Sabato, 23 Novembre 2024

Editoriale: Diodistragi - di Pietro bagnoli

Aggiunto il 07 Dicembre, 2010

Diciamocelo onestamente: non ce n’è una che sia andata per il verso giusto, stasera.
Vien quasi malignamente da pensare che le maestranze abbiano fatto apposta a montare il peggior spettacolo possibile con le risorse a disposizione; o che, in alternativa, qualche spiritello maligno abbia scagliato un anatema per far riuscire tutto male.
Dal tenore afono e stonato, alla regia talmente scombinata da non fornire allo spettatore una chiave interpretativa che sia una (ci ha pensato Cassiers nell’intervallo), dalla Stemme inadeguata alla bisogna alla Meier “nonna Sieglinde”, vocalmente in difficoltà pur se ancora affascinante, da Kowaljow fermo al progetto di Wotan a Tomlinson ancora carismatico, ma tonitruante e volgare, dalla direzione arruffona e priva della definizione dei piani sonori di cui pure la partitura sarebbe piena, ai sottotitoli della diretta televisiva che non entravano mai al momento giusto e che sembravano fatti con le buffe traduzioni letterali di google.
Non ho nessuna intenzione di riempire un’articolessa facendo un compiaciuto elenco di cose andate male: è uno sport che non amo particolarmente, anche se ormai è diventata una poco piacevole consuetudine conseguente e direi quasi correlata al rito di Sant’Ambrogio. Basterà sottolineare la totale – dico: totale – assenza di emozioni in una rappresentazione che scorre nella noia e nell’indifferenza: e ce ne vuole per rendere noiosa una Walkiria!
Dicunt del Wagner di Bayreuth e del suo avvitarsi su se stesso sino alla prossima estinzione (ma, analogamente ai testimoni di geova, non ci dicono quando né come); tradunt che Cosima abbia estremizzato l’espressione declamatoria a nocumento del canto come dovrebbe essere, ma non ci spiegano perché il Colle detti ancora legge in questo campo; ferunt che la tradizione di Bayreuth, le sue regie “tedesche” ed astruse, il modo di cantare che – per le orecchie ipersensibili dei detrattori – ormai si è corrotto in modo inguaribile, hannodefinitivamente rovinato il modo di eseguire Wagner. Va bene. E allora dobbiamo invece rivolgerci speranzosi a “questo” modo di interpretare Wagner? Questo sarebbe il Wagner internazionale, erede della tradizione delle Flagstad e dei Melchior, delle Lubin e degli Urlus, dei Journet e dei Borgatti? Questo sarebbe il figlio del Wagner “non-tedesco”, quello liricizzato e intimista, quello che rifugge il declamato a vantaggio dell’espressione addolcita, della vocalità figlia delle melodie “lunghe lunghe”?
Mentre scrivo sto ascoltando il duetto del terzo atto fra Kowaljow e la Stemme: se partiamo dal presupposto che i miei modelli di riferimento sono Hans Hotter e Astrid Varnay – e non per fare il passatista, sia ben chiaro: nel mio abbraccio ecumenico arrivo anche a Irene Thèorin e Falck Struckmann – ci rendiamo conto che siamo lontani le mille miglia da questo basso urlatore, di bella e spessa grana vocale ma ancora lontano da una corretta impostazione di un canto declamato comme il faut; e da un soprano di splendida voce, di eccellente interpretazione, favolosa Isolde come lo era la Modl ma, come lei, messa terribilmente alla frusta da un ruolo come Brunnhilde, che chiaramente non le appartiene né mai le apparterrà. Coloro che ancora oggi irridono le scelte di Cosima, dovrebbero invece plaudirne il buon senso messo in campo nel tenere lontane le grandi Isolde dei suoi tempi (Therese Malten, Rose Sucher e Marie Wittich) dal ruolo della figlia di Wotan, almeno entro i confini del Colle; fuori, facessero quello che volevano. L’esempio della Modl – meravigliosa, insuperata Isolde (e Kundry), ma Brunnhilde tragicamente in difficoltà – dovrebbe chiarire il concetto meglio di qualunque altra considerazione. E non oso pensare a cosa succederà con l’Immolazione del Crepuscolo, se pure ci arriveremo, cosa di cui mi permetto di dubitare.
Con ciò non voglio dire che sia oggi impossibile l’associazione fra Brunnhilde e Isolde: la già citata Thèorin ne è un eccellenteesempio. Ma la Stemme ha le sue belle difficoltà in una parte che Barenboim continua ad impostare in modo piuttosto passatista, quindi classico, iper-uranico e…”nilssoniano” (e dire che a Bayreuth aveva avuto Anne Evans, una Brunnhilde decisamente mignon)!
Leggermente diverso il discorso per Kowaljow. La voce, potenzialmente, c’è; il carisma del grande interprete che è richiesto tassativamente per questo ruolo, invece, deve ancora arrivare. Allo spettatore che avesse poca familiarità con questo personaggio, senza arrivare a scomodare Sua Maestà Hans Hotter basterà andare a vedere il video di Rattle e Braunschweig di Aix en Provence 2008 per avere chiari i termini della questione: lì c’è sir Willard White, classe 1946, che fa vedere e sentire la vera autorità morale e vocale di Diodistragi, come viene vigliaccamente tradotto Siegvater, uno degli appellativi di Wotan. E quanto a questo specifico aspetto, uno degli aspetti che maggiormente stigmatizziamo è proprio la diminutio nel passaggio della diretta della Prima da Classica a Rai 5, che si manifesta anche nella regia televisiva e nei sottotitoli per nulla curati, che sembrano anzi una di quelle buffe traduzioni di Google.
Ecco: ci sembra che questa prima sia dominata dall’approssimazione.
Approssimazione nell’assemblaggio del cast, in tutte le sue componenti (anche Fricka, pur corretta, è noiosissima). Troppe sono le mancanze di rilievo in un cast da inaugurazione. Con tutto il rispetto per Waltraud Meier, probabilmente la più importante cantante wagneriana degli ultimi trent’anni (ma solo perché è ancora presto per valutare l’impatto storico di Evelyn Herlitzius e della stessa Nina Stemme), nella sera di inaugurazione alla Scala non doveva mancare Eva-Maria Westbroek, la più importante Sieglinde dei nostri tempi. Pape – il teorico titolare del ruolo – non sarebbe stato un Wotan di rilievo nemmeno sulla carta; figuriamoci il sostituto. In un ruolo così carismatico, fra i più difficili eimportanti di tutto il repertorio, si doveva poter contattare qualcuno che l’avesse già in repertorio e che costituisse una garanzia: Terfel, per esempio, che verrà per un inutile Scarpia; o Struckmann; o Dohmen. O’Neill ha fatto rimpiangere un Domingo ultrasettantenne, ed è tutto dire: sul mercato ci sono a disposizione per questo ruolo Wottrich o Gambill, che non sono fulmini di guerra, ma che la parte la conoscono anche capovolta.
Approssimazione, spiace dirlo, nella direzione d’orchestra. Barenboim è un professionista navigatissimo, specialmente in questo repertorio nel quale ha scritto pagine splendide, storiche, importantissime. Non solo: ha anche inciso tutte le opere del “canone” wagneriano classico di Bayreuth. Possiamo dire sommessamente che il grande direttore ha cominciato a trovare la quadratura della sua Walkiria solo a partire dall’Abschied di Wotan?
Approssimazione nella regia. Se un artista – di qualunque genere egli sia – deve spiegare con parole il significato della sua rappresentazione, vuol dire che la sua produzione è priva di significato. Giuro che non ho capito almeno metà dei simboli messi in campo; né, peraltro, mi risulta chiara l’impostazione del regista. Persino il “Tristan” di Marthaler a Bayreuth era più chiaro quanto a svolgimento e simbolismi, rispetto a questo guazzabuglio senza capo né coda, pieno di ologrammi e figurativamente poco interessante.

Alla fine nessuno può dire che questo spettacolo sia veramente pietoso. È solo sciapo, senza una vera anima, senza una chiave di lettura, senza un elemento che lo identifichi immediatamente. Una recita del genere potrebbe andare bene in una recita di un teatro della provincia tedesca, non per l’inaugurazione della Scala.
Mancano gli interpreti veramente di rango.
Manca l’anima.
Gira che ti rigira, ogni anno a Milano si dicono le stesse cose.
Forse sbagliamo noi a cercare la luna nel pozzo.
O forse no

PietroBagnoli

Categoria: Editoriale

 

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