Domenica, 06 Ottobre 2024

Editoriale: Uomini e topi - di Francesco Brigo

Aggiunto il 19 Agosto, 2014

Uomini e Topi

I cretini fanno di ogni erba un fascio, e accomunano sotto il capitolo “Regietheater” spettacoli discutibili ma coerentissimi come i Meistersinger nella regia della giovane Katharina Wagner, e provocazioni ideologiche e polverose come il Lohengrin di Hans Neuenfels.
Entrambi gli spettacoli possono essere ricondotti al medesimo principio estetico, lo “straniamento” (Verfremdung) del teatro epico di Brecht. Esempi di un teatro pensato in chiave “didattica”, antiromantica, antiborghese, come strumento di critica e distanziamento contrapposto ad un teatro dell’illusione e dell’immedesimazione nella vicenda. L’adozione della Verfremdung come principio estetico è ciò che definisce ogni spettacolo di “Regietheater”.
Il Regietheater applicato al teatro d’opera di Wagner nasce proprio a Bayreuth con uno spettacolo ormai storico: il Tannhäuser nella regia di Götz Friedrich del 1972. Per la prima volta nella storia dell’interpretazione registica compaiono in un programma di sala le note di regia, e Wolfgang Wagner, direttore artistico che aveva designato l’allievo di Walter Felsenstein quale regista del Tannhäuser, viene minacciato di morte. Il pensiero corre a Walter Benjamin che, ancora negli anni Trenta, aveva contrapposto l´”estetizzazione della politica” propria del nazifascismo alla “politicizzazone dell´arte” tipica dei regimi comunisti. Il Wagner “estetizzante” di Cosima, Preetorius/Tietjen, Appia, Wieland e Wolfgang lascia spazio al Wagner “problematico” e “bolscevico” di Friedrich, Kupfer e Chéreau (un teatro “intellettuale”, lo definì con disprezzo Winifred Wagner nella lunga intervista rilasciata a Syberberg). Brecht espugna il tempio dell´arte wagneriana, viene decretata la morte del teatro dell´illusione. D’ora in poi, sulla verde collina e nei teatri d’opera di tutto il mondo, nulla sarà più come prima.
Ambientare il Lohengrin fra i ratti di un laboratorio è una scelta che annulla in partenza ogni possibilità

di immedesimazione nella vicenda, dal momento che il pathos vissuto dallo spettatore viene continuamente raggelato tramite il ricorso ad elementi drammaturgici che necessitano un continuo sforzo di interpretazione e di decodifica razionale per essere compresi e giudicati. Gli animali delle favole di Esopo, pur se intrisi di una forte componente simbolica, mantengono una loro immediatezza “emotiva” e quindi la loro attualità (“de te fabula narratur”). Non così i ratti di Neuenfels, elementi drammaturgici inseriti in un complesso Konzept che necessita di essere decodificato e che potrebbe conferire coerenza e solidità alla vicenda presentata. Il condizionale è d’obbligo. Perché, ammesso e non concesso che alcune idee siano interessanti e valide, è l’idea di fondo complessiva (e quindi il Konzept) di questo Lohengrin ad ostacolare, volutamente, la realizzazione di uno spettacolo drammaturgicamente coerente e solido.
Neuenfels presenta quest’opera come una sorta di “esperimento sociale”. La vicenda è quindi collocata nell’asettico ambiente di un laboratorio. Uomini come topi, topi come uomini, uomini e topi (non è forse un esperimento sociale, quello narrato nell’omonimo romanzo di Steinbeck?).
La scelta di concentrare il focus dello spettacolo sulla massa, sulla società, sul gruppo accomuna questo Lohengrin al celebre Nabucco ambientato dallo stesso regista tra le api di un alveare. La scelta dell’alveare era una decisa, esplicita critica contro le convenzioni, le banalità e gli stilemi del linguaggio operistico, avvertito dal regista tedesco come un divertimento per borghesi cretini (“L’opéra c’est de la merde”). Le api avevano la loro ragione d’essere… nel non averne nessuna. La scelta di questa ambientazione derivava forse da un gioco di parole di impronta dadaista (in francese “ape” è “abeille”, un termine che ha forte assonanza con il nome Abigaille; non solo, le api si organizzano in una sorta di società “matriarcale” attorno alla loro regina), e

si proponeva quindi come una mera provocazione, come un attacco alla vacuità del genere operistico.
I ratti del Lohengrin rappresentano una sorta di identità collettiva, in cui convivono elementi e dinamiche psico-biologiche proprie della massa e del singolo individuo. Nel suo celebre testo “The triune brain” (“Il cervello trinitario”), il neuroscienziato Paul D. MacLean teorizzava la coesistenza nel cervello di ogni essere umano di tre diversi livelli di organizzazione, ciascuno di essi responsabile di una precisa tipologia di comportamento volto alla soddisfazione dei bisogni primordiali e al mantenimento e sopravvivenza del singolo e della specie. Il cervello rettiliano, preposto ai comportamenti volti alla soddisfazione dei bisogni e degli istinti (mangiare, bere, dormire, riprodursi). Il cervello emotivo (paleo-mammaliano), che determina i comportamenti scatenati dalla paura, dall’aggressione, dall’attaccamento alla prole. E infine il cervello superiore (neo-mammaliano), che determina l’essere umano in quanto animale razionale in grado di pianificare, comunicare, pensare.
La coesistenza, all’interno della massa dei topi di questo Lohengrin, di queste tre componenti è esemplificata nel primo degli inserti video proiettati nel corso della vicenda. Il video mostra il profilo della testa di un uomo che poi ruota su se stessa; all’interno del cranio, al posto del cervello, si trova un topo di color rosa. Il corpo del topo viene poi presentato in tre sezioni radiologiche (come quelle di una tomografia computerizzata) di colore diverso: nero, bianco e rosa. All’interno del singolo individuo convivono realtà psichiche diverse tra loro, la cui interrelazione determina il carattere complessivo dell’animale. La concezione neurobiologica di MacLean trova corrispondenza nella tripartizione della psiche ( Es, Ego e Superego) di Freud. Nel Lohengrin di Neuenfels queste tre anime (o cervelli, o componenti psichiche) sono presenti anche a livello di organizzazione sociale. Vi sono topi neri (gli uomini: aggressivi, violenti, brutali), topi bianchi (le donne: sensibili, emotive), topi rosa (i bambini: innocenti ed ingenui). La simbologia dei colori è utilizzata anche per caratterizzare i singoli personaggi. Ortrud e Telramund sono vestiti di nero, e al termine del loro duetto al secondo atto si distendono per terra agitando le mani come fossero zampe di roditori. Al finale del secondo atto, la nera Ortrud si contrappone alla bianca Elsa. Elsa e Lohengrin sono dapprima vestiti di bianco, ma dopo il “peccato originale” di Elsa, entrambi ricompaiono in scena in nero.
In questa regia, Neuenfels cerca di illustrare un esperimento in cui l’uomo cerca di realizzarsi pienamente come singolo e come membro della collettività, trascendendo la propria natura. Ma l’esperimento è destinato a fallire. Questo Lohengrin è il rovesciamento della favola del brutto anatroccolo. Nella favola di Andersen il brutto anatroccolo non diventa un’anatra, ma uno splendido cigno. Non trascende la propria natura, ma la realizza pienamente per ciò che essa è. Si parva licet, Parsifal è la favola del brutto anatroccolo: Parsifal è il brutto anatroccolo (“Gänser”, “anatro”, lo apostrofa Gurnemanz al termine del primo atto) destinato a diventare se non un cigno, quantomeno il padre del cavaliere del cigno. Parsifal è l´uomo che realizza pienamente se stesso. Il Lohengrin di Neuenfels è invece destinato al percorso inverso: è il ratto che non diventerà mai cigno, l’animale che non riuscirà a trascendere la propria natura, l’uomo che fallirà nel tentativo di realizzare pienamente se stesso. Lohengrin, Elsa, Ortrud, Telramund, Heinrich, Gottfried: nessuno dei protagonisti della vicenda riuscirà nell’impresa.
In questo Lohengrin la simbologia del cigno riveste un ruolo centrale. Elsa appare in mezzo ai topi, animali disgustosi e ripugnanti, vestita di bianco (“wie erscheint sie so licht und rein”, “com’ella appare luminosa e pura”), trafitta di frecce bianche, come una martire. Con dolore si strappa di dosso le frecce conficcate nel torace; le altre frecce le restano attaccate sulla schiena disposte come le ali di un cigno. Nel momento che precede l´arrivo di Lohengrin, Neuenfels gioca con l´attesa, la curiosità e le aspettative del pubblico: fa avanzare il coro verso il proscenio, le luci del teatro si accendono. Tutti si aspettano ciò che, considerando le peculiarità, del Festspielhaus è impossibile, e cioè che Lohengrin avanzi dal centro della platea e salga (volando sopra il “golfo mistico”) sul palcoscenico. La cosa, chiaramente, è irrealizzabile, impossibile: Lohengrin entra da una porta sul fondo della scena. Il miracolo non proviene dall´ “esterno”, non c´è nessun deus ex machina sovrannaturale, l´uomo deve sperare e trovare salvezza solo in se stesso e nel proprio ambiente. Lohengrin compare in scena accompagnato da un cigno sopra un sarcofago: l’ideale di purezza è destinato alla morte, al fallimento. Il cigno cala dall’alto, morto e spennato, alla fine del primo atto (un ironico riferimento alla colomba del Parsifal, e al fatto che Lohengrin, il cavaliere del cigno, è il figlio di Parsifal, l’uccisore del cigno). Durante l´incontro notturno tra Elsa ed Ortrud si vede la statua di un cigno, elegantemente stilizzata, immersa in uno spazio rettangolare delimitato da lastre di plexiglass; in questo ambiente si trova anche Elsa, che ha in testa una cuffia da nuotatrice, quasi fosse una bambina immersa in piscina e intenta a giocare con una paperella di gomma (l´androgina Ortrud, non a caso vestita di nero come i ratti-maschi del laboratorio, si spingerà poi a cavalcare in modo sacrilego questo cigno, facendone un simbolo fallico, l´emblema di una potenza aggressiva e violenta). Le penne del volatile ricompaiono nel ventaglio di Elsa al secondo atto, simili a lame di coltello con cui la protagonista affronta la rivale Ortrud (la violenza, intrinseca all’essere umano, contamina ogniideale), in uno scontro che è una citazione esplicita della contrapposizione tra cigno bianco e cigno nero (Odette e Odile) ne “Il lago dei cigni” di Čajkovskij, recentemente ripreso nel film “Black Swan” di Darren Aronofsky. Le penne dell’uccello compaiono ancora nel sarcofago che emerge al centro del letto nuziale in camera di Elsa e Lohengrin. Nell’abito del cigno bianco riappare Ortrud nel finale, in testa una corona (la sete di potere che corrompe), i piedi feriti e fasciati, il volto sfatto. Ed è infine da un uovo di cigno (simbolo di purezza, si pensi alla Pala di Brera di Pietro della Francesca) che (ri)appare Gottfried come un feto enorme e mostruoso, un uomo incompiuto, irrealizzato, un aborto.
Chi è Lohengrin, da dove venga, dove vada, nulla di tutto questo trova risposta nello spettacolo di Neuenfels. Né è chiaro quale sia il senso della “domanda proibita”. La domanda sull’identità di Lohengrin non trova risposta. Neuenfels si limita a sostituire al gigantesco punto interrogativo che compare sul fondo della scena al momento del “racconto del Graal” un punto esclamativo (una citazione-omaggio dello spettacolo di Peter Konwitschny). Una soluzione che, volutamente, non risolve.
L’uomo è e resta un enigma per se stesso.“Il concetto vi dissi, or ascoltate com’egli è svolto”.
Il Konzept di fondo, valido o no, convincente o meno, rischia continuamente di disperdersi nella sua realizzazione parodistica. I continui siparietti, gli ammiccamenti al musical, al varietà, ai cartoni animati (le topoline al secondo atto richiamano quelle della Cenerentola di Walt Disney) non fanno altro che azzerare il livello di pathos della musica (e quindi il coinvolgimento emotivo dello spettatore), in maniera così programmatica da apparire come una continua serie di provocazioni gratuite ed insensate. In questi punti, Neuenfels agisce volutamente “contro” l’opera che è chiamato ad inscenare. O meglio, contro gli aspetti da lui ritenuti più “patetici”,convenzionali, “borghesi” di quest’opera. Gli abiti giallo sgargiante e la gestualità del coro alla fine del primo atto illustrano una musica giudicata come esteriore, e in effetti convenzionale nei riferimenti stilistici dei finali d’atto d’opera italiana. Il continuo botta e risposta tra Ortrud e Elsa al secondo atto è presentato come la contrapposizione tra due dive, tra due prime donne (ventagli, ampie gonne, gesti enfatici) che cercano in continuazione di rubarsi la scena. L´adunata dei soldati e il loro inneggiare alla deutsches Schwert (“la spada tedesca!”) viene prevedibilmente presentata con riferimento ai raduni nazisti. E, naturalmente, la marcia nuziale - il momento più amato dal pubblico borghese, che ne ha fatto una musichetta vuota, banale, infantile, kitsch – è eseguita da topi zampettanti a tempo di musica, disposti in ordinate coppie bianche e nere, e accompagnati da un coretto di topini rosa guidati da una topina bianca, severa maestra di canto, pronta a mettere in riga i più indisciplinati a colpi di ombrellino parasole.
Neuenfels realizza questo Lohengrin credendo di avere di fronte un pubblico che, nonostante Wagner e il suo tentativo di creare un dramma musicale (e un teatro!) contrapposto alle banalità e alle convenzioni dell’opera, è fatto dalla gente di sempre: borghesi arricchiti che, in costosi frac e vistosi abiti da sera, celebrano incessantemente il loro culto muovendo le loro testoline vuote a tempo di musica.
In questo, Hans Neuenfels dimostra di essere un dinosauro, un sopravvissuto al proprio tempo, l’alfiere di un’ideologia (“épater le bourgeois”) irrimediabilmente vecchia e polverosa. Il pubblico d’oggi non è quello che frequentava i teatri d’opera negli anni Settanta e Ottanta.
Però questo Lohengrin ha fatto e continua a fare parlare di sé. Fa parlare di sé esattamente come molti altri spettacoli, diversissimi tra loro per qualità, intenzioni e risultati, che i cretini continuano a bollare con iltermine di “Regietheater”, senza darsi pena di separare il grano dal loglio. Così accade che spettacoli come questo “Rattengrin”, che ormai dovrebbero essere considerati come l’ “irrimediabilmente vecchio”, vengano ancora considerati “avanguardia”. Nonostante il tempo della provocazione sia finito da decenni, Neuenfels continua a far parlare di sé. Bene, male, purché se ne parli. Ha costruito la sua carriera su questo: trattare i cretini come fossero dei cretini. Il successo, anche se un successo di scandali, è stato e continua ad essere enorme. Per quanto discutibile, ideologica ed arretrata, la “formula Neuenfels”, evidentemente, funziona ancora. E Neuenfels continua a fare Neuenfels.
Con successo.
Tutto sommato, come dargli torto?
Francesco Brigo

Categoria: Editoriale

 

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