Sabato, 23 Novembre 2024

Rigoletto

Aggiunto il 16 Febbraio, 2016


Giuseppe VERDI
RIGOLETTO

• Rigoletto GIORGIO ZANCANARO
• Gilda DANIELA DESSÌ
• Sparafucile PAATA BURCHULADZE
• Duca VINCENZO LA SCOLA
• Maddalena MARTHA SENN
• Monterone GIORGIO SURIAN
• Borsa ERNESTO GAVAZZI
• Ceprano MICHELE PERTUSI
• Marullo LUCIO GALLO
• Giovanna FRANCESCA FRANCI
• Contessa NICOLETTA CURIEL
• Paggio VALERIA ESPOSITO
• Usciere ERNESTO PANARIELLO

Coro del Teatro alla Scala
Chorus Master: Giulio Bertola

Orchestra del Teatro alla Scala
Riccardo Muto

Luogo e data di registrazione: Milano, Teatro alla Scala, 6 e 10/1988
Ed. discografica: EMI CDS 7 49605-2 {2CDS} (1989)

Note tecniche sulla registrazione: suono complessivamente più che accettabile

Pregi: la miglior Violetta della Callas. Resto del cast di altissimo livello

Difetti: non rilevanti

Valutazione finale: images/giudizi/buono.png

Tipico esempio di incisione-laboratorio in tutto e per tutto riconducibile a Muti: scelta dell’edizione critica, in questo caso quella di Chusid; ritmo indiavolato e ai limiti dell’eseguibile; e cast quanto meno discutibile.
In attesa di un più probante cimento teatrale, che avverrà sempre alla Scala ma con altro cast, Muti decide di mettere un punto fermo su una materia come quella di Rigoletto da sempre incrostata di detriti accumulatisi in anni e anni di tradizioni teatrali e di interpreti gigioni. La partitura aveva subito una profonda revisione nel 1983 da parte di Martin Chusid; l’opera era stata quindi restituita alla sua bellezza primitiva, con molti acuti in meno e, in compenso, una maggior tenuta e omogeneità drammatica. L’opera risulta più chiusa, serrata, quasi introversa col suo rifuggire i momenti topici nei quali tradizionalmente la voce si sfoga nell’acuto e nella gigionata che aveva costituito il sale delle incisioni precedenti, dai grandi incunaboli a 78 giri sino ai primi Anni Otrtanta. C’è finalmente una maggior coerenza nel correre a perdifiato (è il caso di dirlo, tenendo conto dell’impostazione di Muti) verso l’allucinante finale, che mai ci era parso così vuoto e insulso, in un’estetica di sacrificio che nulla ha di eroico, mentre da lontano colui per il quale il sacrificio è stato speso si allontana stornellando allegramente, senza acuti finali, quasi fischiettando come dovrebbe essere.
Con tutto il rispetto dovuto a una tradizione grandiosa, piena di nomi meravigliosi nei tre ruoli protagonistici (e non solo: aggiungiamoci anche Sparafucile e Maddalena), è proprio con questa registrazione tanto inferiore da un punto di vista vocale che i conti cominciano veramente a tornare. Per una volta, Rigoletto non è più palestra di acuti interminabili, di birignao da osteria, di cinguettii di vergini svenevoli e di contorcimenti fisico-emotivi di gobbi frustrati e incazzati con la bava alla bocca; ma è, finalmente, una delle opere più intime di tutto il repertorio verdiano; e lo è – o tale ci si rivela – nonostante i ritmi forsennati cui Muti costringe orchestra, coro e cantanti. Ma questa è un’idea squisitamente mutiana di interpretazione verdiana e quindi non dovrebbe ormai meravigliare. Peraltro, in questo contesto, come detto, assume probabilmente una connotazione più espressiva del solito. L’essenzialità, la brutalità di una vicenda che non ha nulla di poetico: il sacrificio per il nulla, per il vuoto pneumatico.
Cancellata quindi la poesia dell’immolazione di una giovane per chi l’ha deflorata, rimane solo a giganteggiare la figura di Rigoletto, col suo canto prosciugato di tutti gli effetti giustapposti nel corso degli anni. Se cercassimo una rappresentazione cinematografica di questo personaggio, potremmo trovarla nell’Alberto Sordi di “Un borghese piccolo piccolo” di cui Zancanaro, con il suo fraseggio fatto di cinquanta sfumature di grigio, è la personificazione perfetta.
Nella visione di Muti, non c’è spazio per superuomini che gridano al mondo il loro male di vivere.

In quest’ottica particolare va quindi letto un cast che altrimenti, se paragonato a quelli storici documentati anche da disco, sembrerebbe sfigurare parecchio.
Ma non è così, perché Giorgio Zancanaro è un fior di protagonista, dotato di bella e robusta grana baritonale che dal vivo risuonava benissimo, ricca di armonici e di acuti pieni e squillanti. Gli si rimproverava una certa qual mancanza di fantasia esecutiva; se questo vuol dire cantare bene, senza urlare con la bava alla bocca, sempre “centrato”, va bene, non era fantasioso. Ma qui, in questo contesto rigidamente dominato dalla volontà del Direttore che controlla alla perfezione il dettato di Chusid, la fantasia non è richiesta: è richiesto il giuoco di squadra, possibilmente all’insegna delle buone maniere.
Detto questo, ripeto, canta molto bene. Si comincia da un primo atto per una volta affrontato non da cialtrone, bensì da essere gretto, meschino e cattivo dentro come ci si aspetta che Rigoletto sia. Ma nel successivo “Pari siamo”, affrontato senza l’acutazzo di tradizione, Zancanaro tira fuori un tono affranto e sommesso, che diventa carezzevole su “Ma in altr’uom qui mi cangio” con una cadenza che è una meraviglia.
Il “Cortigiani vil razza dannata” manca un po’ di autorità, mentre in compenso il duetto con Gilda è molto ben eseguito; a tal proposito, ricordo bene un documentario in cui si vedeva il modo ossessivo-compulsivo con cui Muti provava questo passaggio con baritono e soprano al fine di ottenere i giusti colori.
Ancora: il “Sì vendetta” manca di aggressività, ma è peraltro staccato da Muti su un tempo pressoché insostenibile.
Ottimo invece tutto il terzo atto, in cui Rigoletto giganteggia senza bisogno di effetti speciali.
Al suo fianco la brava Daniela Dessì, soprano lirico e quindi scelta inconsueta per una parte del genere che di solito vede soprani leggeri (e tale sarà Andrea Rost nella successiva incisione di Muti, dal vivo, sempre con i complessi della Scala). La parte è compitata molto bene, con notevole attenzione, liquidità, espressività; ma anche con tono da vittima predestinata al macello, il che rende il tutto un filo monocorde.
Completa il terzetto protagonistico il povero Vincenzo La Scola, all’epoca trentenne e da poco arrivato alla ribalta internazionale, morto purtroppo prematuramente nel 2011: bella voce di tenore lirico che, all’epoca, condivise con il parimenti sfortunato Salvatore Licitra la palma di erede di Luciano Pavarotti. Anche lui canta bene, con gusto e sicurezza, ma senza un tratto distintivo che lo faccia preferire ai mostri sacri della discografia.
E a tali buone maniere si uniforma anche un personaggio non precisamente celebre per i propri modi forbiti come Paata Burchuladze che nel duetto sfoggia un tono felpato e sommesso assolutamente adatto al notturno.
C’è poi Martha Senn, che visse una stagione di popolarità proprio in quel periodo. Alle prese con un personaggio non così tanto caratterizzato come le troppe Carmen di quel periodo, ha modo di far emergere un coté popolano che le si addiceva.
Infine i comprimari: praticamente tutti pescati dal parterre royale della Scala di quel periodo, e si sente benissimo dal modo in cui gestiscono le rispettive parti
Pietro Bagnoli

 

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