Venerdì, 22 Novembre 2024

Colbran, The Muse di Joyce DiDonato

Aggiunto il 07 Febbraio, 2010


Elenco delle tracce:

01 - Armida: Tema con Variazioni del Final Secondo: D'Amor al dolce impero 7:37
02 - La donna del lago: Dell'Introduzione: Oh mattutini albori! 4:42
03 - La donna del lago: Rondò finale: Tanti affetti in tal momento - 4:16
04 - La donna del lago: Fra il padre, e fra l'amante 4:06
05 - Maometto II: Del Terzettone: Giusto ciel, in tal periglio 3:37
06 - Elisabetta: Cavatina Elisabetta: Quant'è grato all'alma mia 6:50
07 - Semiramide: Coro di Donne: Serena i vaghi rai - 3:15
08 - Semiramide: Cavatina Semiramide: Bel raggio lusinghier 6:09
09 - Otello: Act 3: Recitativo: Ah! Dagli affanni oppresso - 3:36
10 - Otello: Act 3: Canzone del Gondoliero: Nessun maggior dolore - 1:48
11 - Otello: Act 3: O come infino al core 2:57
12 - Otello: Act 3: Canzone del Salice: Assisa appiè d'un salice - 7:49
13 - Otello: Act 3: Deh calma, o ciel, nel sonno 2:35
14 - Armida: Third Finale: Se al mio crudel tormento - 5:39
15 - Armida: Third Finale: Dove son io! - 4:33
16 - Armida: Third Finale: È ver... gode quest'anima 2:25



COLBRAN, THE MUSE
JOYCE DIDONATO

Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, Roma
Edoardo Muller

Luogo e data di registrazione: Roma, Accademia Santa Cecilia, estate 2009
Ed. discografica: Virgin, 1 CD a prezzo pieno

Note tecniche di registrazione: eccellente

Pregi: esecuzione complessivamente piacevole ed a tratti emozionante nei ruoli dalla corda patetica

Difetti: la DiDonato appare ancora inadeguata ove sia richiesto squillo e accento perentorio

Valutazione finale: images/giudizi/discreto.png


Non ci scandalizza la copertina così sfacciatamente glamour dell'ultimo disco di Joyce DiDonato, nè l'accostamento esplicito alla diva ottocentesca "musa" del maestro Rossini, appunto. Divismo patinato e sensualità prorompente erano proprie della Colbran-artista (e forse anche della donna), al più si manifestavano attraverso il linguaggio e i costumi dell'epoca. Il parallelo estetico è quindi pertinente. Ciò che perplime ancor prima dell'ascolto, semmai, è la scaletta, costituita interamente da titoli che ormai sono diventati dei classici del Rossini serio. Ci si aspettava, dopo 30 e passa anni di Rossini reneassance, l'inserimento di qualche pagina meno frequentata, mentre la DiDonato sembra voler giocare sul sicuro proponendo arie e scene che il melomane medio oggi come oggi non farà fatica a riconoscere. Giocare sul sicuro si fa per dire, perchè ovviamente tali titoli richiamano subito alla mente le voci di quelle artiste capostipiti della rinascita del Rossini serio in epoca moderna, vere e proprie pioniere del belcanto primo-ottocentesco che, senza la rete di una tradizione esecutiva o di un accurato studio filologico, si sono buttate già negli anni 50 e 60 nella scommessa dei ruoli Colbran. E tali pioniere, seppur lontane dal rigore col quale le loro colleghe dagli anni 70 in poi hanno approcciato il suddetto repertorio, sono in compenso per lo più fuoriclasse in senso puramente canoro e, spesso, anche interpretativo giacchè parliamo della Callas (prima Armida dell'era moderna), della Caballè (Donna del Lago), della Sutherland (Semiramide), della Zeani (Otello), della Gencer (Elisabetta). Tutti soprani, grandi soprani, seppur dalla vocalità spesso molto diversa.

Ma, c'è da dire, che la storia più recente ci ha dimostrato come i ruoli Colbran possano essere più o meno agevolmente interpretati da voci mezzosopranili dotate (ne sono esempi l'Elisabetta della Larmore, la Semiramide dell'Antonacci, l'Otello della Von Stade), questo in virtù di una scrittura molto centrale che raramente sale oltre il Si naturale ma che molto più di frequente affonda nella prima ottava e anche più in basso (si dice che la Colbran avesse un sonoro Sol sotto il rigo).
Non c'è da stupirsi quindi che un mezzosoprano particolarmente brillante possa cimentarsi nel repertorio del Rossini serio. L'unico titolo del lotto quì proposto che suona in verità ancora inconsueto per un mezzo è proprio Armida, la madre di tutti i ruoli Colbran (almeno per la storia esecutiva contemporanea), forse tra le parti più spettacolari scritte per la diva che nel 1817 era all'apice della sua magnificenza vocale; ruolo-spettro non c'è che dire, dal quale molti soprani che hanno battuto abitualmente questi territori si sono saggiamente tenuti, almeno dal vivo, a distanza. Tra coloro che invece hanno osato, centrando a loro modo il bersaglio, ricordiamo almeno la Callas, la Deutekom, e più recentemente la Anderson e la Fleming. Interpreti diversissime che hanno caratterizzato il personaggio facendo leva sui loro punti di forza. In questo scenario assai policromo dove l'unico comune denominatore sembra essere la fortissima personalità dell'interprete femminile, proprio a questo punto dove ogni risposta pareva essere stata data, si colloca questo disco che, osando anch'esso, si apre e si chiude proprio con la temibile Armida.

Il disco è, tutto sommato, molto gradevole, ma il registro della cantante un po' corto (note alte stiracchiate e sottili, gravi poco risonanti) almeno in questo repertorio non è propriamente d'aiuto. Il volume poi pare essere già in studio esiguo e il legato non perfettamente sostenuto. La sensazione che si percepisce all'ascolto è un po' la stessa sensazione di inadeguatezza che si può ravvisare talora nella Bartoli, col la quale la DiDonato, nonostante una vocalizzazione decisamente più classica, ha in comune i suddetti difetti e dalla quale, non si sa quanto inconsapevolmente, eredita anche qualche compiacimento interpretativo. Un po' come la nostrana Cecilia, la Joyce, per gli stessi pregi e limiti, fa faville quando sguazza nel barocco/neoclassicismo, è ancora molto credibile nella commedia rossiniana (nella quale sfrutta con successo la sua innata verve e beneficia di una scrittura più lieve e agile) ma si trova in difficoltà nel momento in cui oltrepassa il limite di questo repertorio cedendo sotto il peso, vocale e interpretativo, delle dive ottocentesche (anche la Bartoli del resto osò, con scarsi risultati, un improbabile accostamento a Giuditta Pasta). E il tonfo, nel caso di Armida, è sonoro più che in altri casi. Nessuno si aspetti una Armida "cantata male", le note -come si suole dire- ci sono tutte, l'emissione è facile e, registri estremi a parte, il timbro è anche bello, tanto da indurre un certo entusiasmo al primo ascolto. Il problema non è certo il perfetto o non perfetto immascheramento della voce, ma la mancanza di una chiave di lettura alternativa e convincente. Quella chiave che la Callas e la Deutekom, prive di altre coordinate, avevano trovato nella natura, ovvero nella loro prorompente vocalità (la prima regina del legato e dell'agilità di forza, la seconda alfiera dello staccato e della coloratura scintillante), e che la "new-generation" (Anderson e Fleming), non potendo competere sullo stesso terreno di gioco, avevano trovato nell'istinto, ovvero in un atteggiamento interpretativo loro congeniale (la prima in una compostezza morigerata, la seconda in una prorompente sensualità); anche la DiDonato, in questa "terra di nessuno" dell'interpretazione, si asseconda la sua sensibilità, dandoci così la sensazione di una giovane Rosina che ha indossato le scarpe della vecchia zia Colbran; e oltre ad andarle larghe c'è anche il rischio di cadere dai tacchi. Si tenta invero nel rondò la via della ricercatezza dinamica un po' ammiccante e nel finale un certo "furore" quasi neobarocco (per usare il titolo di un precedente e più felice recital della cantante) ma la sensazione di "troppo piccolo" e "troppo costruito" mal si adatta alla personalità dirompente e distruttiva di un personaggio-monster qual'è quello di Armida.

Senza perderci in chiacchiere diciamo che Semiramide e Elisabetta viaggiano un po' sulla stessa lunghezza d'onda. E ancora non è tanto un problema vocale, manca l'accento compassato ma perentorio, la grandeur esecutiva, caratteristiche che avevano fatto grandissime, ad esempio, la Semiramide della Sutherland, vocalmente abbastanza a disagio e quindi costretta a mille infiorettature per evitare il periglioso registro grave, e l'Elisabetta della Gencer, vocalmente certo più adatta ma ormai pesante e tutt'altro che integra, certamente estranea allo stile e alla vocalità rossiniana. Eppure loro apparivano "enormi", con tutti i difetti, riuscivano ad avere l'allure della "musa", la capacità di "guardare dall'alto in basso", la DiDonato invece dà più l'impressione di una ragazza della porta accanto, una cifra interpretativa che, costruita o casuale che sia, in questi brani convince poco. Diverso è il risultato su Otello e La Donna del Lago. Nell'800 il soprano "assoluto" ha sempre una sorta di ambivalenza caratteriale; come si hanno una Pasta tragica e una Pasta patetica, una Ronzi tragica e una patetica, seppur in maniera meno marcata si può identificare una Colbran più orientata verso il dramma e la concitazione (quella di Armida, Elisabetta ecc.) e una Colbran più raccolta dalla corda quasi protoromantica (quella appunto di Otello e Donna del Lago). Anche in questo caso, sia per la scrittura ma soprattutto per la caratterizzazione, voci più piccole e morbide escono favorite nel confronto con i caratteri di questo secondo tipo di personaggio. Il risultato quindi, anche per la DiDonato, migliora notevolmente in queste pagine, e ricorda vagamente la lettura di Federica Von Stade, anche lei eccellente Rosina/Angelina, che intelligentemente ha approcciato solo i ruoli Colbran che sapeva avrebbe portato a casa con successo. Bisogna riconoscere alla DiDonato doti di suggestione non indifferente nella pagina d'apertura dalla Donna del Lago (e una precisione notevole nelle agilità con tanto di picchettati sovracuti del finale), il tutto realizzato con levità e gusto che ben si adattano allo stile più intimo di queste pagine. Per Otello potrebbe farsi il medesimo discorso, specie per la canzone del Salice, intrisa di una malinconia fuggevole e notturna, peccato che quì riemerga un po' troppo manierismo oltrechè una scarsezza d'accento nei recitativi accompagnati, che tanto importanti saranno da lì in poi nella costruzione di un belcanto sempre più vicino alla parola. Il disco in definitiva rappresenta un ascolto piacevole, ma interpretativamente appare un azzardo troppo precoce nella carriera del contralto, anche se lascia intravedere come l'artista in questione, previa maturazione vocale e culturale, possa in futuro approcciare con successo taluni ruoli di questo repertorio, purchè l'approccio sia intelligente e oculato, ovvero a misura dei propri mezzi tecnici e soprattutto espressivi
Triboulet

Categoria: Recitals

 

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