Sabato, 23 Novembre 2024

Editoriale: La Traviata alla Scala: uomini che odiano le donne - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 08 Dicembre, 2013

Cominciamo dal fondo con un’affermazione, in fondo, un po’ paradossale e provocatoria: la “Traviata” di ieri sera è stata fischiata ingiustamente.
Cosa c’era da fischiare?
La direzione di Gatti? Sì, certo, i tempi erano spesso molto lenti, l’accompagnamento al canto non sempre impeccabile, ma in compenso il suono orchestrale era veramente bello, come non si sentiva da un bel po’ di tempo.
La regia di Tcherniakov? Questa poi! Spettacolo di impianto tradizionalissimo, con (quasi) tutti i topoi di una delle mille Traviate che abbiamo già visto. Cosa ci ha sconvolto? L’ambientazione Anni Settanta? Flora con il copricapo da Apache durante la festa in maschera? Violetta con la parrucca a ricci tipo Mina in Milleluci? Oddio, siamo nel 2013 e ci sconvolgiamo ancora per quelle post-datazioni che venivano rimproverate anche a Luchino Visconti (“Ah, ce l’avessimo oggi un Visconti, così rispettoso della materia!”).
Il tenore berciante? Mah, si è sentito davvero di molto, molto peggio. A tutti i nostalgici a tutti i costi, ricordo certe prestazioni orribilmente superficiali di superstar che ciabattavano allegramente per la parte; non faccio i nomi per rispetto.
Nessuno invece ha fischiato Lucic, la cui prestazione – in una parte così complessa, che negli ultimi anni ha subito un profondo cambiamento – pur decorosa da un punto di vista vocale, è stata di un piattume imbarazzante.
Nessuno ha fischiato la Damrau alla fine di un primo atto non scandaloso, ma di una bruttezza desolante, imbarazzante. Anzi, è stata vista come la salvatrice della serata. Intendiamoci: alla fine, i fischi non se li sarebbe meritati. Ha fatto un – per me – bellissimo secondo atto e un terzo più che decoroso. Ma non è una Violetta indimenticabile.
Ecco, questa è la cifra complessiva della serata: niente di che.
Niente di scandaloso, niente di indimenticabile.
Niente.

In fondo, l’avevamo previsto: scegliere Tcherniakov per

l’inaugurazione della Scala, per di più con un titolo totemico come “Traviata”, non era una provocazione, ma un grossolano errore di valutazione. Era prevedibile che – con l’idea di evitare i disastri – si sarebbe auto-ingessato (o l’avrebbero obbligato a farlo, il che è la stessa cosa), imbrigliando la propria spregiudicatissima fantasia, il proprio talento di destrutturatore.
Chi è un destrutturatore? È colui che scompone la materia – e qui niente di strano, ormai lo fanno tutti – e la ricompone con logica teatrale e coerenza narrativa; e questa è roba proprio “sua”, in cui lui è veramente maestro. Il Tcherniakov che abbiamo imparato prima a rispettare, poi ad amare ferocemente, è quello di “Khovanschina”, di quel capolavoro di “Macbeth” di Parigi e, soprattutto, dei “Dialogues des Carmelites”, in cui il suo talento si è letteralmente sfrenato. Lì Tcherniakov ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che cosa sia la vera destrutturazione.
Destrutturare non significa barare col pubblico, come fanno altri registi: significa raccontare una storia magari diversa, ma che abbia un rapporto simbiotico con quella di origine, che abbia una struttura forte e una coerenza narrativa e teatrale attendibile.
Ma quella che Tcherniakov ha presentato ieri sera non è destrutturazione; è un buon lavoro artigianale, con solo qualche sprazzo di interesse in una noia che si tagliava veramente a fette.
Tralasciando lo scontatissimo transfert in avanti dell’azione, dobbiamo spacciare per idea originale il fatto che Violetta muoia sola, abbandonata da tutti quelli che la dovrebbero amare? L’avevano già fatto in tanti, per esempio Willy Decker a Salisburgo e persino il tanto criticato Sivadier a Aix en Provence. Persino Konwitschny, nel pessimo spettacolo di Graz con la straordinaria, intensissima Marlis Petersen, riusciva a essere più originale introducendo la visione diretta della figlia “pura siccome un angelo”, per di più appena adolescente, a

dimostrare e sottolineare (forse in modo troppo didascalico) l’inganno di papà Germont.
Dobbiamo credere che sia una grande pensata il fatto di avere un personaggio secondario sulla scena tutto il tempo (in questo caso, l’Annina dell’attualmente impresentabile Mara Zampieri)? L’aveva fatto il già citato Decker con ben altra pregnanza, lasciando Grenvil a vegliare su Violetta sin dal preludio, accanto all’onnipresente, inquietante orologio.
E Violetta che si trucca all’inizio? Ancora Sivadier!
E lo specchio, presente all’inizio e alla fine?
E la trasformazione, da MILFona a brava ragazza di campagna?
E?...
Niente. Tutto già visto, già sentito, senza uno sprazzo di bellezza, ma soprattutto senza un’idea che esca dai luoghi comuni che già stra-conosciamo.
In compenso manca tutto il resto: manca l’idea di redenzione per la forza dell’amore, manca la strutturazione sociale, manca il senso forte di orgoglio della società del tempo – quella, per capirci, contro cui si scagliava Verdi, manca l’immaturità di Alfredo davanti alla forza di un amore che lo travolge e che lui non capisce (e qui, il già citato Konwitschny era veramente avanti anni luce), manca una presa di posizione decisa sulla figura di Germont padre.
C’è invece – e questo è un barlume di interesse, ma doveva essere sviluppato ben di più – un Alfredo veramente incazzato che gestisce benissimo la gestualità dell’ “Ogni suo aver tal femmina”, evitando isterismi di sorta e puntando su un’ironia cattiva e aggressiva molto moderna, e che soprattutto non si pente dopo il concertato e se ne va via sbattendo la porta. E, inoltre, arriva come un gandula da Violetta morente portandole fiori (per i quali cercherà addirittura un vaso) e cioccolatini e continuando a pensare a una scusa per andarsene via.
C’è un – molto attuale, molto politically correct – ribadire che gli uomini odiano le donne e sono la causa delle loro disgrazie: Annina caccia via

definitivamente Alfredo e papà Germont dal letto (anzi, dalla sedia) di morte di Violetta. È un punto di vista non proprio condivisibile, ma che potrà piacere a tutti quei maschilisti che si sentono redenti e giustificati vedendo che qualcuno parla male di loro.

Quanto alla parte musicale, lascia un po’ perplessi.
Vince prevedibilmente la Damrau, ma è una vittoria farlocca, costruita in gran parte sulla débâcle altrui.
Intendiamoci: lei è molto brava, ma ce lo nasconde per tutto un primo atto vissuto ingessatissimo, in tenuta da MILFona, con una gestualità da allieva al primo anno dell’Actors Studio e con enormi difficoltà vocali nel terreno che ci si immaginava a lei più congeniale, e cioè il grande finale del Primo Atto, coronato da un mi bemolle brutto e al limite dello scrocco, che (per di più, non essendo scritto) sarebbe stato meglio evitare se non fosse che era una delle bellurie che ci si aspettava dalla Damrau. Molto meglio – pur se non memorabile – un secondo atto in cui trova quadratura vocale e istintività gestuale grazie a un milieu forse psicologicamente a lei più consono: quello del quadretto intimo. Il duetto con Germont è notevole per il modo imbronciato con cui lei risolve un passaggio che, di solito, trasforma Violetta in una piagnucolosa Cenerentola. Lei invece tira fuori gli artigli, anche nella successiva scena con Alfredo, e finisce per essere credibile.
Meno interessante il terzo atto, con un “Addio del passato” ben fatto, magari con un abuso di espressioni tragiche, ma intenso e cantato davvero bene, cantato integralmente e guardando un telefono che non suonerà mai.
Non è la mia Violetta ideale, e non per questioni di caratura o peso vocale. Chi se ne frega. Violetta l’hanno fatta centinaia di soprani leggeri, ultima in ordine di tempo la Dessay che, però, profondeva nel personaggio ben altro spessore vocale – a onta del volume – e interpretativo.
No, il problema è che è una Violetta vissuta

ancora abbastanza alla superficie. Se consideriamo la grande scena della festa a casa di Flora (in cui, peraltro, c’è stata una topica clamorosa nel ritardo del suo ingresso), quello che manca clamorosamente è l’intensità, il disfacimento, il dolore vero di chi è combattuto fra l’amore disperato e il disperato senso del dovere: qualcosa che la già più volte citata Dessay ti faceva piombare fin dentro le ossa.
Brava, quindi, ma non memorabile. Quanto meno, non adesso.

Al suo fianco, Piotr Beczala. Non ho capito molto bene i fischi nei suoi confronti, se non per il fatto che ha berciato un po’ la sua parte. Capirai.
Di livello complessivamente analogo mi è sembrato Zeliko Lucic che, dicevo, non ha dimostrato di amare o di capire profondamente il proprio personaggio. Lui è complessivamente uno che definiremmo bravo, in quella sorta di aurea mediocrità che sembra contraddistinguere i baritoni dediti a Verdi oggigiorno: è questa la ragione per cui lo si trova dappertutto a farne i ruoli.
Peggio i comprimari, fra cui svetta – si fa per dire – Mara Zampieri con le chiome dipinte in un improbabile rosso tizianesco che sembra quello della signora R. mia vicina di casa. In scena si fa valere, come sempre. Vocalmente, come sempre, no.

Daniele Gatti fa scaturire un suono orchestrale di una bellezza struggente, ma adotta dinamiche strane che non finiscono per piacermi. Lento sino alla catatonia in momenti dove, invece, la velocità può essere una corsa rapinosa verso la morte (penso alla festa in casa di Flora, il cui incipit con Toscanini e Muti schioccava come una frustata), curiosamente isterico in altri, e mi viene in mente la cabaletta di papà Germont, che ha messo in discreta difficoltà Lucic

Spettacolo quindi di impianto molto tradizionale, con qualche buona idea e un elemento di interesse in Diana Damrau: non c’è molto altro.
Mi piacerebbe rivedere Tcherniakov alle prese con quest’opera in altrocontesto, ove non ci siano pressioni psicopatologiche di chi pretende di essere il Custode Supremo della Verità Assoluta, di quella volontà di Verdi da non violentare e che fu – infatti – violentata dal pubblico proprio in occasione della prima, tanto da costringerlo a retrodatare la vicenda di un secolo.
Anche i bidelli della Scala hanno la memoria corta.
Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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