Venerdì, 27 Settembre 2024

Editoriale: Il Cavaliere in bianco e nero - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 27 Luglio, 2014

Lo confesso: pur rispettandone profondamente il magistero, non l’ho mai particolarmente amato.
Non ho mai amato quel riserbo espressivo che è sempre stato il suo tratto espressivo più caratteristico.
Non ho mai amato quel suo modo particolare di emettere la frase, con acuti piuttosto inscatolati e difficoltosi, anche se in vocalizzo arrivava senza problemi al re bemolle.
Ne rifiuto anche aprioristicamente l’etichetta di TV, che non è la sigla di un treno, ma sta per Tenore Verdiano, una di quelle definizioni che non vogliono dire niente, anche perché in questa definizione dovrebbe starci un arco istituzionale che parte da Ernani e arriva a Otello passando attraverso personaggi diversissimi come Manrico, Alfredo, Henry (o Arrigo che dir si voglia), il Duca, Riccardo (o Gustavo), Don Carlo, Radames e tanti altri.
Ernani – prototipo di tutti gli eroi maudits, solitari nella loro sfida al mondo e alle convenzioni dell’epoca, quelli in cui Verdi maggiormente si riconosceva, tenori, soprani o baritoni che fossero – lo ha affrontato e risolto in modo riflessivo e pensoso. Poteva essere un’ottima base di partenza anche per l’ultimo dei maudits della sua vocalità – non l’ultimo della produzione verdiana, che è invece Falstaff. Otello, invece – giacché è di lui che stiamo ovviamente parlando – tralasciando l’orrido esperimento del 2000 alla Carnegie Hall, gli è sempre restato estraneo, forse anche per un pregiudizio psicologico; ed è proprio da questo punto che vorrei partire per fare due riflessioni sulla splendida carriera del Cavalier (non Commendatore) Carlo Bergonzi.

Nel momento in cui il non ancora Cavaliere di Polesine Parmense lancia la propria carriera tenorile (ha infatti iniziato con un’ampia gamma di ruoli baritonali), il terreno è piuttosto ingombro di prodi equites. Per stare alla sola concorrenza italiana: Mario Del Monaco è già Otello da un anno; Pippo Di Stefano affascina il mondo con le sue aperture vocali e le sue

celestiali smorzature; e Franco Corelli propone le inquietudini del Tenore Drammatico con voce stratosferica e fisico da divo del cinema.
All’estero, oltre alla “coda” di Peerce al termine di una carriera onesta, bisognerà almeno menzionare come potenziali concorrenti nei territori di elezione del Cavaliere, Richard Tucker e Alfredo Kraus; giacché Léopold Simoneau gli è sicuramente lontano come temperamento e Nicolai Gedda anche come caratteristiche, vista l’emissione haute-contre che lo portava in altri ambiti, alla faccia di chi dice che il canto è uno e uno solo…
L’ introverso – almeno interpretativamente – Cavaliere è una voce nuova che, una volta tanto, spazza il campo invaso dagli equites che fanno a gara a chi la spara più grossa. I suoi modelli dichiarati di riferimento sono Aureliano Pertile e Giacomo Lauri-Volpi, ma anche all’ascolto delle registrazioni più antiche non appare mai simile a loro, il che deve far pensare ad altre ascendenze non chiaramente identificabili, oppure a uno stile completamente nuovo, che rimanda – solo in parte – a modelli come Schmidt o Wittrisch.
La voce, copertissima nelle vocali e con più di una reminiscenza dell’antico colore baritonale anche nella difficoltà dell’emissione degli acuti presi di slancio, manteneva un colore e una rotondità appena inficiata dall’abuso di portamenti ascendenti, cui comunque non erano estranei nemmeno alcuni dei già citati colleghi contemporanei e antecedenti illustri.
Ma era soprattutto l’atteggiamento a essere diverso. Mentre Del Monaco urlava al mondo la rabbia dei suoi maudits, in particolar modo quelli verdiani, ma anche veristi come Canio o José, Bergonzi puntava sulla pensosità, sulla riflessione di stampo esistenzialista. I suoi Ernani, Alvaro, Radames, Don Carlo subiscono gli eventi del fato, e non riescono ad opporvi l’eroismo posticcio semplicemente perché non lo concepiscono come valore meritevole di considerazione. L’eroismo cialtrone, perennemente

arrabbiato e dai colori fauve di Marione Del Monaco, trovava in Bergonzi una ridefinizione che – solo superficialmente – poteva sembrare placida inerzia, anche per effetto di una certa qual paciosità condita dalla deliziosa pronuncia emiliana che nel cuor mi sta per questioni di ascendenza (terribile, a questo proposito, la tragica sequenza di “s” del secondo atto del Don Carlo in italiano: “Sire, egli è tempo ch’io viva. Stanco son di seguire un’esistenza oscura in questo suol”), ma che ogni tanto induceva al sorriso ironico il detrattore più infingardo.
In realtà, un successo internazionale, la consacrazione ubiquitaria a Tenore Verdiano, l’ecletticità che lo ha portato a rivestire panni cuciti non solo da Autori cresciuti a pane e nebbia sulle rive del Grande Fiume, ci stanno a parlare di un modello esecutivo più che apprezzato e spendibile anche in ambiti ben diversi.
Prendiamo per esempio il suo Andrea Chènier, testimoniato da una registrazione di ottimo suono effettuata a Londra nel 1970. Abituati come siamo ai singhiozzoni stile Amedeo Nazzari di Beniamino Gigli o di Franco Corelli, o alle bordate arcigne di un Mario Del Monaco che crede sempre, qualunque personaggio interpreti, di aver appena inabissato l’orgoglio musulmano, ci sembra strano di vedere forse per la prima volta un poeta. E invece tale è il personaggio creato da Bergonzi, cui rimproveriamo solo un Improvviso un po’ troppo sopra le righe per essere credibile raccontato da lui, mentre invece il resto è davvero qualcosa di veramente nuovo, almeno in Italia, iniziando da un “Credo a una possanza arcana” pieno di affettuosità e di sgomento di fronte al mistero di un amore accarezzato e quasi sfuggito.
E, sempre per restare in ambiti extra-verdiani, si consideri il suo Pollione di New York 1970, in cui per una volta il Cavaliere si toglie la pensosa bonomia padana e indossa i panni di Donzelli offrendoci la sua personalissima versione definitiva di quel tenore ottocentesco di cui non era mai riuscito a evocare il piglio.
E forse questa sarebbe potuta essere la chiave per accarezzare Otello da un punto di vista che non fosse quello estroverso, aggressivo e popolano di Del Monaco: il recupero di una vocalità e di una psicologia che rimandasse a modelli antichi, quelli che avevano trovato il loro ultimo erede in Tamagno, il tenore-cannone, l’erede di Tamberlick.
Di questi predecessori antichi Bergonzi aveva vocalmente le risonanze morbide e baritonali in basso e – se solo l’avesse approfondita – la potenziale emissione in falsettone degli acuti.
Ma soprattutto, di questi illustri antenati il Cavaliere aveva la sensibilità, l’eroismo araldico, la nobiltà d’emissione, l’atteggiamento sereno e composto che spesso si sfarinava nella placidità esecutiva che in tanti gli abbiamo rimproverato, e che talora affiorava, soprattutto quando non era stimolato da un direttore che non ne afferrava le potenzialità espressive.
Il Cavaliere, infatti, ha prodotto in egual misura Radames, Riccardo e Don Carlo stratosferici allorquando si è confrontato per esempio con Artisti come Karajan, Solti o Schippers; o versioni alternative degli stessi personaggi, irritanti e arrotolati come cotechini, quando la polenta la menava qualche battisolfa di periferia.
C’erano poi – anche in quell’ambito verdiano di cui per molti (ma non per me) è stata la somma epitome – alcuni personaggi che gli erano assolutamente lontani. Penso per esempio a Alfredo Germont: troppo signore, troppo sereno, troppo Cavaliere per parteciparci le inquietudini di un ragazzo alle prese con i tumulti adolescenziali. Ma penso anche – e non vorrei sembrare blasfemo presso i bergonziani di più stretta osservanza – a Manrico, e proprio per gli stessi motivi.
Credo invece che il suo personaggio più centrato sia stato Don Carlo: grasso, timido, impacciato come Ernest Borgnine in “Marty,vita d’un timido”. Il suo eroismo è quello della quotidianità, dell’esserci

nonostante tutto. La sua ribellione muore nel momento stesso in cui la accarezza.
Tutte le volte che ha dato l’impressione di credere nella bontà del suo eloquio, Bergonzi è stato davvero un Cavaliere antico nei modi, deliziosamente blasé, riservato nella comunicativa eppure dotato paradossalmente di un innegabile appeal sul pubblico, che infatti lo adorava. Le volte che invece ha creduto agli equivoci imposti dalle convenzioni del suo tempo, è stato prevedibile oppure francamente noioso.
L’equivoco di credere che Otello appartenesse di diritto agli altri equites che affollavano l’arena lo ha portato a ritenere di non avere i mezzi per farlo, il che è vero solo se lo avesse fatto “à la Mario”; ci avesse creduto un po’ prima, avremmo avuto un Moro un po’ diverso da quello aggressivo degli imitatori di Marione, ivi compreso quel Domingo che non ne aveva i mezzi, ma che in compenso sapeva bene sin dall’inizio dove tirava il vento ed è sempre stato in grado all’occorrenza di risalire di bolina. Così, invece, ci si è risolto solo settantaseienne, completamente spolpo e dopo un intervento al femore, con esiti prevedibilmente disastrosi, nonostante gli agiografi favoleggino di una generale stratosferica e incredibile come tutte le favole.

Con la morte di Bergonzi (e, prima di lui, di Alfredo Kraus) finisce l’epoca dei vecchi Cavalieri.
Siamo in un momento di eroismo pret-à-porter, talora aggressivo, frequentemente violento, molto spesso posticcio. Un eroismo televisivo, ma di quella televisione fatta di reality e talk show urlati e insultanti.
Il Cavalier Bergonzi appartiene ai nostri ricordi in bianco e nero
Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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