Domenica, 01 Settembre 2024

Editoriale: "Anche stasera" di Alberto Mattioli, o dell'operomane errante - di Matteo Marazzi

Aggiunto il 30 Marzo, 2012

La passione per l’Opera (che Mattioli nel suo ultimo delizioso libro “Anche stasera” definisce operoinomania) conta tra le sue sorprendenti evoluzioni anche una, diciamo così, turistica.
Non sto parlando delle scampagnate domenicali organizzate dalle piccole associazioni di “Amici della Lirica” verso i teatrini del circondario, con pensionati un po’ disorientati, stipati su pullman a nolo e schierati per il solito Rigoletto di periferia. Per carità i “pullman lirici” dei turni della domenica sono stati in anni passati una realtà pittoresca, importante persino (oggi meno), ma nulla hanno a che fare con ciò di cui stiamo parlando: ossia l’Operomane errante del terzo millennio.

Costui difficilmente si sposterebbe per andare al teatrino a 60 km da casa; le sue mete sono piuttosto Baden Baden, Aix-en-Provence, Vienna, Salisburgo, Barcellona, Glyndebourne, Bruxelles o Bayreuth e altre città in cui abbiano sede le più prestigiose sale da concerto e i teatri più all’avanguardia.
In genere viaggia solo: è estremamente autosufficiente e anche un po’ autoreferenziale (ad esempio scoprire che altri italiani sono presenti a una nuova produzione di Mc Vicar a Strasburgo potrebbe irritarlo).
Le sue vacanze e persino i suoi week-end sono sagomati attorno ai maggiori eventi musicali europei: per lui senza lo spettacolo “imperdibile” (accuratamente selezionato da centinaia di siti teatrali) una vacanza non avrebbe senso.
Quando vengono annunciate le nuove stagioni europee, l’Operomane errante va in fibrillazione; comincia a confrontarle soppesando l’interesse di quel debutto o quella nuova produzione; mentalmente elabora i più improbabili collegamenti aerei o ferroviari che gli consentano di associare un Händel all’An der Wien e un Britten alla Staatsoper under den Linden (che lui chiama affettuosamente SUL). I giorni in cui vengono aperte le vendite on-line non ce n’è per nessuno: già due ore prime che scocchi l’ora, lui è immobile davantial PC col dito pronto al click.
Il suo completo scuro è come una divisa da lavoro. In ogni grande teatro si muove come nel tabaccaio sotto casa; sa benissimo quanto è conveniente il bar, fornito il bookshop, linde le toilettes e rapide le addette al guardaroba.
Torna ripetutamente nelle stesse venti capitali della musica: un normale turista giudicherebbe un record essere stato tre volte a Berlino, mentre un Operomane Errante può tornarci anche tre volte in un anno.
E non si creda che questi singolari pellegrini della Musica siano per forza facoltosi e spendaccioni: comprano i voli (regolarmente low cost) con mesi d’anticipo e sono attentissimi a ogni last-minute, sconti alberghieri e offerte di Eurostar.
Talvolta vengono accusati di esterofilia (“abiti nel paese del melodramma e per vedere le opere attraversi l’Europa”), ma se ne fregano poiché si tratta di un’accusa idiota: solo chi non sa nulla di opera infatti può credere che la nostra povera Italia sia ancora il paese del melodramma.
Instancabili, curiosi, avventurosi, raffinatissimi nei gusti musicali e molto più informati di un direttore medio di teatro d’opera italiano, gli Operomani erranti aumentano a vista d’occhio e fanno sentire la loro voce: alcuni di loro frequentano abitualmente il nostro forum.

Alberto Mattioli non è solo lo stimato giornalista che tutti conoscono, corrispondente della Stampa a Parigi, acuto osservatore della politica e del costume internazionale, critico musicale e biografo di Pavarotti; è anche fin dalla più tenera età un perfetto esemplare di Operomane errante. E’ proprio questo l’aspetto che rende più prezioso il volumetto da lui dedicato all’Opera per Mondadori.
“Anche stasera” è infatti, sì, un utilissimo vademecum per neofiti, uno spaccato minuzioso e accattivante delle tendenze interpretative odierne e relativi protagonisti (cantanti, direttori, registi, critici e appassionati), ma è anche l’autoritratto di unperfetto “opera traveller” che si racconta con tenerezza e autoironia, ma che sa anche far comprendere l’enormità di esperienze (avventure, scoperte, incontri) che il viandante musicale associa a ogni spettacolo della sua vita (nel caso di Mattioli più di millecento, amorosamente numerati).

Gli Operomani erranti di tutt’Italia non potranno che riconoscersi nel libro di Mattioli; per tutti noi infatti l’opera a cui assistiamo (che può essere bella o brutta, sorprendente o deludente) è più che uno spettacolo. E’ la meta di un cammino; è una tappa di vita; è un momento irripetibile attorno al quale la nostra memoria cristallizza i tanti altri momenti irrepetibili del viaggio che ci ha condotti a lei.
Con la sua scrittura un po’ mordace e un po’ indulgente, colorata da guizzi e ammiccamenti, Mattioli non trascura ovviamente di fornire nozioni e rudimenti utilissimi a coloro che all’opera si stanno avvicinando, ma lo fa in un modo che meno didattico non si potrebbe. Spogliandosi delle sue vesti di critico, dispone nomi, fatti, tendenze in una sintesi zibaldonesca e memorialistica insieme.
Non mancano le bonarie ironie verso i retroscena teatrali, i tic di artisti e pubblico, i luoghi comuni e altre assurdità da sottobosco lirico (il cadaverico defilé del 7 dicembre, gli spettatori-disturbatori, l’inevitabile passatismo del pubblico pigro e agé). E non mancano nemmeno alcune salutari picconate: il celebre Riccardo Muti, ad esempio, è oggetto di un severo ridimensionamento.
Ed è proprio con Muti che apriremo la nostra prima intervista all’autore.


MATTEO MARAZZI. Le ragioni delle tue perplessità sulla Scala del “ventennio mutiano” sono molto condivisibili e condivise. Nondimeno il pubblico italiano e internazionale ha sempre riempito la Scala ai suoi anni e risposto con entusiasmo al baccano auto-celebrativo che vi si consumava. Come spieghi il grande amore per questo direttore nonostante il passatismo dei suoiapprocci, il conformismo degli allestimenti e i troppi cast “yes men”?

ALBERTO MATTIOLI. Intanto perché Muti è bravo. Io non gli ho mai contestato la capacità tecnica: per esempio, l’Orchestra della Scala suonava meglio con lui di quanto non suoni adesso. Io gli contestavo – e gli contesto – l’assoluta incapacità di mettere queste doti tecniche al servizio di un’idea interpretativa che non sia la celebrazione del luogo comune. L’ideale di Muti è stato sempre e solo quello di fare le cose come si sono sempre fatte. E’ un direttore che non evolve. Oggi dirige Mozart come lo dirigeva trent’anni fa, come se tutto quello che è successo da allora (per dirne una: la rivoluzione “filologica”) non fosse mai successo. Detesta ogni novità, per esempio di regia, e infatti è il principale responsabile dell’attuale provincialismo italiano: è durante il suo ventennio alla Scala che l’Italia è diventata l’avanguardia della retroguardia. Infine, Muti ha sempre guardato con sospetto i cantanti con una personalità: non solo (o non esclusivamente) per questioni di ego personale, ma perché è legato a un’idea veterotoscaniniana della prevalenza del direttore. Non ha mai capito che la vera grandezza di un direttore di teatro è la capacità di collaborare con altre grandi personalità e di coagularne le energie intorno a un progetto comune e condiviso.
Insomma, in campo operistico Muti è profondamente conservatore. Quindi è un direttore rassicurante per pubblici che concepiscono l’opera come l’eterno ritorno del sempre uguale. Infatti piaceva alla Scala e piace a Vienna, una città che si è sempre opposta con pervicacia demente a ogni novità, mentre non ha mai sfondato nelle “piazze” musicali più inquiete, sperimentali, attente alle novità. Per esempio, Berlino, dove non è amato.
Aggiungerei quel che io chiamo “l’effetto-Tempio”. La Scala, ed è insieme la sua forza e la sua debolezza, “santifica” il suo direttore musicale. Piaccia o non piaccia (a me non piace),sia vero o non lo sia (per me non lo è), per molta parte dell’opinione pubblica questo resta un teatro a parte, “il” teatro d’opera, una specie di santuario, invece di essere un teatro fra i tanti e nemmeno meglio di molti (però ancora meglio di tutti quelli italiani). La Scala monumentalizza chi la dirige.
Infine, Muti ha saputo abilmente creare la sua leggenda di presunto “rigore”. Di fronte alla stampa più sprovveduta (quasi tutta), ogni assurdità diventava intoccabile perché santificata dal “rigore” di Muti, concesso e non dato che questo “rigore” volesse dire qualcosa. Anche sciocchezze come Les Vêpres o il Tell in italiano, l’incredibile ostracismo per i sottotitoli, le “regie” di Deflo e di Pier’Alli, la Huffstodt protagonista della Vestale e le altre mille assurdità che ci siamo dovuti sorbettare nel ventennio.

MM. Al contrario sul lavoro di Lissner dimostri una buona opinione, più di quella che finora ha espresso il nostro sito. Cosa ci dici in merito?

AM: Dico che, intanto, a Lissner andava lasciato qualche anno per elaborare compiutamente la sua proposta. Dico che oggi nessun teatro del mondo ha un panel di direttori ricco come quello della Scala. Dico che finalmente c’è un teatro italiano che commissiona una regia a Guth o a Jones. Poi molte scelte di Lissner si possono discutere: trovo insensato insistere (scusate il bisticcio) sulla riproposizione di spettacoli “storici” (le Nozze di Strehler, l’Aida della De Nobili) che, appunto perché storici, devono stare in un museo e non in teatro. Non ho molto condiviso la scelta di Daniel Barenboim come direttore musicale perché, nonostante la grande stima che ho di lui, non mi sembra che abbia il profilo adatto per questo teatro in questo momento storico. Eccetera: su Lissner possiamo discutere fino a domattina. Per esempio, mi sembra che siamo ancora un giro indietro: Lissner sarebbe dovuto arrivare alla Scala vent’anni fa, così oggi avremmo un direttore artistico dellagenerazione seguente, quella postsessantottina.
Ricordo ancora che la Scala non è un teatro come gli altri. Non dimentichiamoci in quali condizioni lavora Lissner, che genere di loggione, di stampa, di poteri politici c’è a Milano. Dico, ma avete letto quel che si è scritto e detto del Don Giovanni di Carsen?

MM: A proposito di direttori, perché chi ama Abbado non ama Muti? Possiamo superare entrambi? Che ne pensi dei dualismo all’opera? Invenzione di appassionati o c'è un perché? C'è ancora spazio per i dualismi?

AM: Però spesso questi “dualismi” non sono solo derby, Inter-Milan o Roma-Lazio. A volte esemplificano, in maniera plastica, concezioni molto diverse del teatro d’opera. Abbado è quello che Muti non è (e viceversa). La Callas inventò la modernità (anzi, una modernità) dell’interpretazione operistica, quando la Tebaldi, peraltro grande artista e grande cantante, fu l’ultima Tosca a entrare ancora in scena con il bastone, come nel 1900. Naturalmente, i dualismi hanno senso se parliamo di personalità di questo livello. Una gara Marcelo Alvarez-Roberto Alagna è solo ridicola.

MM: Nei teatri italiani tu constati un ritardo organizzativo e artistico rispetto alle programmazioni estere. Quali potrebbero essere le ricette per ridurre il gap?

AM: Chiuderli. Fermare tutto, prendere tempo, reimpostare tutto (a cominciare dalle regole) su nuove basi e poi riaprire. E’ una provocazione, è chiaro. Però a Londra l’hanno fatto. E ha funzionato.

MM: Parliamo di cantanti: quali sono secondo te le caratteristiche dell’interprete d’opera attuale? Cosa si richiede in più rispetto al passato e cosa si richiede in meno?

AM: Io credo che ai cantanti si siano sempre chieste più o meno le stesse cose. Credo che oggi sia sempre meno tollerata la mancanza di preparazione musicale. Se non sai leggere uno spartito devi davvero essere Caruso o Pavarotti. Altrettanto ovvio che se devifare una regia di McVicar o di Cerniakov ti siano chieste delle doti di attore e di, diciamo così, accettabilità fisica che un concerto in costume griffato Pizzi non ti richiede. Però è una leggenda che in passato l’aspetto teatrale dell’interprete d’opera fosse secondario. Basta avere un po’ di dimestichezza con la critica ottocentesca per sapere quanto insistesse sulle doti di attori e perfino sull’aspetto fisico dei cantanti. Vi racconto un piccolo aneddoto. Tempo fa un’amica mi chiese di prefare un libro che raccoglieva le ricerche dell’ex direttore del teatro Chiabrera di Savona. Bene: non ricordo esattamente quando e non posso controllare, ma credo negli anni Cinquanta o Sessanta dell’Ottocento, uno dei grandi scandali operistici di Savona fu la prestazione di un Manrico che scatenò tante e tali proteste da obbligare il governatore (o il sindaco, non ricordo) a pubblicare un manifesto che minacciava sanzioni se il pubblico non si fosse calmato. Credete che il tenore fosse contestato per il do della Pira o, più in generale, per come cantava? No, quello che era insopportabile per gli spettatori era la sua recitazione. A Savona, non a Milano o a Parigi.

MM: Ci sono personaggi o opere che hanno esaurito il loro ciclo vitale con certi interpreti? Cosa faresti per rivitalizzare "Norma"?

AM: Se fossi un direttore artistico avrei molti problemi a fare Norma e credo che alla fine rinuncerei (che è poi quel che fa la maggior parte dei direttori artistici). Il problema, banalmente, è che ci vuole Norma e di Norme plausibili in giro non ne vedo molte. Aggiungo che si tratta di un’opera insidiosissima anche per la messinscena. Personalmente io non ho mai visto una Norma convincente in teatro: sembrava sempre di essere finiti dentro un album di Asterix.
Credo di essere stato l’unico giornalista italiano a essere andato a Dortmund (o era Duisburg? Non mi ricordo… scusate, è l’arteriosclerosi) al debutto nella parte (in concerto) diCecilia Bartoli, che peraltro canterà Norma a Salisburgo nel ’13. E’ stato un esperimento interessantissimo e a tratti entusiasmante. Però qui entra in gioco un aspetto molto particolare del teatro d’opera che lo apparenta alla Chiesa cattolica: qui non fanno testo solo le Sacre scritture, ma anche la Tradizione. Fatalmente, quando andiamo a sentire Norma ci aspettiamo una certa vocalità, un “peso” vocale, che non è certamente quello della Bartoli. Per carità: lasciamo stare la Pasta o la Malibran o meglio le lasciamo a quelli che giudicano i cantanti del presente sulla base di ciò che facevano quelli del passato remoto (e senza saperlo). Però, per usare una terminologia cara a Qualcuno che bazzica questo sito, diciamo che non so quanto la Norma della Bartoli sia accettabile per le “convenzioni” di oggi, cioè quel patto tacito che regola il rapporto fra il pubblico e l’interprete.

MM: Recentemente fra le cantanti d’opera la percentuale di belle donne è molto aumentata rispetto al passato. Che ci dici del fenomeno e perché crea tanta agitazione (e in certi casi isterismo) presso i vociomani e i passatisti?

AM: L’isterismo di quella fauna è uno spasso e non sai quanto mi diverto alle sue stravaganti manifestazioni. Però si tratta di un problema medico, non critico, e soprattutto non è un problema mio. Le belle donne e i begli uomini all’opera ci sono sempre stati. E’ aumentata l’importanza dell’aspetto fisico? Secondo me, sì. Ma come è aumentata in tutti i campi, non solo nello spettacolo (pensate per esempio all’importanza della fisicità – se non della bellezza - in politica). Ogni manifestazione pubblica, di qualsiasi genere, diventa immediatamente un video: è chiaro che questo dà una nuova importanza alla fisicità. Il soprano-balena non è più tollerabile. Sempre che piaccia l’opera per quello che è, cioè teatro musicale. Il che non è il caso per quei patetici personaggi cui facevi riferimento tu.

MM: Se fossi uncantante d'opera cosa saresti: un tenore eroico, un baritono colorista o un controtenore alla moda? E con chi vorresti fare un duetto d'amore?

AM: Tenore, baritono, controtenore, basso… non ha importanza, purché mi facciano cantare il duetto d’amore con Anna Caterina Antonacci o con Marlis Petersen, che trovo le cantanti d’opera in assoluto più sexy di oggi. La prima è anche una mia cara amica.

MM: Noi di Operadisc siamo molto onorati del fatto che hai posto i nostri dibattiti fra le 100 cose per cui vale la pena di innamorarsi dell’opera. Dato che anche in Italia sono numerosi i siti che raccolgono l’opinione degli appassionati (oltre al nostro, ricordiamo i più famosi e frequentati come Operaclick e la Voce del Loggione), quanto - secondo te - la possibilità di interloquire su Internet ha cambiato le prospettive e le caratteristiche del pubblico d’opera?

AM: Ci sono tre novità che hanno rivoluzionato il mondo dell’opera: Internet, i voli low cost e il dvd. Credo che non tutte le discussioni che si fanno sui siti siano davvero valide come le vostre, ma non ce n’è una che non sia interessante, se non altro per farti capire cosa pensa il pubblico. Questo è prezioso perché ti permette di monitorare, praticamente in diretta, i corsi e i ricorsi del gusto, le tendenze e le polemiche, insomma tutto quello che fa di quest’arte un’arte viva. E io vorrei tanto che lo restasse

Matteo Marazzi












Categoria: Editoriale

 

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