Domenica, 06 Ottobre 2024

Editoriale: La baruffa e la frattura - prima parte - di Matteo Marazzi

Aggiunto il 17 Gennaio, 2016

LA BARUFFA E LA FRATTURA
I Maestri cantori di Norimberga da Cosima a Katharina


“TRADITION AND INNOVATION” (1)

Il conflitto fra vecchio e nuovo pervade l’intera vicenda artistica di Richard Wagner, alimenta il dibattito che lo circonda e si rispecchia – con strappi storici e generazionali anche violenti – sulla sua interpretazione. Ne è impregnata inoltre la storia del Festival di Bayreuth, allo stesso tempo cantiere di sperimentazioni e tabernacolo di dogmi immutabili. Al tema Wagner ha persino dedicato un’opera, Die Meistersinger von Nürnberg, incentrata sugli opposti vantaggi derivanti dal tesaurizzare l’eredità dei padri e dal conquistare nuove frontiere e sugli opposti svantaggi della sclerotizzazione e del filoneismo.
Nella cinquecentesca Norimberga in cui ha luogo la vicenda, la corporazione dei Maestri cantori custodisce un’eredità culturale gloriosa: la lirica dei Minnesänger. A sua difesa è posta la Tabulatur, complesso di regole e prescrizioni che, col passare del tempo, sono divenute coartanti e pedantesche. Benché asserragliati nel loro conservatorismo, i maestri sono tratteggiati con tenerezza da Wagner, che assegna loro – in contrasto con gli autori che lo hanno ispirato (2) – l’onore del titolo: sono invecchiati nella tutela dell’arte ed è per non vederla sfiorire a sua volta che hanno finito per congelarla. Solo il più fanatico della gilda, Sixtus Beckmesser, assume connotati negativi, a metà fra il vilain e il buffo dell’opera italiana.
L’unico modo per rigenerare la tradizione è introdurre una voce antagonista, un contrappeso dialettico che Wagner affida al personaggio di Walther von Stolzing, assente nelle fonti. A differenza dei maestri, egli è giovane, straniero e per di più è Junker, ossia figlio del feudalesimo a cui si oppone l’operosa borghesia della città. Il suo stile poetico, se così si può chiamare, è impulsivo, fiammeggiante e beatamente analfabeta. Walther e Beckmesser sono

avversari in un torneo il cui premio va ben oltre la bella Eva: è in gioco il primato fra tradizione e innovazione. A dispetto del suo fascino di jeune premier e profanatore di consuetudini (su cui Wagner gioca al punto di affibbiargli un nome che inizia per Wa e finisce per er), il cavaliere non è il protagonista dell’opera (3) ; nella controversia è solo partigiano, non risolutore. La funzione di arbitro e protagonista spetta a Hans Sachs, il leggendario cantore e calzolaio dietro alla cui umanità, assennatezza e trepidazione Wagner si nasconde. Dal suo piedistallo storico e teatrale, Sachs conduce Norimberga a un’inattesa sintesi: alla rovina sono destinate sia le civiltà che hanno perso la capacità di cambiare, sia quelle che non onorano le proprie radici. La vittoria risiede nella combinazione di tradizione e innovazione (ma anche di gioventù e maturità, natura e artificio, individualismo e appartenenza, arte popolare ed erudita).
Come ogni grande compromesso, anche quello di Sachs non accontenta tutti. I fautori di un Wagner unicamente rivoluzionario parteggiano per Walther e si affliggono al suo addomesticamento borghese. Di avviso opposto i massimalisti della conservazione, disposti persino a una rivalutazione in positivo di Beckmesser. Nel corso del Novecento la contesa si è estesa all’ambito politico, facendosi carico di battaglie cruente che hanno trasformato l’interpretazione dell’opera in un campo di battaglia. Eserciti opposti vi sono schierati: da una parte l’ipertrofica apologia di tutto ciò che è orgoglio nazionalistico e omaggio del passato; dall’altra un rancore ideologico che si accanisce sui maestri, ridimensiona Sachs e mal sopporta le feste gioiose di Norimberga. La prima tendenza, quella conservatrice, ha dominato il primo Novecento per poi azzerarsi al tragico spartiacque dell’ultima guerra mondiale; da allora i registi della tradizione si sono rifugiati nel disimpegno, fra colorate oleografie (Otto Schenk) e stilizzazioni

anestetizzanti (Wolfgang Wagner). Nel secondo Novecento la parte del leone è quindi toccata ai riformisti, anche perché – dopo Wieland – sono divenuti gli interpreti più accreditati di Wagner. Eppure nessuna delle opere wagneriane ha mai posto loro gli stessi problemi dei Meistersinger. La trentennale gestazione dell’Anello del Nibelungo, ad esempio, ha stratificato l’opera come un sito archeologico; basta focalizzarsi sullo strato più antico (quello delle barricate a Dresda e delle simpatie bakuniane) per ricavarne una lezione sulla lotta di classe, alla Shaw. Il Tristano è ancora più docile, con buona pace di Schopenauer e del nihilismo cosmico: che cosa volere di più di un “eroe contro” che alla morale avita (patria-guerra-famiglia) oppone il libero amore? Anche nelle opere giovanili si trovano appigli: Senta si emancipa morendo dai valori borghesi della comunità e Tannhäuser è l’artista che stato e religione reprimono. Più ardui Lohengrin e Parsifal (per l’ombra della croce che vi si proietta), ma almeno la spirale di simboli e polisemie lascia all’interprete qualche pertugio. Nei Meistersinger anch’esso è negato: il realismo narrativo e la franca leggibilità tolgono ogni incertezza al significato. Il regista “impegnato” si trova così per le mani un testo che – oltre a profumare di virtù borghesi e domestiche – oblitera la rivoluzione, glorifica il passato e sparge semi di pangermanismo; un testo che infiammava Adolf Hitler.
Il primo espediente che si tentò fu di attutire ciò che risultava imbarazzante. Un diffuso correttivo, ad esempio, consisteva nel prosciugare visivamente l’opera di ogni memoria dell’orgoglio tedesco: Norimberga, le corporazioni, le gioiose parate evaporarono in astrazioni rassicuranti. Un altro correttivo comportò l’esasperazione del Wahn, la pazzia universale che Sachs teme e che esplode senza preavviso nella notte di San Giovanni: oltre a sdrammatizzarne le più scomode affermazioni, il Wahn autorizzò una rilettura dei

Meistersinger come esercizio di meta-teatralità rinascimentale, bizzarro gioco accademico o grande pastorale dell’assurdo, che può persino incamerare musical e Pop Art.
Quando anche i correttivi sono risultati insufficienti, si è aperta la fase che chiameremo del “distanziamento”, la più drammatica e invasiva, duramente avversata dal pubblico. È la fase che ha lasciato le ferite più profonde sui Meistersinger, ma che ha anche indicato la via della rinascita. Se ne può fissare l’inizio nella seconda metà degli anni ottanta (4) , quando i più noti registi mitteleuropei hanno preso esplicitamente le distanze dall’opera, non attraverso scritti o dichiarazioni, ma mettendola in scena. L’aspetto interessante del fenomeno, che ha coinvolto decine di produzioni in tutta Europa, non riguarda tanto gli attacchi di cui i Meistersinger sono stati fatto oggetto e ancora meno il rimando ossessivo (rapidamente stucchevole) al nazismo, bensì le inaudite possibilità lanciate agli interpreti del futuro. Grazie al distanziamento, infatti, Wagner non è più soltanto l’autore da interpretare, ma anche una figura della Storia che agisce, ingigantita dal mito, sulla fruizione della sua opera. Il pubblico non è più solo spettatore passivo, ma è chiamato in causa come coscienza collettiva, si rispecchia nell’oggetto che contempla e partecipa alla sua evoluzione. L’opera stessa non si esaurisce più nel pensiero che l’ha espressa, ma si arricchisce percorrendo le epoche e traendo nuova linfa da ogni generazione che ne beneficia. E infine l’interprete, invece di fingere di appiattirsi sul pensiero dell’autore o costringerlo ad aderire al proprio, può alimentarsi della distanza e affrontare il confronto con rinnovata onestà. Oggi gli effetti positivi del distanziamento sui Meistersinger sono evidenti: è bastato uscire dall’egemonia tedesca e dagli avvitamenti del Regietheater per assistere a produzioni illuminanti e bellissime, da Richard Jones a Stefan Herheim, che hanno finalmente

riconciliato, nell’applauso comune, tradizionalisti e innovatori.
Il Festival di Bayreuth ha vissuto tutte le fasi descritte, esaltandole col proprio blasone. Undici produzioni si sono susseguite dal 1888 al 2011. L’ultima, firmata dalla pronipote di Wagner, Katharina, è stata la prima a introdurvi le potenzialità del distanziamento, con annessi il retaggio più odioso (l’accanimento ideologico, la provocazione puerile), ma anche il reticolo di connessioni che l’opera ha accumulato nella sua storia.


DALLA VECCHIA ALLA NEUE BAYREUTH

La seconda guerra mondiale apre un squarcio nella storia di Bayreuth: alla caduta del Drittes Reich, i rapporti intrattenuti per vent’anni con la NSDAP e Adolf Hitler si ritorcono contro l’istituzione e la trascinano in un abisso da cui non è scontato che si rialzi. L’ex-direttrice Winifred Williams Wagner e il suo responsabile artistico Heinz Tietjen sono coinvolti nell’Entnazifizierung; le accuse di attivismo cadono in appello, ma non le ombre che gravano sul festival. Quando si annuncia la riapertura, nell’estate del 1951, il timone è passato ai trentenni Wieland e Wolfgang, nipoti di Wagner: le parole d’ordine sono purificare, riabilitare, rinascere. La palingenesi del festival e la sua stupefacente rifioritura si devono alla grandezza di Wieland Wagner, che enfatizza la rottura col passato (evidente fin dall’appellativo di neue Bayreuth) dando vita – come regista – a una delle più radicali rivoluzioni estetiche del Novecento. Le sue scenografie, ispirate alle teorie di Appia e alle correnti artistiche condannate dal Terzo Reich, fanno tabula rasa di ogni realismo e decorativismo. Puntando a un’essenzialità primordiale, archetipica, scolpita sul movimento e sulla luce, Wieland porta in primo piano l’universalità dei valori wagneriani, isolandoli dalla storia e purificandoli dalla magniloquenza (allora più che mai sospetta) della tradizione.

Prima di lui, il realismo di scene

e costumi non era mai stato messo in discussione negli allestimenti di Bayreuth, nemmeno durante le repubblica di Weimar, quando approcci scenografici spregiudicati – figli delle avanguardie pittoriche e cinematografiche – avevano conquistato altri teatri tedeschi. Fin dalla morte di Richard Wagner (1883), la vedova Cosima aveva difeso il principio che sulla collina se ne dovesse custodire la memoria il più fedelmente possibile: dato che era stato lo stesso Wagner ad approvare il realismo scenografico dei Meininger (allora all’avanguardia), ci si impose di attenervisi per sempre, come a una novella Tabulatur.
Fu negli anni di Cosima (1883-1906) che, nel 1888, Die Meistersinger von Nürnberg entrarono nel canone del festival, vent’anni dopo la creazione a Monaco. La regia fu assegnata al fido August Harlacher e le scene a Max Brückner, già scritturato da Wagner per il primo Parsifal e riconfermato da Cosima per tutti i successivi allestimenti. La loro Norimberga fu minuziosa e lussureggiante, con un tocco di esuberanza folkloristica che, nel corso degli anni, si giudicò eccessiva. Le luci furono regolate dal grande ingegnere teatrale Friedrich Kranich, che proprio in quell’anno aveva gestito il passaggio all’illuminazione elettrica. Questi primi Meistersinger, coronati da notevole successo, anche economico, vennero ripresi da Cosima fino al 1899. Furono poi rilanciati dal figlio, Siegfried Wagner, nel 1911, con significative modifiche tra i cui i nuovi costumi di Daniela Thode.
La gestione di Siegfried Wagner (1908-1930) fu agitata dai primi venti di cambiamento. In primo luogo, con il passare dei decenni, la tradizione istituita dalla madre aveva messo in luce un controsenso: il festival dedicato al più rivoluzionario dei compositori era divenuto esso stesso santuario della conservazione. Ormai gli allestimenti erano puro antiquariato e, nonostante le cure prodigate, crollavano sotto il peso degli anni. Stava inoltre mutando l’atteggiamento degli

adepti: il gruppo di oltranzisti che Siegfried chiamava i “super-wagneriani” cominciava ad associare il tempio di Bayreuth al nazionalismo dilagante. Alla riapertura del festival – dopo la prima guerra mondiale – Siegfried ripropose i suoi Maestri Cantori, ma una parte degli spettatori interruppe il monologo finale di Sachs intonando “Deutschland über alles”. L’incidente illumina sinistramente i destini futuri della commedia wagneriana.
Prima di morire, Siegfried trovò la forza di eludere le consuetudini, facendo rappresentare due allestimenti completamente nuovi (5) . Sfortunatamente non ebbe il tempo di ripensare anche i Meistersinger, per i quali si dovette attendere la gestione della moglie Winifred (1931 – 1944). Per la giovane vedova fu più semplice operare i doverosi cambiamenti, in parte per la morte di Cosima (pochi mesi prima di quella di Siegfried), in parte per le relazioni politiche di cui disponeva, abbastanza forti da tacitare l’opposizione dei più conservatori fra i Wagneriani. Nel 1933 – lo stesso anno in cui Hitler conquistò il cancellierato – Winifred aprì le porte alle avanguardie berlinesi e mise in cantiere le nuove produzioni del Ring e dei Maestri cantori. Heinz Tietjen, già direttore del Teatro Nazionale di Prussia, divenne il nuovo responsabile artistico, regista e persino tutore dei piccoli Wagner. Insieme con lui entrò a Bayreuth il grande decoratore bavarese Emil Preetorius, a cui furono commissionate quasi tutte le scenografie fino al 1942. Nel volgere di pochi anni, l’intero canone fu rinnovato (compreso l’intoccabile Ur-Parsifal (6) ) e i nuovi sfavillanti Meistersinger colsero un meritato trionfo. Pur senza rinunciare al realismo, Tietjen e Preetorius attenuarono il gusto opulento e pittoresco delle precedenti produzioni; le linee si fecero più nitide e le geometrie più leggere, secondo i canoni delle nuove estetiche razionaliste. Tuttavia – in omaggio ai nuovi sponsor politici – venne rimpolpato il fasto e l’ostentazionedelle scene più celebrative, come le sfilate delle confraternite e l’apoteosi finale. Per quanto Hitler concedesse ampia autonomia artistica all’amica Winifred, il festival si andò trasformando in piattaforma della propaganda nazista e a risentirne furono soprattutto i Meistersinger: dalla seconda metà degli anni trenta, il Reich ne impose uno sfruttamento in larga scala come opera d’apparato, imprimendovi una macchia indelebile. La successiva produzione sulla collina, la quarta ab urbe condita, cadde all’apice del vassallaggio. Il Führer in persona aveva preteso che le estati di Bayreuth continuassero anche in tempo di guerra – riconvertite nei Kriegsfestspiele – a esclusivo vantaggio del regime: il pubblico, reclutato dalla Kraft Durch Freude, era composto di soldati, lavoratori meritevoli ed esponenti del Reich. Nelle ultime due drammatiche stagioni (1943 e 1944) i Meistersinger rimasero – significativamente – l’unica opera in programma. Le nuove scenografie, solenni e tradizionalistiche, erano state disegnate dal giovane Wieland.

Nei suoi quindici anni a capo della neue Bayreuth (1951–1966), Wieland Wagner fa in tempo a riallestire tutte le opere del canone, convertendole alla propria estetica. Con i Meistersinger si confronta una prima volta nel 1956 e una seconda nel 1963. I due allestimenti, molto diversi, sono di importanza storica, ma in entrambi traluce un’ombra di sofferenza ed equivocità, forse conseguente all’imbarazzo di avere contribuito – con la scenografia del 1943 – ai Festival di guerra. Di certo, al di là delle celebrazioni postume (e al netto dei consueti meriti di ispezione psicologica e forza drammaturgica), i Maestri cantori restano un caso a parte nella sua produzione.
Quando l’opera ricompare sulla collina, subito dopo la guerra (1951), non è Wieland a metterla in scena. L’ambizioso cartellone della riapertura comprende anche la Tetralogia e il Parsifal, di cui il neo-direttore si occupa personalmente, legandolisubito alla propria rivoluzione. I Meistersinger invece vengono ceduti a Rudolf Hartmann, che firma un allestimento molto classico, fedele al consolidato realismo. Che Wieland non possa assumersi il peso di tutti gli spettacoli è evidente, ma è sintomatico che rinunci proprio alla commedia. Negli anni successivi non accorderà più a nessuno l’onere delle regie, tranne, controvoglia, al cadetto Wolfgang; secondo gli accordi iniziali, questi dovrebbe occuparsi solo della parte amministrativa, ma dal 1953 punta i piedi e ottiene di firmare alcuni spettacoli (7) che imitano lo stile del fratello maggiore senza eguagliarne la forza. Quando però, nel 1956, arriva il momento di allestire nuovi Meistersinger, Wieland non ne spartisce la responsabilità. Coerentemente con il proprio stile, epura l’opera di tutto ciò che di aneddotico, decorativo e commemorativo essa contiene: spariscono i tetti spioventi, le viuzze a ciottolato, le vetrate gotiche della Katharinenkirche, persino la radura del torneo. In compenso – immersi fra i blu e i verdi liquefatti del secondo atto – si intrufolano omaggi al surrealismo di Miro. Una nuova dimensione tragica si impossessa dell’opera e del suo protagonista, “macchinatore della Notte di San Giovanni e poi giudice di se stesso” (8) . Il pubblico osserva allibito questi Maestri cantori “senza Norimberga” e, benché nel ’56 la rivoluzione della neue Bayreuth sia largamente assimilata, lo scandalo è senza precedenti.
Alla successiva rotazione, nel 1963, Wieland ritorna ai Meistersinger, settimo allestimento sulla collina. È ormai al culmine della gloria e osa ancora di più. Il dispositivo scenico è una struttura lignea che richiama il teatro shakespeariano del Globe a Londra – con la sua galleria circolare – come a svellere la vicenda dalle sue radici storiche e rigettarla nell’allucinazione della teatralità. Filtrano, per la prima volta, tracce di insofferenza. Viene esasperata, ad esempio, l’arroganza ottusa dei maestri; coppiette siintrecciano lascivamente nella Johannisnacht; la sfilata delle confraternite (scortata da nove Muse che ricordano ballerine da rivista) è risolta in parodia. E Sachs accentua una maschera aggressiva, competitiva con Beckmesser (mai tanto dignitoso) e ostile verso lo Junker, il principesco predone da cui infine è sconfitto. Il furore del pubblico non si placa nemmeno al finale grandioso, sovrastato da un pannello che riproduce la prima pagina dell’autografo dei Maestri cantori (primo caso di distanziamento). Nessun teatro riprende lo spettacolo, che si arena dopo due estati sulla collina. Se non condivisibile, l’indignazione dei Wagneriani è comprensibile: sia pure con linguaggio nuovissimo, le regie di Wieland sono sempre state un atto d’amore, mentre i Meistersinger sembrano il tentativo di aver ragione di un testo indomabile.
(segue)
Matteo Marazzi

Note:
(1): Celebre saggio di Wieland Wagner del 1951, tratto da Bayreuther Festspielbuch 1951.
(2): Johann Ludwig Deinhardstein: Hans Sachs, 1828. Albert Lortzing: Hans Sachs, 1840. Come i titoli dimostrano, l’attenzione era incentrata sul cantore-calzolaio, non sui maestri.
(3): Se Wagner avesse voluto porre al centro del suo dramma un protagonista innamorato e “innovatore”, non avrebbe avuto bisogno di inventarsi Walther von Stolzing, dato che (sia nel dramma di Deinhardstein, sia nell’opera di Lortzing) queste funzioni erano già assolte da Sachs
(4): Il primo caso si fa risalire alla produzione, contestatissima, di Herbert Wernike: Amburgo 1984
(5): Tristan und Isolde nel 1927 e Tannhäuser nel 1930
(6): L’allestimento curato a Bayreuth dallo stesso Wagner nel 1882 era stato mantenuto intatto quasi ogni anno fino al 1933.
(7): Lohengrin 1953, Fliegende Holländer 1955, Tristan und Isolde 1957 e Ring 1960
(8): Hans Mayer. Richard Wagner a Bayreuth 1876-1976. Einaudi, 1981

Categoria: Editoriale

 

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