Entre elle et lui di Natalie Dessay
Aggiunto il 18 Maggio, 2014
Nato a Parigi nel 1932, Michel Legrand è un musicista che è più famoso Oltralpe ove è una specie di icona. Ha basato la sua notorietà soprattutto sulle colonne sonore: fra gli altri, Yentl, Les parapluies de Cherbourg, L’affaire Thomas Crown da cui è stata tratta la famosissima “The windmills of your mind”. Nel 1971 vince l’Oscar per la miglior colonna sonora per il film “Un été 42” (Quell’estate del 42) da cui viene tratta la canzone “The summer knows”, portata al successo da Barbra Streisand.
Ha collaborato anche come accompagnatore con Artisti come Frank Sinatra, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Jessye Norman, Perry Como, Nana Mouskouri, Mireille Mathieu oltre alla già citata Barbra Streisand e tanti altri.
Giunge in ultimo Natalie Dessay, che registra con lui questo disco di musiche sue, di cui fatico veramente a capire le finalità.
Ha deciso di smettere di cantare l’opera?
Si sta preparando una seconda carriera come cantante confidenziale?
Comunque sia, a mio personalissimo giudizio questa volta ha toppato, e di brutto.
A dispetto di chi dice che la tecnica di canto è unica, che si canta alla stessa maniera qualunque cosa, ho la netta sensazione che la Dessay non abbia la più pallida idea di come si esegue e si vive questo particolare repertorio, che ha le sue regole, i suoi tempi e i suoi fiati. Trasponendo il concetto, è come quando cantanti di musica leggera dotati di notevole estensione hanno provato a cantare l’opera: il risultato non è mai stato adeguato alla necessità.
Allo stesso modo, una cantante grandiosa come Natalie Dessay non trova mai la cifra esatta per partecipare l’emozione di un canto confidenziale che non è mai stato veramente nelle sue corde nemmeno nell’opera. Natalie è sempre stata debordante, esagerata, straordinariamente viva, talvolta persino eccessiva: questo è sempre stato il suo forte. Naturalmente tutto sempre incanalato nell’alveo di una tecnica esemplare che è quella che giustificava qualunque cosa.
Mi viene da pensare, per esempio, al meraviglioso album con le arie di Cleopatra, per me il punto più alto della sua arte, perché è un cocktail semplicemente perfetto di tutto ciò che amo non solo in lei (ma che lei porta al parossismo), ma nell’opera in genere: la giusta alternanza di furore, libidine, infantilismo, pateticità e virtuosismo.
Ecco: qui siamo lontani le mille miglia, e non è solo questione relata al fatto che Legrand non è Haendel.
Nel repertorio operistico, Natalie ha modo di dispiegare non solo tutto il ventaglio di colori di cui è dotata per virtù propria e per indefessa applicazione, ma anche una spontaneità e una sincerità che le fanno perdonare alcune problematiche che sono correlate alla peculiarità della sua emissione; si pensi, per esempio, alla sua Violetta, peraltro talmente rivoluzionaria e sconvolgente da farti sembrare che anche alcuni slittamenti di intonazione o gli acuti al limite del grido lacerato siano funzionali al risultato finale.
In questo repertorio si inventa un modo di cantare, di porgere la frase che non le è né proprio né tanto meno naturale: non è spontanea, e chi la conosce lo capisce molto bene. Canta con ottime intenzioni, si sforza di trovare mille inflessioni diverse, col risultato che la frase si frastaglia in mille rivoli in cui è difficile trovare un filo conduttore attendibile.
Dicevamo delle intenzioni, che sono ottime; non così il canto nel suo complesso, anche perché si capisce che è un pesce fuor d’acqua. Prendere acuti di slancio, senza adeguato immascheramento – e stiamo parlando di una che già di per se stessa nel proprio repertorio di elezione canta molto “aperta” – è esiziale per un’organizzazione vocale delicata, che non ha in questo repertorio l’ampiezza di armonici e il volume di una Streisand; e infatti, proprio gli acuti sono stiracchiati, morchiosi oltre che di limitato volume e con un’intonazione piuttosto problematica.
Molto meglio di lei, per quello che si riesce a intravedere in filigrana, Naouri e la Pétibon nei loro brevi cammeo; soprattutto il primo, che riesce a dominare molto bene il canto leggero di conversazione.
Quindi, se questo è un tentativo di aprire la pista a una seconda vita artistica di Natalie Dessay come crooner, mi sembra che la prova sia sostanzialmente mancata per intrinseci limiti della grande Artista lionese a dominare le richieste non banali del canto confidenziale.
A ciò si aggiungano due altri aspetti.
Il primo è che i brani di Legrand sono orecchiabili, ma irrimediabilmente datati, col loro rimando agli Anni Settanta delle cui atmosfere sono permeati. Siamo quindi in area di pieno modernariato musicale, anche un filo demodé e stucchevole, che oggi riusciamo ad apprezzare solo in bocca a determinati interpreti di elevato carisma: il riferimento, una volta di più, è con Barbra Streisand, la cui resa di questo repertorio oltre che storica, è anche paradigmatica.
In secondo luogo, questo prodotto potrà scaldare i cuori dei francesi o dei cinefili di più stretta osservanza, quelli che impazziscono per la Nouvelle Vague e successive declinazioni, per la liaison fra i brani ivi proposti e i film per cui sono stati scritti; ma oggi che il cinema è diventato genere di consumo rapidissimo c’è poco spazio – tranne che nei cineforum – per la rievocazione di cineasti come Godard, Truffaut o Chabrol; figuriamoci per artisti non così conosciuti al grande pubblico come Jacques Demy, per i cui film Legrand ha scritto alcuni dei suoi brani più belli e famosi.
Ascoltando questi brani per lo più orecchiabili ma veramente passati di cottura si ha la sensazione di un tuffo in solaio, in una giovinezza non più praticabile, in un passato che davvero non ritorna. Per ridare loro vita occorrerebbe qualcosa di più che gli esperimenti di Natalie Dessay, bravina ma non trascendentale.
E, in fondo, nemmeno convincente
Pietro Bagnoli