Domenica, 28 Luglio 2024

Editoriale: La nuova stagione della Scala fra innovazione e... mancati pensionamenti

Aggiunto il 19 Aprile, 2011

Sì, lo so, non abbiamo prodotto un commento a caldo: abbiamo preferito rifletterci un po’ su.
Dopotutto, è esattamente quello che chiunque si aspetta da noi: una riflessione serena. Per le boutades e le sparate “di panza” sarà meglio rivolgersi altrove: non mancano, né in Rete né sulla carta stampata.
Ma adesso, dopo un po’ di riflessioni e di chiacchierate fra di noi, possiamo dire che la stagione scaligera prossima si caratterizza nettamente di più rispetto a quella che l’ha preceduta. Ha un marchio, un segno, il che va benissimo anche se con qualche distinguo che proveremmo a mettere in ordine.
Certo, ci sono anche delle critiche importanti da fare, e penso che sia giusto che la sovrintendenza del Teatro le rilevi visto che – a quanto sembra leggendo l’elenco dei registi convocati – ci leggono con discreta attenzione...
Ma andiamo per ordine.

Il ritorno dei cantanti di rango

Salutiamo con gioia il ritorno o il primo arrivo, alla Scala, di cantanti che sinora mietevano successi ovunque fuorché a Milano. Segno che la Scala sta recuperando prestigio agli occhi del mondo che conta grazie, finalmente (ed era ora), a produzioni degne di tal nome e ben allineate allo standard internazionale.
Ci piace sottolineare, in questo momento, che questa è la risposta esatta alle critiche motivate che abbiamo sempre fatto alla gestione del Teatro, e che puntavano a un unico scopo: l’uscita dal provincialismo culturale che il Teatro si portava dietro dai tempi autoreferenziali della gestione Muti. Ora ci sembra evidente che Lissner abbia dato un chiaro segnale di svolta.
Da questo punto di vista, ci sembrano particolarmente esemplificativi tre titoli.

Innanzitutto, inevitabilmente, l’allestimento su cui saranno maggiormente puntati i riflettori: il Don Giovanni inaugurale, in cui gli unici due aspetti fuori luogo sembrano essere il titolo (già trito e ritrito al Piermarini) e il direttore che– almeno sulla carta – non ci sembra particolarmente intrigante per un’operazione del genere. In compenso abbiamo: la regia di Carsen in una nuova produzione; l’Anna della Netrebko (!); l’Elvira della Garanca (!!); il Don Giovanni di Mattei (!!!); il Leporello di Terfel (!!!!); e persino il Commendatore di Youn! Questo è un cast assolutamente all stars, in tutto e per tutto degno di un’inaugurazione che voglia ammantarsi del ruolo di Evento, che va davvero a pescare il meglio che c’è in giro per proporre qualcosa che esca dalla solita bassa routine di un teatro che da tanto, troppo tempo aveva perso mordente.
Ciò che maggiormente ci soddisfa in un’operazione del genere è l’evidenza che il Teatro ha lavorato duro sulla programmazione: non è facile assemblare un parterre royale del genere. Se ci è riuscito, chapeau: evidentemente Lissner – o chi per lui – ha lavorato molto meglio di quanto noi pensassimo, gliene rendiamo atto; ed è giusto fare onesta autocritica. Ma c’è un altro aspetto che sottolineerei: il fatto che i cantanti, evidentemente e come da noi di Operadisc già sostenuto, se ne fregano dei rischi di fischi e altre iniziative idiote del genere. I fischi ci sono dappertutto, perché dappertutto ci sono i quattro guitti squinternati che pensano di essere depositari della Verità. Evidentemente invece Netrebko, Garanca e co. hanno la consapevolezza di trovarsi calati in un contesto qualificante: ci può stare anche qualche beceraggine non propriamente estemporanea, visto che c’è già chi sta lucidando i fischietti a prescindere. Ma, come abbiamo sempre sostenuto noi, poco male: i fischi alla Scala ci sono sempre stati; quello che mancava era la qualità. Se c’è il fischio nel contesto di uno spettacolo degradante e decadente, questo può ledere all’immagine del cantante perché il Teatro ha ancora una parvenza di nome; se invece siamo nel contesto di uno spettacolo di alto livello, le cose cambiano eccome. E quando c’è la qualità, in questo casorappresentata più che dai cantanti, dal modo in cui sono assemblati, e ovviamente da una regia che è garanzia, si può mettere tranquillamente in conto di dover fronteggiare lo scontento di chi pensa di saperla lunga: insomma, quello dei fischi non sarà assolutamente un problema.

Il secondo spettacolo che sembra presentare un’attrattiva assolutamente outstanding è il “Peter Grimes” con la regia che immaginiamo catalizzante del geniale Richard Jones e la presenza di Ainsley, della Gritton e della veterana Palmer nei panni della zietta. Non è che sia propriamente un’audacia proporre il capolavoro di Britten alla Scala: lo è solo per lo spettatore che vive tuttora solo di Puccini e Verdi (fra i melomani italiani esiste ancora una discreta falange di questi renitenti) e che pensa che Britten sia esponente di qualche strana avanguardia. Stupirà inoltre lo spettatore medio la presenza di Robin Ticciati sul podio, ma questo depone a favore di una dirigenza che non si accontenta di scritturare quegli artisti che sono maggiormente sulla bocca di tutti, preoccupandosi piuttosto di studiare le tendenze in modo da creare un parterre in grado di rappresentare tutto il meglio che c’è in giro. Ticciati, già più giovane direttore a salire sul podio del Festival di Salisburgo, è anche stato presenza fissa a Glyndebourne.

Il terzo spettacolo è, ovviamente, la Frau ohne Schatten. Qui ci aspettiamo davvero tantissimo dalla fantasia sfrenata di Claus Guth, l’altra cuspide di quella terna di registi (gli altri essendo, ovviamente, i già citati Carsen e Jones) che sta facendo impazzire tutti gli appassionati con spettacoli geniali e rivoluzionari, che stanno cambiando proprio il nostro gusto di fruitori. Meno attraente – ovviamente sulla carta – la parte musicale che presenta in buca Bychkov e una coppia di imperatori come Botha e la Magee; siamo però curiosi di sentire Elena Pankratova, altra cantante di cui si parla tantissimo, che sarà la Tintora nellacoppia “terrestre” assieme al grande Falk Struckmann.

Ci sarebbe naturalmente anche la Manon, ma qui siamo un filo più freddini: non giudichiamo una grande pensata innovativa quella di allestire una Manon per far tornare a Milano – ed era doveroso – l’immensa Natalie Dessay. Ma tant’è: ci accontentiamo, anche se la Scala arriva su questo fronte in colpevole ritardo; e, d’altra parte, meglio tardi che mai. È invece interessante l’accoppiata con Polenzani e la regia di Pelly, interprete (quasi) mai banale e che ha sempre un feeling particolare con la Dessay.
Nel resto dei cast, salutiamo con soddisfazione l’arrivo di Lance Ryan, uno dei più importanti interpreti di Siegfried del nostro tempo, che sarà protagonista della seconda giornata del Ring con Juha Uusitalo, affidabile e solido Wotan/Wanderer. Brunnhilde sarà ancora Nina Stemme: non il nostro ideale in questo ruolo, l’abbiamo già detto, ma è una grandissima protagonista dei nostri tempi e ha dimostrato un’eccellente intesa con Barenboim: saremo felici di riaccoglierla a Milano. Peccato per la modestia della produzione

Il ritorno dei registi

Robert Carsen, Richard Jones, Claus Guth, Laurent Pelly: mancano David McVicar, Dmitri Tcherniakov e Willy Decker e poi ci sono proprio tutti i grandissimi! E, come ognuno può vedere sfogliando il nostro sito, tutti registi che già da tempo sponsorizziamo noi di Operadisc. Non che ci voglia tanto, intendiamoci: basta un minimo di attenzione alla scena internazionale. Interpretiamo anche questo aspetto come un chiaro segno della volontà della dirigenza scaligera di uscire dal provincialismo di basso profilo in cui s’era cacciata ancora ai tempi di Muti, con l’interminabile sequenza di De Ana, Pizzi e Ronconi.
È inutile stare a cincischiare: solo nelle scaramucce di retroguardia culturale si può affermare che la regia non conta. La regia conta, eccome, e per due buoni motivi: primo, perché è stata proprio lamagnificazione della regia sin dagli Anni Cinquanta (si pensi per esempio a quanto avveniva nell’immediato Dopoguerra a Bayreuth e, in Italia, a Visconti e De Lullo) a cambiare il modo di raccontare l’opera mediante il capillare lavoro svolto dai registi sui cantanti; secondo, perché con il progressivo affermarsi del mezzo audiovisivo sul solo audio, c’è la possibilità di documentare, con questo aspetto fondamentale, la completa interpretazione di un lavoro teatrale.
Ma non ci sono solo i grandissimi, come abbiamo visto; come per gli altri aspetti musicali, anche su questo fronte c’è da rilevare la volontà della Scala di fare tendenza, di raccontare quello che c’è in giro anche di non così famoso e travolgente.
C’è per esempio Mario Martone, che è stato l’unico a dare buone sensazioni nella fallimentare accoppiata verista Pagliacci/Cavalleria rusticana di quest’anno.
C’è Luc Bondy, un altro che si fa sempre vedere perché – pur non essendo un rivoluzionario della sua Arte – è uno che ha quasi sempre il senso di quello che racconta.
E c’è anche qualche topica, purtroppo clamorosa.
C’è ancora, ahinoi, Zeffirelli: e lo diciamo con un mezzo sospiro di rassegnazione. Il “mezzo” è dovuto alla strana decisione del teatro di ripristinare per Aida l’allestimento del 1963, anziché l’ultimo orribilmente kitsch che, oltre a essere pacchiano in modo insopportabile, creò non pochi problemi all’udibilità dei cantanti. La regia del 1963 comporterà l’utilizzo dei vecchi fondali dipinti, il che ridistribuirà voci e suono orchestrale in modo sensibilmente diverso rispetto a quanto siamo abituati attualmente, e questo potrebbe creare qualche problemuccio. Vedremo. L’altro spettacolo di Zeffirelli è – pare incredibile – la decrepita Bohème, ormai vecchia di cinquant’anni. Ne parliamo più sotto perché merita qualche considerazione più dettagliata.
E c’è ancora, ahinoi, Guy Cassiers, la cui visione del monumentale Ciclo wagneriano è da dilettanteallo sbaraglio e che, alla fine, tirando le somme, getterà una pesante ipoteca sulla complessiva riuscita di un allestimento che, pure, non fosse che per l’esordio di una grandissima come Nina Stemme, avrebbe meritato qualcosa di più. Qualunque tedesco dell’ex Oltrecortina come Dorst (senza arrivare a citare Kupfer, su un altro pianeta rispetto a entrambi) avrebbe saputo fare meglio.

La dequalificazione del repertorio italiano

Prosegue invece, purtroppo e nonostante tutto, la dequalificazione del repertorio italiano.
C’è la già citata Aida che suscita curiosità per la ripresa di un allestimento vecchio di cinquant’anni, ma con un cast bizzarro e sbilanciato, fra vecchiume ideologico (vedi alla voce Amneris: non si sa cosa sia peggio fra la D’Intino e la Cornetti), necessità di rafforzare un cast fisso del teatro (Dyka e Welber) e il nuovo che avanza, qui rappresentato da un tenore spagnolo che nel 2004 ha vinto il concorso Julian Gayarre e di cui sappiamo che ha un repertorio da lirico spinto.
C’è una Luisa Miller la regia di Martone e la direzione di Noseda, il cui cast ci sembra raccogliticcio intorno alla presenza nient’affatto catalizzante di Marcelo Alvarez, tenore di nessuna attrattiva che non sia quella epidermica della bella voce, peraltro – a dirla tutta – non più fulgida come qualche anno fa né mai supportata da intenzioni interpretativa che vadano oltre il coté larmoyant.
C’è la riproposizione della Tosca di quest’anno con un cast più scombinato rispetto al precedente: viene riprogrammata – come già l’anno scorso, e salvo nuove defezioni – Martina Serafin, ancora alternantesi con Oksana Dyka; il tenore è purtroppo ancora Alvarez, che chiaramente nel nostro immaginario prende il posto non già di Kaufmann, bensì di Marco Berti; e c’è un’accoppiata scellerata di Scarpia in cui è difficile scegliere. E non in senso buono.
C’è l’ennesima Bohème di Zeffirelli, che sembra riscattarsi solo edesclusivamente per la proposizione di due coppie Mimì/Rodolfo di un certo (non straordinario, sia chiaro) interesse: Netrebko/Beczala e Gheorghiu/Grigolo; e, direi, anche per la presenza del bravo Capitanucci e di Cassi, quest’ultimo autore di una buona prova come Silvio nei Pagliacci.
E c’è, infine, l’ennesimo Rigoletto che si segnala non tanto per la nuova produzione, ma per essere il primo da tempo immemorabile senza Leo Nucci. Alleluia. In compenso c’è però una coppia in cui, una volta di più, non sapremmo chi scegliere, anche se Lucic si sta progressivamente impossessando di questo personaggio così difficile.

Il minimo che si possa dire di un programma “italiano” di questo genere, è che nessuno ha voglia di farlo, che lo si fa proprio perché si deve e che lo si mette insieme in una qualche maniera per soddisfare l’esigenza di “panem et circenses”. Rispetto agli altri spettacoli di cui abbiamo parlato sopra, è evidente un assai minore impegno nel cercare l’interprete qualificato che cambi le carte in tavola e che trasformi l’occasione in un evento.
Non conosciamo le ragioni di tale scelta ma, se c’è ancora traccia di provincialismo nella programmazione scaligera, è proprio nella scelta dei titoli “italiani” e nel loro allestimento.
Pensionare finalmente il Rigoletto di Nucci è, con tutto il rispetto per il grande Leo, doveroso; sostituirlo con Gagnidze è incomprensibile.
Sostituire il Cavaradossi di Kaufmann con quello tumido ed erettile di Alvarez è una palese diminutio: è tornare indietro anni luce nella scala evolutiva.
Meglio sarebbe – come già sostenuto da anni su Operadisc – prendersi almeno un anno sabbatico senza Puccini, senza Verdi e, possibilmente, senza dittici o trilogie nazional-popolari. Questo permetterebbe agli spettatori di “disintossicarsi” da un’overdose di titoli che il pubblico conosce anche capovolti e per i quali l’offerta scaligera non ha, al momento, nulla di veramente interessante daoffrire; consentirebbe alla Sovrintendenza di concentrarsi maggiormente su altri titoli anche italiani ma meno rappresentati; obbligherebbe infine una flangia di spettatori che aspetta solo la Tosca per fischiare Oksana Dyka, a fare un piccolo sforzo per documentarsi su un altro lavoro meno conosciuto.
Varrebbe infine la pena di produrre uno sforzo maggiore su certo repertorio che, alla Scala, è stato toccato solo di sfioro anche in tempi recenti: penso al Barocco, per esempio, che offrirebbe sul fronte musicale e su quello registico materiale sufficiente per creare una “scuola” scaligera se, come sembra, il Teatro avrà voglia di farsi un proprio parterre di interpreti cui attingere.

La necessità di mandare in pensione alcuni spettacoli

E veniamo al vero punto dolente della stagione: la riproposta delle Nozze di Strehler e, soprattutto, della Bohème di Zeffirelli.
Spettacoli importanti? Sì, certo, niente da dire. Hanno segnato la storia della rappresentazione teatrale, così come centinaia di altri in tutto il mondo che, non per questo, sono ancora in repertorio.
Sono belli, anzi, di più: sono fighi, come i capelli di Elio in una celebre canzone. Ma adesso basta: il mondo ci ride dietro di fronte all’ennesima riproposizione di uno spettacolo come la Bohème di Zeffirelli riproposta dopo cinquant’anni.
Si ha paura del confronto? Allora ragione in più per mettersi in sabbatico per un po’, così gli spettatori perennemente incazzati se ne dimenticano, anche perché costretti a studiarsi qualcos’altro.
Si pensa di non riuscire a fare nulla di meglio? Allora non si dovrebbe fare questo lavoro.
Ci si rende conto di quanto suonino anacronistiche le Nozze di Strehler di fronte, per dire, a quel capolavoro intrigante e complesso che è l’allestimento di Guth a Salisburgo? Non sarebbe meglio “pensionare” lo spettacolo proprio anche per rispetto nei confronti dell’autore, allo scopo di evitare sgradevoliconfronti con chi lo ha sorpassato anagraficamente?
Certo, l’obiezione potrebbe essere che certi capolavori siano immortali; ci spiace, ma noi non la pensiamo affatto in questa maniera.

Alla fine siamo soddisfatti?
Sì, complessivamente pensiamo che la Sovrintendenza abbia lavorato seriamente proponendo una stagione - sulla carta – di notevole interesse.
Lissner ci ha piacevolmente sorpresi rispondendo al meglio alle nostre critiche di provincialismo.
Continuiamo però a pensare che ci sia ancora molto da lavorare su certi aspetti come il repertorio italiano che merita qualcosa di più e meglio dell’esposizione di quattro peli sul torace

La redazione di Operadisc

Categoria: Editoriale

 

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