/ di Gianfranco Cecchele
Aggiunto il 07 Agosto, 2007
Nato a Galliera Veneta nel 1938, ha debuttato nel 1964 a Catania ne “La zolfara” di Mulè. Nel 1965 è stato Pollione con la Callas. Ha in repertorio 45 titoli e, di tanto in tanto, canta ancora.
In queste poche righe ci sarebbe tutta la carriera di questo cantante e forse sarebbe sufficiente finire qui il discorso perché oggettivamente stiamo parlando di un bravo cantante, ma non di una stella di primissima grandezza. Poi potremmo stare a discutere ore e ore sullo strapotere delle holding discografiche che danno spazio all’ennesimo Parsifal di Domingo e si dimenticano di un cantante come Cecchele, ma tant’è: noi continuiamo a pensare che sì, è vero, le case discografiche ci mettono del loro nell’elevare agli altari personaggi che non avrebbero nessun titolo per starci, ma non è poi così vero che tutti gli esclusi potrebbero occupare quei posti per la folla turibolare in delirio.
Cecchele è stato un bel tenore lirico spinto, con propensioni drammatiche, molta facilità per acuti belli pieni e torniti: uno di quei cantanti che si suole definire “generosi”, termine piuttosto ambiguo che veniva usato anche per certi pugili di scuola italiana come Vito Antuofermo o Rocky Mattioli, gente abituata a prenderle e a darle senza farsi troppe seghe mentali e, soprattutto, senza tener conto del fatto che il pugilato non è rissa da strada, ma anche noble art, come risulta chiaro vedendone all’opera altri esponenti.
Chi scrive ha un ricordo personale di questo tenore, il primo visto dal vivo. Se non sbaglio era il 1978, alla Scala, ed era la ripresa di uno spettacolo piuttosto famoso addirittura trasmesso dalla televisione (bei tempi), diretto dall’eccentrico Seiji Ozawa (una scelta piuttosto audace per l’epoca; onestamente lo sarebbe ancora), con la Kaabaiwanska, Pavarotti e Ingvar Wixell. Nella ripresa, la prospettiva fu ribaltata a favore di canoni più tradizionali: dirigeva Patanè, la primadonna era una giovane Eva Marton ancora agli inizi di una gloriosa carriera internazionale, Scarpia era Silvano Carroli – altro cantante non proprio per palati fini, gran massa di voce e intenzioni eufemisticamente sbrigative; anche lui ancora sporadicamente in attività – e, appunto, Cecchele, ancora nella fase che ne giustificava l’icastico soprannome “Stecchele”. Pestò infatti una stecca tremenda nel primo atto – non ricordo se sul “Recondita armonia” o su “La vita mi costasse” – ma andò avanti impavido sino alla fine dell’opera sino a concludere alla grande riscuotendo poi la sua bella dose di applausi da un pubblico deliziato che confermava così la propria scarsa propensione alle finezze e il desiderio mai sufficientemente espresso di “voce tanta e tosta”; desiderio che, peraltro, la Sovrintendenza soddisfaceva con il cast sopra citato che contraddiceva quella voglia di esotico espressa con la prima…
L’aneddoto si presta particolarmente bene a chiarire i confini dell’arte di questo bravo tenore: quelli che bandivano programmaticamente le già citate “seghe mentali” in favore di emissioni brade e fiati interminabili che delmonacheggiavano senza rossore. Non sono nostre fantasie: questo bel disco di Bongiovanni, doveroso omaggio ad uno dei nostri cantanti da secondo cast più famosi, documenta uno dei più compiuti omaggi alla carriera del grande tenore fiorentino nella cui scia Cecchele si è posto grazie ad un mezzo vocale di discreta attrattiva timbrica e di notevole spessore per quanto riguarda gli acuti che sono sempre stati forti, muscolosi ed emessi alla brava. Già nel 1964, anno dell’esordio, questo aspetto era particolarmente evidente in un “Celeste Aida” che non avrà nessuna di quelle finezze di cui si è disquisito sino alla noia nell’inaugurazione scaligera del 2006, ma che in compenso è concluso da un “acuto grosso così”, di quelli che fanno tornare alla memoria Giovannino Guareschi e il giovane aspirante tenore che debutta al Regio proprio con Aida (ma, se avete voglia di rileggervelo, a sfondo tenorile c’è anche quello intitolato “Emporio Pitaciò”, anch’esso gustosissimo, e anch’esso incentrato su un gustoso e…pericolosissimo “Celeste Aida”).
Di acuti grossi così in questa raccolta ce ne sono sino alla noia, che in effetti inizia a serpeggiare già dopo il terzo ascolto. Non ci viene risparmiato nulla del repertorio tenorile da politeama: dalla Cavalleria Rusticana (e viene da pensare al suo faccione nel video di Karajan), alla sua personalissima versione del pavarottiano “Vincerò” (e lasciamo perdere Puccini, che qui c’entra solo di margine), passando attraverso Andrea Chènier e una spruzzata di Verdi, che però porta in dote il frutto più ambito, quello della consacrazione a vero epigono verdiano, quell’Otello che, in piazze minori, gli ha portato un lusinghiero successo e la consapevolezza che, fra tanti eredi finti di Del Monaco, lui poteva occupare una postazione di assoluto rilievo.
Bene ha fatto, tra l’altro, la Bongiovanni ad evitare le registrazioni di quel periodo in cui fu “Stecchele”: quello cioè in cui un’organizzazione vocale precaria lo portava con discreta frequenza ad avere problemi di intonazione. Tali problemi si sono poi risolti, permettendogli una seconda giovinezza vocale che gli regala tuttora discrete soddisfazioni.
Cosa ci dobbiamo quindi aspettare dall’ascolto di questo disco?
Un’oretta di evasione no problem ascoltando una voce da ampi spazi che galoppa per il repertorio più gradito al pubblico, esibendo un affondo degno di D’Artagnan (roba che nemmeno Del Monaco buonanima) e preparando lo sfogo nell’acuto più pieno, rotondo e squillante che si possa desiderare.
Può bastare tutto ciò a fare un tenore? Evidentemente no, oggi lo sappiamo al di là di ogni ragionevole dubbio: un po’ perché ci siamo abituati ad un più alto sentire (e lo stesso Del Monaco non sarebbe diventato il cantante che oggi tutti noi ricordiamo se avesse basato il suo canto solo su acuti e affondo terrificanti), un po’ perché di cantanti così oggi non ne abbiamo più (tranne forse Marco Berti, ma è già un altro personaggio).
Complessivamente un disco divertente, di pura evasione, che non avrebbe sfigurato se prodotto agli inizi del Novecento come testimonianza di uno di quei cantanti itineranti abituati alle spedizioni punitive, ma che oggi suona deliziosamente