Lunedì, 07 Ottobre 2024

Editoriale: 4 spettacoli, 1 commento - di Matteo Marazzi

Aggiunto il 16 Maggio, 2011

Anche se temo che ne uscirà una lenzuolata eccessiva per il Net, mi piacerebbe sottoporre a Operadisc una valutazione cumulativa degli ultimi spettacoli che ho visto dal vivo. Il gioco può risultare interessante, perché si tratta di produzioni di grande importanza e molto diverse fra loro.

27 gennaio 2011: Zurigo, Opernhaus
LE COMTE ORY – Rossini
Direttore: Muhai Tang - Regia: Moshe Leiser / Patrice Caurier
Comte Ory: Javier Camarena - Tutor: Carlos Chausson - Isolier : Rebeca Olvera - Raimbaud : Oliver Widmer
Countess of Formoutiers: Cecilia Bartoli - Ragonde: Liliana Nikiteanu - Alice: Teresa Sedlmair
Orchestra e coro dell’Opernhaus di Zurich

15 aprile 2011: Parigi, Opéra Comique
LE FREISCHÜTZ – Weber (versione francese di Berlioz)
Direttore: Sir John Eliot Gardiner - Regia: Dam Jemmett
Agathe: Sophie Karthäuser - Max: Andrew Kennedy - Annette : Virginie Pochon - Gaspard : Gidon Saks
Kouno: Matthew Brook - Kilian: Samuel Evans - Ottokar: Robert Davis
Orchestre Révolutionnaire et Romantique – Monteverdi Choir

24 aprile 2011: Monaco, Bayerische Staatsoper
PARSIFAL - Wagner
Direttore: Kent Nagano - Regia: Peter Konwitschny
Parsifal: Nikolai Schukoff - Kundry: Angela Denoke - Amfortas: Michael Volle - Gurnemanz : Kwangchul Youn
Titurel: Steven Humes - Klingsor : John Wegner
Orchestra e Coro di Stato della Baviera

25 aprile 2011: Salisburgo, Festival di Pasqua, GrossesFestspielhaus
SALOME – Strauss
Direttore: Sir Simon Rattle - Regia: Stefan Herheim
Salome: Emily Magee - Herodes: Stig Andersen - Herodias : Hanna Schwarz - Jochanaan : Iain Peterson
Narraboth: Pavol Breslik - Paggio: Rinat Shaham
Berliner Philharmoniker

Delle quattro produzioni tre erano nuove; solo il Parsifal era una ripresa e per giunta vecchiotta (1995).
I primi due titoli (ilComte Ory e il weberiano Freischuetz nella versione francese di Berlioz) condividevano un interesse di tipo filologico. A Zurigo era infatti annunciata (sulla carta) l'adozione della nuova edizione critica Bärenreiter curata da Damien Colas che tanto scalpore aveva destato soprattutto per il nuovo Finale Primo (che alla fine – assurdo – a Zurigo non è stata eseguito). Il Freischuetz veniva invece presentato per la prima volta (e con tutti gli scrupoli che ci si attende da un Gardiner) nella versione del 1841 all’Opéra, in traduzione francese, recitativi musicati da Berlioz e ballabili (il pianisitco "Aufforderung zum Tanz" di Weber orchestrato dallo stesso Berlioz). Personalmente – se proprio Franco Cacciatore “alla francese” doveva essere - mi sarei divertito di più a scoprire il diffamatissimo “Robin des Bois” di Castil-Blaze (1824), primo adattamento francese dell'opera di Weber, ma Gardiner ama troppo Berlioz per rinunciarvi.
L’attesa che gravava sulla Salome di Salisburgo (Festival di Pasqua) era di altra natura: mondana, certo, ma anche artistica, come sempre quando i Berliner si concedono al teatro d'Opera. Le presenze di Rattle sul podio e di Herheim alla regia promettevano poi succulente sfide alla tradizione.
Il Parsifal, infine, presentava un cast di quelli che si vedono una volta ogni vent’anni. Veniamo ai risultati.

I DIRETTORI E LE ORCHESTRE
Non so se è stato Mihai Tang, l'antico protegé di Karajan e oggi direttore giustamente affermato, a voler deturpare l’edizione critica del Comte Ory;se non altro avrebbe potuto e dovuto opporsi. A parte questo la sua direzione è stata genericamente curata, genericamente brillante, proprio come in area mitteleuropea si pensa debba essere Rossini.
Invece ci sarebbe voluta una riflessione sulle specificità dell'opera e del suo linguaggio: in pratica un altro direttore.
VALUTAZIONE: 6
A un gradino un po' più alto – per merito anche dell’esperienza wagnerianadei complessi bavaresi – si colloca Kent Nagano, direttore sui cui molti puntano per “sgrassare” Wagner dal vecchio magniloquio che ultimamente sta tornando di moda. Il fatto però che questo Parsifal fosse solo una ripresa (e per tre recite in tutto) non deve aver lasciato al “Patron” della Staatsoper il tempo di curare i dettagli: non sono mancate imprecisioni né una certa chiassosità teutonica. Solo a tratti emergeva la zampata del grande concertatore (il crescendo dell'interludio terzo).
VALUTAZIONE: 7
Gli inglesi stravincono sugli asiatici. Gioco facile, mi si dirà, quando si dispone dei Berliner Philharmoniker e per giunta in una nuova produzione preceduta da innumerevoli prove, come nel caso della Salome di Simon Rattle.
Eppure non era così scontato che, in un’opera-simbolo della retorica orchestralecome Salome, le velleità progressiste del maestro e l’ipertrofico edonismo dell’orchestra avrebbero trovato un punto di intesa.
Nella prima parte dell’opera, se non altro, il risultato è stato raggiunto e con esiti spettacolari.
La specialità del Maestro inglese è proprio quella di domare orchestrazioni elefantiache scomponendole in equilibri millimetrici, trasformando il magma in un tappeto su cui i cantanti si muovono in punta di piedi: è un miracolo che nemmeno ad Abbado riesce, quando dirige il gigante berlinese.
Sembrava di sentire una nuova Salome, tanto l’orchestrazione si era fatta trama evanescente di cristalli, come attraversata da rapidi lampi di luce, dove ogni tema, ogni timbro, ogni singolo strumento distillava il proprio messaggio. La sordina imposta alle tipiche eruzioni “colossal” (come le sei note del secondo tema di Jochanaan, raccolte in un virtuosistico e inatteso diminuendo) contribuiva a diffondere sulla partitura un respiro fresco, giovane, irresistibilmente moderno.
Dalla seconda parte, però, i nostalgici hanno tirato un sospiro di sollievo. Già l’interludio ritrovava clangori ecompiacimenti più tradizionali; il quintetto dei giudei (ammirevole per l’algebrica architettura) non ha evitato un fastidioso eccesso di suono (tanto che l’imposizione del silenzio da parte di Herodias è arrivata gradita). E, mentre i sette veli si sono fatti apprezzare per gli ammiccamenti e l’ironia, tutto il finale si è trascinato in un inutile ed estenuante turgore (da cui la Magee emergeva a stento, annaspando a filo d'acqua).
In tutti i casi, si è trattata di una Salome molto innovativa e quasi sempre inebriante.
VALUTAZIONE: 8
A incertezze e cedimenti non ha invece lasciato spazio Gardiner, nel suo Freischütz parigino: la sua era una rivoluzione annunciata e puntualmente compiuta.
Certo, il suo compito era più semplice: l’orchestra e il coro erano i suoi e un’incompatibilità estetica non sarebbe nemmeno immaginabile. Anche il repertorio è il suo: un Weber condito alla Berlioz è terreno di Gardiner ben più di quanto Strauss lo sia per Rattle. La stessa atmosfera a teatro lo favoriva: il pubblico giovane dell’Opéra-Comique si lascia deliziare dalle novità assai più dei monolitici “Amici” del Festival di Pasqua. C’era gioia a Parigi, fucili spianati a Salisburgo.
Ma anche ammettendo tutto questo, a Gardiner, alla sua Orchestra e al suo Coro non possiamo che attribuire il massimo dei voti: il loro è stato un Freischütz storico.
In qualche scantinato (su Internet e altrove) c’è ancora chi sostiene che i direttori britannici siano forbiti e pulitini ma poveri di senso teatrale: il loro ‘700 sarebbe incipriato, il loro ‘800 fiacco, il loro ‘900 ricondotto invariabilmente a Elgar e Britten.
Io ritengo al contrario che non esista al mondo un direttore con l’incredibile senso del teatro di John Eliot Gardiner.
Avendolo sentito tante volte dal vivo (in Verdi, Monteverdi, Berlioz, Britten, Janacek, Gluck, Chabrier) ho percepito che nulla gli interessa più del teatro: non di suscitare ammirazione da virtuoso(altrimenti non strapperebbe all’orchestra sonorità tanto aspre e sconcertanti), né di apparire raffinato (sentire come cavalca all’impazzata il finale dell’Ouverture o si diverte ai coloriti popolari del terzo atto).
Non gli interessa provocare e forse nemmeno innovare a ogni costo; persino il suo gusto per le ricerche d’archivio e il recupero filologico non sono un punto d’arrivo ma una continua sperimentazione di sonorità e vocaboli per raccontare sempre meglio le sue storie.
E’solo per questo che il suono è tanto importante per lui: gli serve per sorprendere l’ascoltatore, non permettergli di distrarsi, immergerlo in un vortice narrativo ed emozionale senza respiro.
In quest’ottica vanno letti l’accanimento gardineriano sui colori (la sofficità impalpabile degli archi, il sapore antico dei legni, l’urlo degli ottoni naturali), l’alchimistica geometria degli equilibri, la concentrazione sul più semplice accordo, la più banale cadenza, il più prevedibile ponte modulante: perché per lui non c’è suono e non c’è silenzio da cui non si debba spremere ogni possibile suggestione emotiva e narrativa, proprio come l’ultimo Toscanini.
Il suo amore per il teatro giustifica anche l'attrazione verso repertori distanti, desueti, magari popolari (sì a Chabrier, sì a Weill, sì a Lehar, no a Wagner e Mahler): l’emozione teatrale può nascondersi ovunque e non c'è nulla di più bello che scovarla fra gli stereotipi e le muffe di autori lontani da noi.
Dopo questo Freischütz, ennesimo miracolo di teatro musicale, Gardiner si riconferma, almeno per me, come il più eccitante cantastorie dell'odierno teatro musicale.
VALUTAZIONE: 9

REGISTI E ALLESTIMENTI
Ultimo nella classifica dei registi metto proprio Dan Jemmett, che ha diviso con Gardiner le responsabilità del Freischütz. La sua ambientazione in un suggestivo milieu circense-boschivo di metà ‘900 non mancava di fascino, ma senza particolari intuizioni.
Lascena era incastonata in una boccascena da circo itinerante, dai fregi di un liberty avvizzito; i fondali dipinti accentuavano il senso di mimesi passatista e nostalgica, così come il carrozzone-roulotte ancorato nel bosco in cui vivevano Annette, Agate e suo padre. Non è poi mancata un’efficacissima raffigurazione di Samiel, il Cacciatore Nero, con effetto alla King: un nano truccato da Clown.
VALUTAZIONE: 6
Non è tanto corretto, a fronte di tre nuove produzione, esprimere un giudizio su un Parsifal come quello di Konwitschny concepito nel 1995. Che risulti vecchio, superato e a tratti noioso è, in buona parte, attribuibile al tempo.
La ricontestualizzazione è in un futuro post-atomico; fra le pareti di un rifugio sotterraneo, all’ombra di un grande tronco riarso, i sopravvissuti sono intenti a ricostituire la civiltà e reinventarsi una “cultura” (come attesta il ben misero simbolismo di fogli di carta sparsi ovunque, attaccati all’albero e persino incollati al sipario, con la scritta – in diverse lingue – “redenzione al redentore”). E, dato che alla base della cultura vi devono essere i “miti”, al centro di questa comunità primitiva e maschilista si pone la donna, detonatore ancestrale di ogni mito, radice di ogni domanda e ogni paura dalla notte dei tempi.
Ovvio che l’ingrato compito spetti a Kundry, costretta a farsi carico di tutte le possibili responsabilità “mitiche” (bambina e madre, strega e amante, fonte di paura e oggetto di desiderio, Madonna e puttana), anche perché pare l’unica donna sopravvissuta (le fanciulle-fiore, più che esseri viventi, sembrano zombie squinternati, proiezioni olografiche di casalinghe abbruttite). Che il finale ci presenti Kundry (e non Parsifal) come redentrice e vittima sacricale, la lancia in mano, è in fondo molto coerente.
Il tutto, vent’anni fa, poteva risultare anche efficace: alcune intuizioni colpiscono ancora (l’assimilazione Amfortas-Titurel vestiti allo stesso modo e con la stessaoscena ferita nel pube). Ma oggi tanta ingenuità e lentezza sono più dure da digerire.
VALUTAZIONE: 7 (con riserva)
Secondi in classifica sono Moshe Leiser e Patrice Caurier (Comte Ory).
Premetto che non nutro particolari simpatie per questi due artigiani della finta provocazione, che si fanno belli delle intuizioni altrui e se la cavano con gags facili facili ogni volta che non sanno che pesci prendere (ciò che accade assai spesso).
E tuttavia, forse perché il Comte Ory, con le sue bizzarrie gaglioffe e surreali, si presta alle loro trovate, il risultato è stato molto superiore alle aspettative. Il primo atto, a dire il vero, non ha fatto scintille, tranne qualche buon momento come l’ingresso della Bartoli, ricca borghese romana che strombazza alla guida di una vecchia Diane 6 o come il corteggiamento all’interno della dondolante e oscena roulotte del conte.
E’ al secondo atto però che lo spettacolo ha preso il volo, nella calda atmosfera di una magione per ricchi, dove la Bartoli e le sue ancelle ricamano a tempo di musica e fingono la loro rettitudine, prima che l’orda deturpante delle finte suore smascheri simulati pudori e segrete prurigini. Tutto il finale dell’opera è stato una fra le realizzazioni comiche più godibili e riuscite che ricordi.
VALUTAZIONE: 7
E tuttavia il premio per la migliore regia se lo aggiudica Stefan Herheim, che a Salisburgo ci ha regalato la più trascinante, moderna, esplosiva, lettura del mito di Salome.
In una scenografia di impatto grandioso (menzione speciale a Heike Scheele) il regista norvegese, già noto per varie malefatte, ha elaborato una suggestiva metafora sulla reciprocità dello sguardo e sulle conseguenze apocalittiche che esso può generare.
Proverò a raccontarvi lo spettacolo, ma non sarà facile.
Partiremo con l’osservare che nel libretto si insiste moltissimo sull’azione del “guardare”: Salome guarda Jochanaan il quale non vuole essereguardato; nemmno Narraboth (che a sua volta guarda ossessivamente Salome, contro l’opinione del paggio) vorrebbe che Salome guardasse il Profeta; Herodias non vuole che il marito guardi Salome e Salome stessa si chiede perché il patrigno la guardi con tanta insistenza.
Ma soprattutto è Salome che, alla fine dell’opera, canta alla testa del Battista - su un tema lacerante - “se mi avessi guardato, tu mi avresti amata”.
Insomma, la questione non è irrilevante: il simbolo dello “sguardo” in Salome significa molto. Resta da decidere che senso vogliamo attribuirgli.
Facciamo un esempio. Prendiamo la Luna (immensa e onnipresente, tanto nel libretto, quanto nella regia di Herheim).
Chi di noi non ama guardarla? E’ un astro bellissimo e non ci fa paura: infatti è lontanissima ed inconsapevole che siamo lì a spiarla; è un oggetto e basta, indifferente al nostro telescopio. Possiamo guardarla come piace a noi, ovvero "superficialmente": non ci interessa sapere cosa si nasconde sotto la sua piacevole superficie. Ci piace solo perché è un oggetto superficialmente bello.
Ma soprattutto, come dicevo, non ci fa paura: non può infatti succedere che sia lei a guardare noi, ricambiando la nostra violenza. Siamo noi, al nostro telescopio, gli unici soggetti di questo sguardo NON reciproco! Solo noi siamo i padroni della situazione.
La stessa cosa accade quando guardiamo di nascosto una bella donna sconosciuta, una di quelle “Barbie” bionde e procaci da riviste patinate: la guardiamo senza che lei lo sappia, la spiamo, le ispezioniamo gambe e scollatura, mentre lei (indifesa perché inconsapevole) è ridotta a fungere da nostro “oggetto”.
Tutto questo funziona alla meraviglia finché lo sguardo non è reciproco; finché cioè c’è un soggetto (noi) e un oggetto (la luna e la Barbie).
Bene!
Cosa succederebbe però se, mentre ce ne stiamo tranquilli a fissare la Luna, essa improvvisamente spalancasse cento terribili egiganteschi occhi proprio su noi, piccoli, indifesi e sbigottiti?
Cosa succederebbe se la Barbie che di notte spiamo dalla finestra, mentre si spoglia, improvvisamente si voltasse e ci scoprisse, ci ficcasse addosso i suoi occhi pieni di disprezzo, puntasse il suo dito contro di noi?
Succederebbe che noi da soggetti, da padroni della situazione, diventeremmo oggetti, vittime dello sguardo altrui, che ci giudica, ci penetra come un coltello.
Tanto più che la Luna/Barbie, divenuta "soggetto" a sua volta grazie allo sguardo reciproco, non ammetterà più di essere guardata solo in superficie come piaceva a noi(le gambe, la scollatura): pretenderà di essere conosciuta per quello che ha dentro!
Insomma, vi chiedo: continuerebbe a piacerci guardare la Luna se la sua superficie (l'unica che ci interessi) fosse infranta? Se una voragine aperta a cannonate ci costringesse a vedere quello che c’è sotto la sua poetica apparenza!
Ricapitolando, la reciprocità dello sguardo non solo ci fa perdere il nostro statuto di “padroni della situazione” e ci trasforma in oggetti altrui, ma - quel che è peggio - ci costringe anche a capire l'altro, a scenderere sotto quella superficie che ci rassicurava e appagava.
Siamo disposti ad accettare tutto questo?
E’ disposto l'uomo che ha smesso di guardare sua moglie (e che volge il suo sguardo a oggetti, come la luna o le Barbie) a rimettere i suoi occhi in quelli della compagna, a vedere cosa c’è dentro lei e a farle vedere quel che è nascosto in lui?
I protagonisti dell’opera, in questo allestimento, sono un marito (Herodes e Narraboth, che fanno lo stesso personaggio) e una moglie (Herodias e il Paggio, qui in tutto e per tutto femmina). Il matrimonio è infelice proprio perché l’uomo rifiuta alla donna la reciprocità dello sguardo. Preferisce fissare la luna da un grande telescopio o una Barbie che gli cammina davanti.
Ma ecco che la Luna/Barbie prende vita: diventa il terzopersonaggio. Non le basta più essere spiata sotto la gonna ma vuole essere guardata negli occhi; e soprattuto vuole guardare lei stessa; vuole infilarsi dentro quella “cisterna” sigillata in cui l’uomo nasconde la sua più segreta verità (Jochanaan).
Ed ecco come sguardo e apocalisse diventano una sola cosa.
VALUTAZIONE: 8 (e forse qualcosa in più)

TENORI
Chi dice che oggi non ci sono più i tenori? In queste quattro rappresentazioni sono loro globalmente a essersi più distinti.
Il giovane americano Andrew Kennedy ha lasciato a Parigi un Max di tutto rispetto: la voce non è grande ma limpida e sonora, piacevole come timbro, brillante sugli acuti; la formazione (e qui lo volevo!) è schiettamente vocalistica, libera da ogni debito verso il posteriore declamato. Anche scenicamente Kennedy va al segno: persino certa voluta goffaggine, la stranezza di talune espressioni favoriscono l’idea anti-wagneriana di un semplice figlio del popolo, tutt’altro che eroico, uomo-medio da racconti del villaggio.
Kennedy non avrà cambiato la storia del personaggio, ma ci ha indicato la strada giusta per il futuro.
VALUTAZIONE: 7
Buona impressione ha lasciato anche Stig Andersen, fiero heldentenor di alcuni anni fa, oggi appesantito dall’età e dai tormenti dei grandi eroi wagneriani di cui è stato specialista. Il suo Tetrarca a Salisburgo non è né regale né eroico; è un uomo ricco di convinzione e dignità che sente svanire, con la consuetudine e gli anni, la propria voglia di vita.
VALUTAZIONE: 7
E’ normale fare bella figura nel personaggio di Narraboth, ruolo corto, riposante, ma irresistibilmente simpatico: se poi si è belli, giovani e con timbro d’argento il pubblico ti adorerà come ha fatto con Pavol Breslik, la cui magnifica voce cavalca senza problemi i marosi dei Berliner; grande cantante e grande attore, Breslik trasforma il capitano siriano un vero protagonista.
VALUTAZIONE: 8
NikolaiSchukoff (Parsifal a Monaco) riesce spesso simpatico perché mette sempre in ciò che fa il massimo impegno ed entusiasmo; tuttavia non sempre l’impegno e l’entusiasmo sono sufficienti. In genere trovo la sua recitazione eccessiva e manierata, perché più soggetta alla sensibilità che all’analisi; la sua espressività vocale, nonostante il bel colorito bronzeo, appare poco schietta e virile, come compromessa da un istinto opposto, fortemente anti-eroico. Persino il suo aspetto fisico, atletico sì, ma troppo debitore “ai bei sudori” della palestra, non aiuta a farlo prendere sul serio. E’ raro insomma che Schukoff realizzi veri capolavori interpretativi, e tuttavia quando affronta Parsifal tutti i suoi limiti diventano la chiave per un’interpretazione semplicemente ideale.
Il candore espressivo, il febbrile agitarsi, il timbro giovane e metallico, la mimica esagerata, ciclotimica, insomma tutto ciò che è Schukoff si trasfonde in un Parsifal incredibilmente sfumato, seducente e insicuro che esplode di freschezza e che risulta tanto credibile nell’ascetismo triste del terzo atto quanto nell’irruenza folle del primo. Quel che ne esce è il più grande Parsifal del nostro tempo. Inoltre i dialoghi fra lui e la Denoke (anche quello di sguardi, sconvolgente, al terzo atto) sono da segnare negli annali del Teatro d’Opera.
VALUTAZIONE: 8
Anche a Javier Camarena, Comte Ory, attribuisco un 30 e questa volta, lo ammetto, non me lo aspettavo: Dopo l’Elvino futile e assonnato dell’anno scorso a Parigi, mi ero preparato a trovare una specie di paggetto della Bartoli e invece mi si è parato davanti un personaggio vigoroso e corrosivo. Anche senza contare il piacere dei sopracuti svettanti e delle mezze voci suadenti, il suo conte è stato un’esplosione di cattiveria coatta, intelligenza cialtrona e trascinante gusto del trash. Non è strano che i registi lo abbiano orientato alla caricatura (non fosse che per l’ aspetto tarchiato e irsuto), non mi aspettavo però chedalla caricatura lui traesse un indimenticabile miscuglio fra Don Giovanni e Er Monnezza, epicureo da balera, non privo di titanica esultanza.
Intendiamoci: Camerena non è e non sarà mai una risposta convincente al “quid” Nourrit, eppure il suo Ory è assai più convincente di quell’impostura per ziette che è il rassicurante “enfant gaté” di Florez .
VALUTAZIONE: 8


BASSI E BARITONI
Qui le cose sono andate peggio: Oliver Widmer è, come sempre, volenteroso ma come Raimbaud del Comte Ory non ha nulla da dire.
Anche se nella Mitteleuropa non l’hanno ancora capito, è finita l’era dei tuttofare.
Lo stesso Chausson, artista che gode di tutta la mia simpatia, scambia il Governatore per una comparsata, da giocarsi con simpatia e genericità d’accento. Inutile, nemmeno a Zurigo i cast li sanno fare.
Capisco poi che Ottokar sia un personaggio monolitico e di scarso spessore, non di meno la presenza di Robert Davis passa come acqua fresca senza che nemmeno ci accorgiamo di lui.
Ben diverso sarebbe l’impegno connesso a un personaggio come Klingsor: la scarsa incisività di John Wegner è dunque anche meno scusabile.
VALUTAZIONE COMULATIVA: 6 stentatissimo
Nemmeno di Iain Peterson, Jochanaan a Salisburgo, sono stato soddisfatto. A irritarmi (oltre alla modestia dell’esecuzione) è l’idea che, persino là dove si sbandierano sfide alla tradizione, come nell’Osterfestpiele di Rattle e Herheim, non si riesca a uscire dallo stereotipo di affidare il battista a un “BassBariton” enfatico e maturo.
Questa tipologia stilistico-vocale (che del ruolo può esaltare solo l’aspetto meno interessante: il trombonismo profetico) si scontra regolarmente con i numerosi slanci all’acuto, il lirismo delle frasi più ispirate, ma soprattutto con la psicologia del personaggio, la cui sensibilità virginea, indifesa e lunare è ampiamente sottolineata dal libretto (con immancabile ilarità del pubblico quando Salome neesalta le grazie). E passi se l’Helden BassBariton di turno si chiama Hotter o Terfel, ma Petersen, che in altri ruoli potrebbe fare migliore figura, qui è solo il solito Jochanaan che tira negli acuti, pontifica quando può e che non dà alcun senso al personaggio.
VALUTAZIONE: 6 stentatissimo
Passiamo ora ai “grandi”, premettendo però che, anche nel loro caso, le delusioni sono state più del previsto.
Nel capitolo delle delusioni parto col Gurnemanz di Youn. Che sia uno dei migliori bassi di oggi è fuor di dubbio; e anche che disponga di un’umanità toccante (il suo “Ella giammai m’amò” è il più emozionante che abbia sentito dal vivo). La sua voce è bellissima, vellutata, paterna, carica di dolcezza; peccato che la sua tecnica, più vocalista che declamatoria, e la sua mancanza di vero bernoccolo interpretativo finiscano per renderlo noioso come Gurnemanz. Quando il resto del cast è traballante, un Gurnemanz piacevole come il suo è una consolazione (come a Bayreuth l’estate scorsa); ma quando – come a Monaco – Youn è circondato da giganti, passa inosservato.
VALUTAZIONE: 7
Micael Volle è l’opposto; è un declamatore raffinatissimo e interprete di vera sensibilità. In teoria pochi personaggi possono valorizzarne la grandezza quanto Amfortas, a meno che – proprio come è successo a Monaco – non lo si costringa a infilarsi in una regia concepita – sedici anni prima – per un interprete completamente diverso come John Brocheler, esteriore, agitato e ridondante. Che amarezza dover sentire un grande poeta come Volle costretto a deporre i suoi pianissimi, i suoi respiri, i suoi sguardi carichi di umanità, per una gestualità grandguignolesca che non gli appartiene, fra effetti splatter e contorsioni a fondo scena. Bravo lo è stato comunque, ma assolutamente non quanto mi sarei aspettato
VALUTAZIONE: 7
Alla fine la sorpresa più gradita mi è arrivata da Gidon Saks, Gaspard nel Freischuetz di Gardiner, ruolo in cui ho rivissuto lemedesime sensazioni che un paio di anni fa Saks mi aveva ispirato in Hagen a Venezia, nell’allestimento di Carsen.
La sua voce è incredibilmente sonora: sulle prime ti stende. Strada facendo però comincia a sfilacciarsi, soprattutto nel registro grave, tanto che ti chiedi se sia veramente un basso. Inoltre il suo declamato è talmente sovraccarico da sembrare scomposto e guittesco.
Alla fine però, e nonostante le legittime perplessità, le sue interpretazioni lasciano il segno. La cosa curiosa è che persino la sua vulnerabilità vocale, il senso di afonia che lentamente ne intacca la voce, concorrono a esaltare l’originalità dei suoi approcci.
Il fatto è che Saks alle prese con i ruoli “cattivissimi” riesce a strappare qualcosa di stranissimo e sconvolgente: più che mostri, più che servitori del male (o meglio, oltre a questo) egli ne fa dei condannati, vittime miserevoli e oscene dalla loro stessa infelicità.
La convinzione con cui urla la sua paura, la sensazione di affondare nel male senza che nessuno gli tenda la mano, è un’esperienza indelebile: pur con tutti i limiti suddetti, il suo Gaspard è un monumento alla disperazione e alla solitudine dei cosiddetti “cattivi”.
VALUTAZIONE: 7 (anzi, un pelo di più).

LE PRIMEDONNE.
All’ultimo posto metto l’Isolier di Rebeca Olvera, semplicemente fuori repertorio.
Tutto sommato Anna Schwarz è un Herodias ancora ammirevole, impressionante nel registro centrale (gli acuti sono un ricordo) e valorosa scenicamente. E tuttavia a sessantotto anni si dovrebbe guardare ad altri ruoli.
VALUTAZIONE PER ENTRAMBE: AL PELO DEL 6
Non mi è piaciuta affatto nemmeno Emily Magee, Salome.
Intanto non mi capacito di come si possa ancora affidare la principessa giudea a una categoria vocale (il soprano Jugendlich-dramatischer) a quale ormai da decenni era stata sottratta. Sarebbe interessante chiedersi se tale categoria gloriosa in altri tempi (e di cui la Mageenon si sa perché è divenuta reincarnazione, tanto che ce la ritroveremo alla Scala come Kaiserin) abbia ancora ragione di esistere, ma assolutamente non funziona in Salome, che non ha bisogno di vocalità mature e corpulente, ma di timbri chiari e luminosi, audaci “colorismi”, suoni aspri e verdi come quelli dell’adolescenza. Oltre a tutto questo, la Magee è, come al solito, assi poco incisiva nell’accento, ordinaria nella recitazione, limitata nella dinamica e clamorosamente a disagio nei gravi.
VALUTAZIONE: 6 (solo perché sono generoso).
Molto gradevole Sophie Karthäuser come Agathe a Parigi. E’ carina d’aspetto, sa muoversi, canta con gusto e, nella seconda aria, non delude nelle filature; e tuttavia non risulta particolarmente ispirata o rivelatrice.
VALUTAZIONE: 6
Più incisiva, nello stesso allestimento, è l’Annette di Virginie Pochon, che dispone di ragguardevole presenza, vocalità non speciale ma brillante. Notevole la sua capacità di arricchire l’unidirezionale comicità del ruolo, che potrebbe risultare stucchevole, con venature tragiche.
VALUTAZIONE: 7
E ora passiamo ai pezzi da novanta.
Cecilia Bartoli realizza in Adèle una delle più complete riuscite sua carriera. Che sarebbe stata perfettamente a suo agio vocalmente e iperbolica a livello virtuosistico si sapeva anche prima; più sorprendente è stata la sinergia drammaturgica con un ruolo scritto per la Cinti-Damoureau, il primo della sua carriera.
E non è che la Bartoli abbia fatto scenicamente più cose del solito: era sempre lei, con la sua mimica artefatta, la sua presenza contemporaneamente disinvolta e goffa, il suo aspetto un po’ casalingo e un po’ gran Diva. Eppure qui tutto era perfetto non tanto per la definizione psicologica del personaggio, quanto (cosa assai più importante) per la sua funzione teatrale.
E su questo punto si impone una piccola riflessione sui ruoli Cinti e la loro funzione nel Grand-Opéra alla Scribe.
LaBartoli passa per non essere una grande interprete, e in effetti non lo è nel senso comune del termine: per grande interprete infatti noi intendiamo quello “dinamico”, che sa descrivere le evoluzioni psicologiche del personaggio e imprimere tensione allo spettacolo. La Bartoli questo non lo sa fare: la sua arte espressiva (che c’è, eccome se c’è) si concentra in una stratificazione di effetti sonori (bellissimi e spesso rivoluzionari) che danno più la sensazione dell'accumulo che del movimento. Il suo pionierismo, la sperimentazione “coloristica” che sconcerta i tradizionalisti, la frammentazione della frase musicale, persino la mimica spesso assurda potrebbero anzi dimostrare che si avvede del proprio limite e tenti di porvi rimedio moltiplicando gli effetti per simulare il dinamismo.
Un interprete davvero dinamico era il tenore Adolphe Nourrit, creatore del Comte Ory nonché modello di tutto il Grand-Opéra. I personaggi immaginati per lui (Masaniello, Robert di Normandia, Arnould, Raoul, Helazar) sono i motori delle rispettive opere: e non solo perché agiscono, prorompo, non si fermano mai, ma anche per la loro instabilità psicologica, emotiva, morale.
Un’opera di dimensioni ridotte può anche concentrarsi sul dinamismo del protagonista; un Grand-Opéra di quattro o cinque ore no.
La sua architettura può sostenersi solo con un sistema di pesi e contrappesi, di spinte dinamiche e ancoraggi statici. L’impulso ipercinetico scatenato da Nourrit va bilanciato ed è questa la responsabilità che Scribe affida alla Cinti-Damoureau, specializzata in un’espressività opposta, “magnetica”, che le consentiva di bloccare la corsa degli eventi planando come un macigno sull’azione e di ricondurre il pubblico a oasi di stabilità morale e narrativa.
E’ un compito delicato che richiede personalità affermatissime. Guai a confondere questa espressività “statica” con la non inespressività!
Per fare un esempio letterario, l'espressività della Cinti ècome quella di un narratore che, nel suo romanzo, dopo una lunga serie di eventi e colpi di scena, piazzi dieci pagine puramente descrittive, in cui nulla succede, senza per questo annoiare il lettore.
Cecilia Bartoli questo segreto lo conosce. Lei non è fatta per il movimento (anche quello psicologico), ma per cristallizzarlo. Normale che preferisca il concertismo al teatro o il CD monografico all’incisione di un’opera intera!
Questo spiega la sua vocazione per il Barocco: quante cantanti riescono, come lei, a tenere sospeso il pubblico per venti minuti di un’aria tripartita, senza farlo respirare, facendogli scordare che non sta succedendo nulla?
Quante cantanti (figuriamoci la Damrau!) potrebbero entrare alla fine del primo atto del Comte Ory - con un pubblico già esausto dalle giravolte del tenore - e riportare a mille l’attenzione solo alzando un sopracciglio? Quante, per tornare alla metafora letteraria, potrebbero come lei (o come la Cinti) diffondersi in dieci pagine di pura descrizione senza che il lettore perda una parola?
Se la Bartoli si rendesse conto di non essere l’interprete “dinamica” che ci vuole per Semele e Fiorilla, Amina e Cleopatra, Nina e Donna Elvira e imparasse a sfruttare (a fini teatrali) la sua poderosa forza magnetica avremmo trovato la più grande catalizzatrice di emozione “statica”. Dopo questo Ory, mi ritrovo a sognare una sua Elvira nella "Muta di Portici", una sua Isabella del "Robert le Diable" e soprattutto una sua Matilde del "Guillaume Tell", una "Dame Blanche", una "Ambassadrice"...
E magari anche un bel CD dedicato alla Cinti.
VALUTAZIONE: 8 (e anche di più)
Angela Denoke: ecco, lei sì è un interprete “dinamica”: tanto dinamica che, quando entra lei anche nello spettacolo più slentato e interminabile, tutto si mette a correre e vorticare all’impazzata… e ti ritrovi alla fine del secondo atto del Parsifal che ti sembra siano passati cinque minuti.
E’ tale il suotrasformismo che, se non fosse governato da un granitico rigore artistico, rischierebbe di appagarsi di sè. Per fortuna non è così: dietro a ogni interpretazione della Denoke c'è una capacità di analisi fuori dal comune, che le permette di reinvetare il personaggio, ingombrarlo di significati inauditi, contraddittori, disarmanti per la loro verità.
Più di altri personaggi in cui l'ho ammirata dal vivo (la Marescialla, Elina Makropulos, Marietta), Kundry è il ruolo della sua vita, perché quello che più le consente di esplorare ogni anfratto del mistero femminile e rivelarlo con un misto di sacralità e impudicizia.
Le contraddizioni della dannata si compongono in lei con una naturalezza che non sembra possibile: redenzione e peccato, maledizione e santità, sapienza e istinto, il calore materno che esplode dalla dolcezza dello sguardo e una carica di sessualità talmente potente e spaventosa che mette a disagio.
Persino i lineamenti irregolari del volto, persino le strane deformità della voce (che nel medium svolge velluti di tenebra, poi sale fra chiarori spettrali e si arroventa in acuti gridati, bagliori di tempesta) si fanno strumenti di complessità.
La nostra è un’epoca di grandi Kundry (la Meier e la Herlitzius ad esempio), ma ciò che la Denoke compie in questo ruolo è qualcosa che trascende ogni possibile confronto.
VALUTAZIONE: 9

Matteo Marazzi

Categoria: Editoriale

 

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