Domenica, 06 Ottobre 2024

Editoriale: Il canto libero di Mirella - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 03 Marzo, 2015

La nostra amica Mirella ha raggiunto, in questi giorni, le 80 primavere. È un traguardo importante non solo anagrafico, ma anche simbolico: ci racconta di un lungo percorso fatto insieme, prendendoci per mano come la mamma per accompagnarci nei meandri dell’opera per lo più italiana.

Ottant’anni, dicevamo.
Née Mirella Fregni, a Modena, il 27/02/1935, è stata una bambina prodigio. Sorella di latte di Luciano Pavarotti – erano stati tenuti dalla stessa balia – con cui ha condiviso un’amicizia durata tutta la vita e successi su tutti i palcoscenici dell’universo mondo.
Cantò a orecchio “Un bel dì vedremo” a 10 anni, ma non fu mai Butterfly sulla scena nonostante due incisioni assolutamente fondamentali.
Le fu consigliato lo studio del canto da Beniamino Gigli, e lei si affidò prima a Luigi Bertazzoni (con Leone Magiera al piano: si sposeranno), e poi al famoso Ettore Campogalliani.
L’esordio, giovanissima, come Micaela – il nome che poi darà alla figlia avuta da Leone Magiera – e l’avvio di una carriera trionfale, meravigliosa, fatta di luci e di pochissime ombre, alcune delle quali create artatamente dai soliti quattro coglioni che pretendono sempre di saperla più lunga.
Alcuni sodalizi umani fondamentali: di quello con Luciano abbiamo già accennato, si sono voluti bene e hanno cantato tantissimo insieme; ma c’è anche Karajan, il direttore che forse l’ha maggiormente amata; Sinopoli, quello che l’ha invece maggiormente studiata, immaginando di costruirle intorno una veste da Pucciniana del Secolo, e con cui registra la sua seconda Butterfly e la sua seconda Tosca, altro personaggio mai portato in teatro; Nicolai Ghiaurov, con cui s’è sposata alla fine degli Anni Settanta.
Alcuni personaggi fondamentali, quelli che hanno segnato la sua carriera: Mimì, che è stato il fil rouge di una carriera strepitosa; Manon di Massenet, Elvira dei “Puritani”, Zerlina del Don Giovanni, Contessa e Susanna, Nannetta; i grandi ruoli verdiani: Amelia di “Simon Boccanegra” (nel fondamentale spettacolo con Abbado e Strehler), Desdemona (altro caposaldo del repertorio degli Anni Settanta della Scala, con Kleiber e Zeffirelli), Aida e Elisabetta di Valois (con Karajan); Fedora e Madame Sans-Gêne; Adriana Lecouvreur; Juliette; Manon Lescaut, anche a teatro ma soprattutto in disco meraviglioso con Sinopoli (meno riuscito, secondo me, quello con Levine); Tat’jana e Liza, a concludere un percorso formativo eccezionale nella sua progressione da soprano leggero sino a lirico spinto. Oltre a tutto, era probabilmente la prima volta dai tempi di Medea Mei che sentivamo una cantante italiana cantare Liza in russo!
Alcuni personaggi ha rischiato di farli, ma è stata “prudentissima”, verosimilmente saggia nel ricusarli: penso soprattutto a Turandot, propostole da Karajan, una di quelle offerte che non si sarebbero potute rifiutare, ma lei lo fece eccome, dando prova di carattere, oltre che di serietà professionale.
Altri personaggi, infine, li ha fatti con prove – a mio modo di vedere – interlocutorie: Leonora di Vargas, per esempio, o Violetta: l’uno troppo complesso psicologicamente, l’altro vocalmente. La voce di Mirella, pur tonda e splendidamente appoggiata, rimaneva sempre quella di un bel lirico che aveva perso la leggerezza (ma non la smaltatura) del passato leggero, senza le iperboli di una coloratura che non ha mai avuto fosforescente. Ecco perché a scendere in basso faceva fatica, aprendo troppo per acquisire risonanze gravi che non aveva (penso a certe discese della “Forza del destino”).
Ma le rimaneva lontano anche Violetta, in cui pure non ha fatto le nefandezze di cui l’hanno accreditata i coglioni di cui si parlava sopra, ma in cui è stata fondamentalmente ordinaria, né carne né pesce, in un teatro e in un ruolo in cui pochi anni prima c’era stata la Callas con le sue nevrosi e il suo male di vivere. Il vero errore è stato proporre una pratica ragazza modenese

accompagnata da un austriaco cui non difettava l’autostima: lì si è scatenato l’immeritato inferno.
Ma, soprattutto, le mancavano le implicazioni psicotiche e alienanti di certi personaggi che, con la propria praticità terragna, le erano lontani le mille miglia: e, secondo me, Leonora di Vargas è uno di quelli.
Infine, certi personaggi le sono proprio mancati: Madame Lidoine, dei “Dialogues des Carmelites”, per esempio, che le sarebbe calzato come un guanto; oppure qualche ruolo wagneriano come Eva, o Elisabeth, o al limite Elsa.
Ma proprio al limite.
Troppo astratta, Elsa; troppo persa dietro a sogni di fantasmi e a ricordi di infanzia che la opprimono.
Una breve considerazione con Matteo: le è mancata anche Gertrud, la mamma di Hansel e Gretel.
Le sono mancati anche alcuni ruoli barocchi, appena sfiorati: i “suoi” tempi erano ancora troppo precoci per pensare a un suo impiego giovanile in Morgana o – chissà – in Rodelinda.
E, probabilmente, frugando fra i vari ruoli, troveremmo ancora qualcosa che ci sarebbe piaciuto ascoltare dalle labbra di Mirella…


È sopravvissuta a tutti e a tutto, la Mirella; piano piano li sta accompagnando tutti al cimitero.
Può darsi che c’entri la proverbiale maggior longevità femminile, ma non credo che il suo segreto si riduca a una mera questione biologica o a una dieta sana.
È sopravvissuta grazie a una condotta di vita che immagino sana, a un notevole senso dell’umorismo e a un saper gestire con oculatezza le proprie risorse, forse non illimitate ma che tali sembravano in virtù della bravura tecnica, dello studio indefesso e della serietà nell’applicazione.
Non ho avuto il piacere di conoscerla personalmente, ma l’ho cercata diverse volte nei miei giri lavorativi a Modena: in piazza Grande, sotto la Ghirlandina, sperando di incontrarla per strapparle un autografo, io che tante volte l’ho vista e sentita alla Scala e in disco, e l’ho sentita

amica, come se mi avesse preso per mano e mi accompagnato a scoprire quei personaggi meravigliosi che spesso, non lo nego, ho amato di più in bocca a altre interpreti che cantavano molto, ma molto peggio di lei…

Cosa ci resta della Mirella? Qual è la sua eredità?
Proverò a dire quello che penso, ma una cantante che ha segnato col suo passaggio circa 50 anni di teatro d’opera, non può essere banalizzata in poche frasi.
Io credo che – con lei – sia definitivamente terminato un modo di cantare: quello, cioè, italiano e tipicamente all’italiana: perfettamente proiettato, alto, immascherato e – come si suol dire – sul fiato.
Dopo di lei, il nulla.
O meglio: ci sono state tante brave cantanti, ma ormai espressione di un melting pot stilistico, prodotti trans-gender che, alternando nuovi aspetti ai consueti, mescolano tecnica vocalistica con quella declamatoria. Come sempre diciamo, è probabile che siano cambiati i gusti del pubblico ormai abituato a suoni diversi; oppure, più malinconicamente, dobbiamo riconoscere che è finita una fase della nostra vita anche se facciamo fatica a fare i conti con noi stessi.
L’eredità di Mirella Freni può apparire scontata in certi ruoli: Mimì, per esempio, personaggio portato in tutto il mondo e per anche troppi anni, di cui è stata interprete somma, grazie alla coniugazione pressoché irripetibile di sensualità, fresca naïveté e voce rotonda. Ci siamo innamorati tutti della sua Mimì: nessuna è stata meglio di lei, né meglio cantata. Ma direi che ci siamo innamorati anche della sua Butterfly, che non ha mai visto il palcoscenico ma che, in compenso, ha conosciuto due registrazioni profondamente diverse fra loro e tuttavia fondamentali per la sua comprensione.
Personalmente ho amato alla follia la sua Manon Lescaut, quella incisa con Sinopoli: l’ha incisa già avanti negli anni, eppure l’ha cantata in modo talmente strepitoso (grazie anche a un accompagnamento musicale semplicemente da brivido, il primo che evocasse reminiscenze wagneriane) da lasciare attoniti. Un miracolo che non è stata più in grado di ripetere; e mi riferisco ovviamente all’incisione Decca con Levine, per me molto, ma molto meno interessante.
E, in fondo, siamo stati convinti anche dalla sua Tosca, pur se sicuramente la meno Diva fra tutte quelle che abbiamo ascoltato, un altro miracolo di equilibri grazie – ancora una volta – a quel geniaccio di Sinopoli.
Persino il suo Verdi – nei cui confronti sono sempre stato un filo critico – ha, oggi forse più di ieri, dopo molta acqua passata sotto ai ponti, molte ragioni da raccontare: quanto meno, quelle del canto libero. Certo, oggi siamo portati a pensare che Amelia e Desdemona siano più volitive e meno angelicate di quello che Madame Mirella ci aveva fatto intendere; ma è un concetto che abbiamo acquisito dopo che lei ha smesso di cantarle. E comunque, ogni tanto ci torniamo, non solo per affetto, ma perché lei è stata tanto brava da convincerci che devono essere fatte così.
È probabile che il suo Verdi sia stato poco caratterizzato e ignaro di altre ragioni che non fossero quelle del canto; e forse, in quest’ottica così particolare, oggi suonerebbe superata.
Ma è il canto libero, perché forte e consapevole della propria forza, a essere la vera ragione alla base del successo di questa meravigliosa Signora, ultima esponente di un modo di “essere” Artista di cui ormai abbiamo perso le tracce.

Le vada sempre la nostra commossa gratitudine

Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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