Verismo di Renée Fleming
Aggiunto il 01 Novembre, 2009
A costo di sembrare brutali, la prima cosa da osservare di questo nuovo cimento discografico di Renée Fleming è che comprende quasi solo brani di opere che la cantante americana non ha mai affrontato, né probabilmente affronterà mai in teatro. Nel video promozionale, ella stessa ammette con onestà che si tratta di un repertorio troppo pesante per la sua voce. L’unico personaggio fra questi che la Fleming ha cantato dal vivo è stato la Mimì de La Bohème, quasi vent’anni fa. Dunque, rispetto ad altri dischi del passato, afferenti a repertori consoni alla sua vocalità, si avverte una certa cautela, un po’ di riserbo ad abbandonarsi all’istinto e a trattare la linea vocale con confidenza, come riesce al soprano americano quando naviga in acque sicure.
La grande artista, però, si vede anche in situazioni di questo tipo, e la cantante si conferma in questo prodotto discografico personalità fra le più affascinanti ed ammirevoli degli ultimi anni.
Alle prese con un repertorio vocalmente e psicologicamente a lei estraneo, la Fleming adotta soluzioni stilistiche, tecniche ed espressive molto intelligenti, che si confanno alla sua arte ed al suo ruolo, assolutamente non usurpato, di stella del firmamento della lirica odierna.
La prima cosa che colpisce è il ricorso ad un’emissione leggera e molto morbida, talvolta anche un poco diafana, e l’uso assai limitato del registro di petto ‘sgarbato’: diversamente da quanto ci si sarebbe potuti attendere da una cantante dall’espressività così estroversa e talvolta esagerata (cosa non combinò ne Il pirata!), i personaggi escono ripuliti e nobilitati da uno stile di canto assai elegante. Sono invece presenti all’appello i vezzi (che taluni chiamano manierismi) di fraseggio tipici della Fleming: attacchi a scivolo, portamenti molto accentuati, di impronta jazzistica, che in America chiamano scooping, stimbratura di talune note a fini espressivi, con effetto di crooning, sospiri, alle volte molto insistiti. Tutti vezzi che ben si conoscono e che la Fleming esibiva già nei suoi primi anni di carriera, seppure meno evidenti e messi in mostra: o meglio, allora si notavano di meno perché meno nota era la cantante. I puristi continuano e continueranno a storcere il naso, ma oramai si può dire che si tratti di vezzi tecnici e stilistici sdoganati dalla pratica.
Le condizioni vocali sono assolutamente nella norma per una cantante di cinquant’anni d’età e più di venti di carriera. Si nota, rispetto a qualche anno fa, un lieve appannamento timbrico lungo tutta l’estensione, con particolare interessamento della zona medio-grave, ora un po’ fioca e poco timbrata, mentre risulta sostanzialmente integro il centro-acuto, ancora morbido e cremoso, di quella particolare timbratura che mandò in sollucchero nientemeno che Georg Solti. La zona acuta suona piuttosto facile, anche se un po’ carente di metallo ed ampiezza, mentre i sovracuti, che la Fleming continua ad esibire orgogliosa anche dal vivo, sono un po’ tirati e striduli, ma restano comunque ammirevoli per una cantante della sua età e carriera.
Fatte queste doverose premesse, va detto che l’arte della Fleming trova, anche in questo terreno per lei insidioso, momenti per emergere ed imporsi, a fronte di altri nei quali si trova in difficoltà.
A livelli altissimi s’attesta a mio avviso la morte di Fedora, forse il momento più bello del disco. La Fleming bandisce ogni eccesso verista (nel senso deteriore del termine) e alita la morte della principessa russa su un filo di voce tremulo e scarnificato, specchio autentico ed agghiacciante di una vita che si spegne. Da brividi quell’“Ho freddo, tanto freddo” e quel che segue, appena sussurrato senza nessuna concessione all’effettaccio: vera e propria zampata da fuoriclasse.
Bellissima anche l’altra pagina di Giordano, la breve, stupenda scena da Siberia: sono appena un po’ esteriori le battute di recitativo iniziali, dove la Fleming cerca un colore un po’ troppo sensuale, ma l’arioso “Nel suo amore rianimata” è cesellato su una linea di canto di bellezza ed eleganza mozzafiato.
Molto ben riuscita è la lunga scena da Zazà, vero e proprio caleidoscopio di colori ed emozioni realizzate con grande pertinenza ed aderenza al momento drammatico, in special modo quando la scrittura si fa distesa e si aprono grandi squarci melodici. Ammirevole la scelta di non rinunciare agli interventi recitati della bambina Totò, la simpatica Emma Latis.
La scena di Lodoletta è un altro bel momento: le frasi “ho sofferto la fame, il freddo” forse mancano di ardore e suonano un po’ smilze e come pudiche, ma la linea su cui si distende “Flammen, perdonami” è eccellente, anche se – lo so – non piacerà ai puristi per l’insistenza dei portamenti e degli attacchi a scivolo.
Fra i pezzi più riusciti metterei senz’altro anche “Senza mamma” dalla Suor Angelica. Il tono sommesso, riflessivo e pudicamente commosso della prima parte trapassa con naturalezza nella dolcezza della seconda, dove la Fleming inventa, per la frase “Ora che sei un angelo del cielo”, un colore quasi infantile, come quello che fanno gli adulti quando si rivolgono ai bimbi. Si potrebbe lamentare la mancanza di sfavillio dell’ottava acuta in aggiunta alla non perfetta emissione del pianissimo finale (appena calante d’intonazione e un poco fisso), ma mi paiono rilievi veniali nel contesto di un’esecuzione così curata.
Nei rimanenti brani pucciniani, la Fleming risulta qua e là meno convincente. I momenti tratti da La rondine sono alterni. Mi pare piuttosto riuscita l’arietta del primo atto “Ore dolci e divine”, dove l’articolazione non suona sempre scandita ed intelligibile, ma il gioco dinamico e coloristico contribuisce a dipingere una Magda un po’ “matura”, nella quale la nostalgia per la prima fuitina si tinge di malinconia per l’oramai trascorsa giovinezza. Meno riuscito mi sembra il quartetto, dove i sovracuti suonano tirati e vetrosi; in questo pezzo, insieme con Barbara Vignudelli e Paolo Cautoruccio, canta la stella ospite Jonas Kaufmann come Ruggero: bravo come al solito, molto musicale e curato nell’espressione, ma la parte è troppo acuta per lui.
La pagina tratta dalla Turandot non sarebbe in sé e per sé un momento particolarmente significativo, mancando nella voce della Fleming la forza d’animo, la spina dorsale, il nerbo della schiava che affronta come una martire il supplizio in nome dell’Amore. Tuttavia, l’aver inciso non solo l’arioso “Tu che di gel sei cinta” ma tutta la scena costituisce un merito non da poco, poiché in questa prospettiva più ampia, l’intelligente costruzione di un personaggio remissivo ed affranto riesce a trovare una logica che complessivamente funziona.
Niente di particolarmente memorabile sono invece le arie dalla Manon Lescaut (“Sola, perduta, abbandonata” nella versione originale, sensibilmente diversa da quella definitiva nella parte finale) e da La Bohème (aria del primo atto e “Donde lieta uscì”). Nella prima, la Fleming è in evidenti difficoltà vocali, e la fatica rende piuttosto scarsi i risultati espressivi; curiosamente, non è stata compresa nel disco l’incisione di “In quelle trine morbide”, scaricabile solo da iTunes. Avendola ascoltata, la ritengo uno dei pezzi più belli, con spunti di fraseggio eccellenti ed una linea di incantevole purezza: spiace che la Decca abbia scelto di non pubblicarla su supporto. Nei due momenti della Mimì di Puccini manca quel quid di personale che giustifichi l’incisione di pezzi così inflazionati ed arcinoti, e la grande storia interpretativa dell’opera fa suonare ancora più alieno il fraseggio ed il tipo d’emissione della Fleming alle prese con queste linee vocali. Curiosamente, pur avendo coinvolto ben tre tenori per la realizzazione del disco, non si è pensato di far cantare il “Sì” di Rodolfo in risposta a “Lei m’intende?” a metà della prima aria.
Alterni sono i risultati alle prese con le due eroine da La Bohème di Leoncavallo: molto bene la Musette, con un fraseggio gustoso e spiritoso ed un bel gioco ritmico; non esaltante risulta invece la Mimì, che mette in evidenza una dizione non perfetta.
Proprio l’articolazione costituisce il problema delle arie da Conchita e Iris, che con il loro canto sillabico molto veloce e marcato non sono certo il terreno migliore per permettere alla Fleming di dispiegare i suoi talenti; nella seconda è comunque ammirevole la facilità nel sostenere la difficile tessitura.
Nella bellissima aria dalla Gloria si avvertono problemi vocali non dissimili da quelli che inficiano la scena del deserto di Manon Lescaut, in particolare la mancanza di ampiezza e metallo in acuto, là dove il suono dovrebbe stagliarsi sull’orchestra a pieno volume; va però detto che il soprano trova in questa pagina momenti di fraseggio molto interessanti che ne riabilitano la prova.
De La Wally, di cui il soprano americano ha cantato spesso in concerto ed inciso la prima celeberrima aria, ascoltiamo qui la seconda, “Né mai dunque avrò pace”: nella prima parte si avvertono alcune aperture del suono e qualche grave ingolato, mentre nella seconda sezione il fraseggio analitico e la ricerca di colori hanno modo d’imporsi.
A capo dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, Marco Armiliato si conferma buon professionista, e dimostra che le recenti collaborazioni americane con la Fleming hanno cementato una buona intesa artistica. Il suono è ovunque bello e i tempi risultano ben scelti in rapporto alle caratteristiche della solista; in particolare evidenza il sensibilissimo accompagnamento alla sublime pagina di Siberia.
Per concludere, un disco sicuramente interessante, che però si configura come piuttosto ‘costruito’ e poco spontaneo, specialmente per questioni di scarsa dimestichezza con il repertorio.
Alberto Zama