Venerdì, 22 Novembre 2024

Editoriale: Il nuovo Rheingold a New York

Aggiunto il 10 Ottobre, 2010

La prima domanda che mi sono posto alla fine è questa: perché?
Perché il Met ha deciso di abbandonare il vecchio allestimento del Ring per farne uno indentico? Stessa noia, stessa stasi, stessa povertà drammaturgica, insomma, stessa roba di quello prima. Rispetto al passato ho visto qualche nuovo su-e-giù tecnologico un po' più all'avanguardia (robetta da parco a tema, niente di speciale) e alcuni costumi che sulla carta sembravano tirati giù da una graphic novel di Frank Miller ma che infilati sul corpaccione di Terfel diventavano una carnevalata.
Il vecchio, polveroso, soporifero, elefantiaco allestimento di Schenk aveva almeno una sua ragione d'esistere. Bislacca fin che si vuole, ma ce l'aveva: fare Wagner rispettando in maniera burocratica tutte le didascalie del copione, delegando alla musica e al canto il compito di spiegare tutto il resto. Messa in pratica, questa idea del Ring ha fatto ridere mezzo mondo (a onor del vero l'altra metà invece ha riempito la sala del Met per vent'anni con ossessivi sold-out) ma non, come molto vogliono far credere, perchè si trattava di un allestimento costruito "sulle" didascalie: ma perchè era un Ring costruito "solo" sulle didascalie.

Mi stupisco che Lepage e i vertici del Met non abbiano saputo fare qualcosa di nuovo se non ribadire l'idea base del vecchio Ring che, al di là delle opinioni sul fatto che fosse giusta o sbagliata, era comunque già stato detta per vent'anni e non aveva (chissà perchè?) trovato nessun seguito in nessun altro teatro d'Opera.
E così, anche in questa nuova produzione -che ci accompegnerà presumo fino al 2030- troviamo le solite figlie del Reno che nuotano sospese in aria come bimbe nella recita di fine anno, Loge che si accende e si spegne come un bic da tabaccaio, Alberich che ha i capelli rasta perchè si deve capire che è un diverso, Mime che fa lo scemo del villaggio, i nibelunghi che camminano tipo nani da circo, l'arcobaleno stile ciclorama, il dragonee il ranocchio buffo (il pubblico ha riso), Fasolt e Fafner per tutta l'opera rigorosamente fermi uno a sinistra e l'altro a destra (forse una velata allusione politica?) il temporalone coi lampi stile twister e a dirigere il minestrone celebrativo l'immarcescibile Levine che ha trattato l'orchestra wagneriana come una qualsiasi score di Horner messa sotto all'ultimo blockbuster.

Voci grandi e piccine, personalità grandi e piccine, tutte messe insieme dentro questa nuova, costosa (si parla di 16 milioni di dollari) macchinona scenotecnica made in Usa.
Terfel, il migliore in campo, non mi è sembrato particolarmente incisivo e soprattutto sottodimensionato rispetto a quello che un animale da palcoscenico come lui può dare. Niente a che vedere con la forza della natura del Ring di Warner al Covent Garden. La Blythe (Fricka) ha veleggiato per il palcoscenico senza lasciare particolari impressioni. Alberich aveva la voce tonante e l'accento approssimativo di Richard Paul-Fink, mentre la coppia di giganti era impersonata in modo anonimo (leggi, soliti digrigni e soliti mugugni) da Selig e Konig. Ottima la Freia di Wendy Bryn Harmer. Resta l'altro grande punto di forza -nelle promesse- di questo Rheingold, ovvero Richard Croft al debutto nel ruolo di Loge. Non mi ha impressionato particolarmente. Cantava molto bene, nel senso di emissione di suoni, ma l'accento era generico e soprattutto mancava completamente di ambiguità.
Come ho detto Lepage ha trascurato qualsiasi lavoro sulla recitazione dei singoli che, a seconda della propria sensibilità, pescavano dal proprio baule quegli atteggiamenti che ritenevano più consoni alla situazione. Ma per gran parte del tempo stavano fermi e cantavano rivolti verso l'uditorio.

Di Levine ho già scritto. Il suo è un Wagner formato esportazione tale da rassicurare i pubblici di mezzo mondo.
Non molto diverso da quello scaligero di Barenboim.
In definitiva uno spettacolo anonimoche nulla aggiunge nè toglie al percorso drammaturgico di Wagner. Ma almeno serve a dimostrare un concetto che, dopo il Ring di Schenk (o anche solo dopo il bric-a-brac tecnologico della Fura a Firenze) davo ormai per assodato: senza un lavoro teatrale, Wagner non tiene e si rivela pericolosamente noioso. A quanto pare negli States non la pensano così e, temendo di essere invasi da orde di dramaturgen, preferiscono sopportare l'accusa di passatismo.
Sono deluso ma non sorpreso. Anche se da Lepage, lo ammetto, mi aspettavo una lettura che, negando sia la tradizione più becera sia il piu concettoso dei teatri di regia, poteva aprire una terza via che, da qualche parte in Europa, stanno già percorrendo. Maugham

Categoria: Editoriale

 

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