesto e di riaprire quel dibattito storico-politico che Wieland aveva voluto chiudere. Le opere wagneriane vengono ora scandagliate alla ricerca di conferme dell’ideologia, che l’immagine potenzierà con la sua forza evocativa.
La nuova tendenza è difesa con vigore dal Festival di Bayreuth durante il lungo regno di Wolfgang Wagner (1967-2007): uno dopo l’altro, il Tannhäuser di Götz Friedrich (1972), il Ring di Patrice Chéreau (1976, per le celebrazioni del centennale) e l’Olandese Volante di Harry Kupfer (1978) scatenano dibattiti tempestosi e vivificanti e inaugurano un capitolo fondamentale della regia wagneriana.
Eppure Wolfgang non è uno spirito progressista. In teoria affianca il fratello fin dal 1951; in pratica vive alla sua ombra. Rimasto solo ai vertici, fatica a tenere il timone fra i marosi del ‘68; proprio in quell’anno si cimenta per la prima volta coi Meistersinger, dandone una lettura talmente anonima da deludere gli stessi tradizionalisti. Bersagliato dalle critiche, dal 1972 apre le porte a una nuova generazione di registi progressisti, maturati alla scuola di Walter Felsenstein; è talmente scaltro da definirli Werkstatt (officina), dando a intendere che siano germogliati dal proprio orto. A loro tuttavia Wolfgang delega solo una parte del canone e precisamente le opere giovanili (L’olandese volante (1) ,

Tannhäuser (2) e Lohengrin (3) ), la saga dei Nibelunghi (4) e il Tristano (5), riservando a se stesso i due titoli in cui la comunità dei Wagneriani si rispecchia di più: Parsifal (6) e Meistersinger, declinazioni sacra e profana (dall’agape alla Festwiese) del grande sinodo di Bayreuth. Su tale spartizione il festival si reggerà per più di trent’anni: la Werkstatt – nelle opere di sua pertinenza – tiene alto il dibattito e mobilita il pubblico giovane, mentre il Parsifal e i Meistersinger veterotestamentari di Wolfgang si ergono a scudo della tradizione. Questa convivenza a letti separati, però, è ben diversa dalla sintesi – invocata da Sachs – di vecchio e nuovo: segregati nella rispettiva porzione di repertorio e non vivificati dal confronto, l’uno e l’altro si avviano all’atrofia.

In teoria gli allestimenti dei Meistersinger di Wolfgang sono tre: la prima volta dal 1968 al 1976, la seconda dal 1981 al 1988, la terza dal 1993 al 2002. In pratica si tratta di una sola produzione, con lievi aggiustamenti scenografici (fino a un estremo di minimalismo – piccola concessione alla modernità – nell’ultima produzione). Forse, nel suo oscurantismo, Wolfgang comprende la difficoltà di assegnare quest’opera alla Werkstatt: la revisione di Wagner in chiave contestataria può dare frutti sostanziosi con L’anello del Nibelungo e il Tristano, ma difficilmente può reggere all’impatto con i Meistersinger. Anche senza considerare l’inno nazionalista del finale, per un regista uscito dal ‘68 non è facile convertire alla propria Weltanschauung un personaggio come Sachs, che doma la “buona e giusta” eversione di Walther, esalta il passato e accoglie, come un divo di Hollywood, il plauso del popolino. Conoscendo l’ossessione delle Werkstatt per la provocazione politica, è possibile che Wolfgang voglia evitare un possibile corto circuito, inammissibile in un festival nato per esaltare Richard Wagner e non per incriminarlo. Piuttosto che esporre i Meistersinger a un simile rischio, egli preferisce imporre loro una trentennale paralisi.
Estirpato da Bayreuth, tuttavia, il problema fiorisce in altri teatri della Germania, dilagando poi nel mondo e aprendo la stagione del distanziamento. I primi a cimentarsi con l’opera sono gli stessi veterani della Werkstatt: Götz Friedrich e Harry Kupfer. In breve, con Wernicke, Horres, Chundela, Lenhoff, Neuenfels, la Mielitz e Kontwitschny (per non citarne che alcuni) vengono a galla i nodi irrisolti del nazismo e dell’antisemitismo e le altre spinose connessioni alla storia novecentesca. I feroci dibattiti che seguono fanno sembrare ancora più sterili i vecchi e rassicuranti Meistersinger di Wolfgang.


SUCCESSIONE E DISTANZIAMENTO

Alla fine del millennio la Bayreuth di Wolfgang non è cambiata. Alla prima generazione della Werkstatt si sostituiscono nuovi registi, animati da simili principi, ma esclusi a loro volta dalle due opere che Wolfgang avoca a se stesso. Nel frattempo si è fatta scottante la questione della sua successione, tanto più che gli interrogativi sul futuro del festival – oltre a scatenare le solite faide in famiglia – toccano direttamente la sfera artistica. Che cosa ne sarà della strategia del doppio binario, senza più Wolfgang a tutelarne gli equilibri? E come evolveranno Meistersinger e Parsifal?
L’unico fronte condiviso è quello della continuità dinastica, ma ovviamente non vi è intesa sul candidato. Il capofamiglia vuole a tutti i costi che venga favorito il suo secondo matrimonio (la moglie Gudrun Mack-Armann e la figlia Katharina) e così, quando nel 2001 la Richard-Wagner-Stiftung Bayreuth (7) elegge la primogenita Eva Wagner-Pasquier (8), il caparbio ottantenne – il cui incarico è a vita – rifiuta di dimettersi. Lo stallo si trascina per i successivi sette anni, durante i quali Wolfgang riesce a preparare il suo commiato, favorire l’insediamento di Katharina e persino gestire l’avvicendamento di Parsifal e

Meistersinger. Per un uomo nato nel 1919 non è poco.
Le sue antiche produzioni sono archiviate rispettivamente nel 2001 e nel 2002, con esequie solenni che strappano persino alla critica una certa indulgenza. Per il primo Parsifal successivo alla propria era (2004) Wolfgang interpella un regista d’avanguardia, sperando che la tattica – ben collaudata – di livellare il pensiero di Wagner sull’ideologia della sinistra possa adattarsi anche alla sua ultima opera. Fallite le consultazioni con Martin Kušej, ci si rivolge a Christoph Schlingensief, sulfureo perturbatore della scena berlinese, affiancandolo (come ai tempi del Ring di Chéreau) al grande Pierre Boulez. L’esito non soddisfa nessuno e dimostra che anche l’epoca della Werkstatt è finita. Non resta allora che abbassare le armi e importare finalmente a Bayreuth – in ritardo di vent’anni – le nuove prospettive del distanziamento. L’intuizione di Wolfgang consiste però nel ribaltarne i tradizionali obbiettivi: a Bayreuth esso verrà utilizzato per assolvere Richard Wagner, una volta per tutte, sul tribunale della Storia.
Il nuovo Parsifal di Stefan Herheim (2008), che manda frettolosamente in pensione quello di Schlingensief, è talmente permeato della nuova mentalità da risolversi in una maestosa retrospettiva sul wagnerismo. Lo spettatore vi si immerge come in uno specchio; vi riconosce Bayreuth, l’amata Wahnfried e se stesso nell’atto di contemplarla; si identifica in una memoria comune, che racchiude sì spettri e lacerazioni, ma anche la commozione di esserne parte. Alla base dello spettacolo non è più il pensiero di Wagner, più o meno manipolato, ma una meditazione che si rifrange su tutta l’identità culturale del Novecento. Accolto da un meritato trionfo, il Parsifal di Herheim è anche l’ultimo grande successo di Wolfgang, ritiratosi pochi mesi prima: in esso l’anziano direttore avrà forse ritrovato, nonostante la modernità del giovane regista, quella vocazione unificante e celebrativa che da

sempre aveva cercato di attribuire all’opera.

Sia pure con esiti molto meno eleganti (e questa volta stroncati dal pubblico), il primo passo di Bayreuth verso il distanziamento era stato compiuto l’estate precedente (2007), in occasione dei primi Meistersinger del dopo-Wolfgang, affidati alla ventinovenne Katharina Wagner. È la prima volta dal 1901 (9) che il figlio di un direttore in carica viene onorato di una tale responsabilità. Con questa scelta, quanto meno azzardata, Wolfgang non solo favorisce l’insediamento della giovane (la corsa alla successione è ancora aperta (10)), ma mantiene sull’opera prediletta lo stemma di famiglia. Dal canto suo, Katharina vi si prepara da anni: studia teatro alla Freie Universität di Berlino (la stessa del suo Drammaturg di fiducia, Robert Sollich), fa esperienza come assistente e cura le sue prime regie – fuori dal festival – fin dal 2002 (11).
Come Herheim avrebbe portato in scena Wahnfried, Katharina evoca addirittura lo spettro del bisavolo ed è la prima volta che Richard Wagner, oltre ad aleggiarvi come autore, calca il palcoscenico della Festpielhaus. Egli non funge però da personaggio attivo o deus ex machina; la sua raffigurazione è confinata sullo sfondo insieme a quelle degli altri giganti del pantheon culturale tedesco (Hölderlin, Schiller, Beethoven, Bach, Dürer, Goethe, Liszt…). Al primo atto sono soltanto busti di marmo, disposti, come silenti divinità, nelle aule universitarie dove regnano i maestri. Al secondo, dopo il cataclisma culturale, si trasformano nelle creature bizzarre e umanizzate che la controcultura riporta in vita. Al terzo – crollati dal piedistallo e ridotti a feticci di una quotidianità ripugnante – popolano gli incubi di Sachs.
Dietro all’intento di scagionare Wagner (e la tradizione culturale in genere) dalle colpe della Storia, si intravede l’ombra di Wolfgang; ma è nella ricerca dei nuovi colpevoli che vengono scatenate le armi del distanziamento. Si punta il

dito sui reazionari della cultura istituzionale, sui falsi rivoluzionari, sull’arte di consumo e, non da ultimo, sul pubblico, che Katharina (in modo impacciato, eppure mai visto a Bayreuth) costringe a salire sul palcoscenico.
Matteo Marazzi

Note:
(1): 1969 Herzog, 1978 Kupfer, 1990 Dorn, 2003 Guth
(2): 1972 Friedrich, 2002 Arlaud. Fa eccezione il Tannhäuser del 1985, titolo che a Wolfgang premeva allestire almeno una volta a Bayreuth, per poter completare il canone
(3): 1979 Friedrich, 1987 Herzog, 1999 Warner
(4): 1976 Chéreau, 1983 Hall, 1988 Kupfer, 1994 Kirchner, 2000 Flimm, 2006 Dorst. La suggestiva ipotesi Lars von Trier cadde per incompatibilità tra Wolfgang e il regista
(5): 1974 Everding, 1981 Ponnelle, 1993 Müller, 2005 Marthaler
(6): Anche in questo caso un’unica eccezione: il Parsifal del centenario (1982) ceduto a Götz Friedrich, prima di tornare in mano al direttore del festival
(7): La fondazione che dal 1973 amministra il Festival di Bayreuth
(8): Eva è la primogenita del primo matrimonio di Wolfgang, con Ellen Drexel
(9): Per l’Olandese volante del 1901, Cosima – che formalmente avrebbe rinunciato alla direzione solo nel 1908 – aveva incaricato il figlio Siegfried del suo primo allestimento in loco. Anche allora, fu un modo per additare il successore
(10): L’improvvisa morte di Gudrun, alla fine del 2007, comporta un riavvicinamento fra Eva e Wolfgang e chiude l’annosa questione: nell’aprile successivo il consiglio della fondazione approva all'unanimità la proposta di Wolfgang di nominare congiuntamente Eva e Katharina. Wolfgang si spegnerà nel 2010
(11): Nel 2002 Der Fliegende Holländer a Würzburg, nel 2004 Lohengrin a Budapest, nel 2005 Waffenschmied a Monaco e nel 2006 Trittico a Berlino

Categoria: Editoriale

 

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