Sabato, 19 Ottobre 2024

Editoriale: La generazione dei sogni perduti - seconda puntata - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 29 Ottobre, 2009

LA PARTE PER IL TUTTO: L’EQUIVOCO DELLA SCALA

A cavallo fra gli Anni Settanta e Ottanta l’Italia aveva ancora qualche titolo per proporsi come “faro” dell’interpretazione operistica mondiale; non molti, per la verità, ma qualcuno sì.
Negli Anni Settanta si passava dalla “Milano del boom economico” alla “Milano da bere”. Erano gli anni degli scioperi nelle grosse industrie metalmeccaniche, delle sprangate fra postfascisti e comunisti in Piazza San Babila e dell’affermazione delle brigate rosse. A teatro Abbado trionfava negli allestimenti leggendari di Simon Boccanegra e Macbeth, ma riusciva ad imporre anche musicisti fortemente voluti dal maggior partito di sinistra come Luigi Nono.
Non vorremmo soffermarci particolarmente su questi anni, troppo spesso eccessivamente mitizzati, perché escono un po’ dal periodo che abbiamo scelto come oggetto della nostra trattazione. Ma qualche considerazione è probabilmente corretto farla:
1. Le grandi voci stavano vedendo il loro crepuscolo. Maria Callas aveva terminato già da un bel po’ la propria parabola ed era entrata definitivamente nel Mito. Renata Tebaldi, Giulietta Simionato, Mario Del Monaco e Giuseppe Di Stefano si trovavano in vari gradi di pensionamento e, più che altro, non avrebbero più avuto molto da dire in un contesto come quello della Milano degli Anni Settanta. Erano invece – e misteriosamente – gli anni di un tenore beneducato e fine dicitore, ricco di portamenti e di paciosità di modi, di nome Carlo Bergonzi, nativo della Bassa Parmense come quel musicista di cui si diceva fosse il massimo esegeta possibile. Erano gli anni di Montserrat Caballè, nata per i ruoli Pasta ma in grado di coprire tutto l’arco belcantista e una certa quota di ruoli verdiani. Su questa traccia si fecero avanti voci molto più intimistiche come quella di Mirella Freni (prima maniera), Katia Ricciarelli, Luciano Pavarotti, Plàcido Domingo e via via tutti gli altri che, da lì in avanti, avrebbero“occupato” la Scala assieme ad altri colleghi minori di fama ma non di voce
2. Sulla spinta di quanto avveniva all’estero ormai da un bel po’ di tempo, la figura del direttore acquisisce un rilievo particolare. Gli ultimi direttori veramente carismatici come Toscanini e De Sabata erano stati sostituiti da una generazione di grandissimi professionisti il cui nome era però soverchiato da quelli dei cantanti. La presenza di un intellettuale proveniente da una grande famiglia di musicisti come Claudio Abbado, aperto a trecentosessanta gradi al grande repertorio internazionale e sufficientemente compenetrato con l’area politica che, a torto o a ragione, si era appropriata della cultura, riportava in notevole preminenza la figura del direttore che si fa garante della riuscita dello spettacolo. Questo ruolo sarà poi estremizzato dal suo successore Muti la cui presenza, come vedremo, porrà in secondo piano quella dei cantanti e degli altri operatori dello spettacolo, soprattutto i registi
3. Parimenti interessante, in quegli Anni Settanta, è proprio il primo timido affermarsi della figura del regista che, a Milano, ha il nome di Ronconi ma, soprattutto, di Giorgio Strehler che è accomunato ad Abbado da una vicinanza intellettuale ed ideologica. Siamo ancora ovviamente molto lontani da quello che oggi intendiamo col termine di “regista d’opera”: il melodramma è ancora un ambito di stretta pertinenza vocale. Tuttavia a Milano i teatri di prosa cominciano ad allestire, accanto al “Filottete” di Sofocle, anche il “Philoktetes” di Heiner Müller con la regia dello stesso autore e questo ci sta con un’attenzione al gusto europeo in genere, mitteleuropeo in particolare e di Oltrecortina nello specifico che fa riflettere
4. La cultura del Sessantotto a Milano aveva portato risultati interessanti (non entusiasmanti) da un punto di vista estetico. Ma, soprattutto, aveva portato una sottile inquietudine ed incertezza che si sposava all’esistenzialismo transalpinoe ad una certa spocchia intellettuale che piaceva al pubblico anche se non arrivava a comprenderla sino in fondo. Non ci si spiegherebbe, d’altronde, il motivo per cui lo spettatore applaudisse indiscriminatamente e allo stesso modo il Simon Boccanegra di Strehler e Abbado e l’Aida di Schippers con Bergonzi
Le cose erano destinate a cambiare al passaggio fondamentale con gli Anni Ottanta, quelli dell’edonismo reaganiano che estendeva la sua influenza anche in Europa, dei primi Burghy (la risposta italiana a quel McDonalds che poi assorbirà in sé i succedanei nazionali) frequentati dai paninari in Moncler e Timberland. Era probabilmente finito il tempo delle inquietudini dell’esistenzialismo e degli ideali post-sessantottini e appariva inevitabile un cambiamento anche in campo di leadership musicale.
La Scala a Milano, ancora a discreto diritto il teatro di riferimento italiano per questo genere, perdeva l’intellettuale di sinistra Abbado come direttore fisso, ma guadagnava il falso nazional-popolare Muti, il direttore italiano più in vista di quel momento (e anche di adesso, visto che le apparizioni di Abbado, sempre più scavato ed ascetico, per lo più in area mitteleuropea, sono diventate ormai molto rare). Falso, dicevamo, perché accanto ad alcune opere di cartellone dirette con empito barricadiero soprattutto nel “periodo fiorentino” il Cigno di Molfetta aveva sempre coltivato anche un interesse per Autori di presa meno immediata come Cimarosa, Scarlatti, Jommelli, Gluck e, soprattutto, gli amatissimi Cherubini e Spontini. Questo che, apparentemente, potrebbe sembrare un vantaggio (il direttore che evita i soliti luoghi comuni del repertorio), con l’andare degli anni diventerà un limite perché sarà il salotto privilegiato in cui Muti coltiverà il proprio egotismo: il suo territorio di caccia, l’ambito, cioè, in cui tutti lo riconoscono leader assoluto, anche per mancanza di concorrenti plausibili, almeno sino a che Minkowski e soci non decidono didire la loro con alcuni spettacoli ed incisioni fondamentali, come quelle delle opere di Gluck, che ne cambiano completamente il punto di vista svelando al mondo che non esiste solo l’ottica neoclassica.
Nel corso degli anni ci si sarebbe chiesti che tipo di vantaggio ci fosse per Milano in un direttore tecnicamente molto bravo e sufficientemente curioso, ma talmente totalitario ed autoreferenziale da tener lontani non solo i direttori che ne avrebbero potuto offuscarne la fama, ma anche cantanti e registi di rilievo. Ci siamo anche chiesti se il fatto di andare a pescare nel repertorio neoclassico, o nel Mozart coturnato e nel Rossini serio sempre visti da un’ottica neoclassica, non fosse un alibi per evitare confronti con i grandi concorrenti storici e contemporanei, ma era forse una cattiveria giacché riusciamo a ricordare anche qualche spettacolo degno di nota, come per esempio il “Guglielmo Tell”. Erano gli anni in cui alla Scala non si poteva sperare di vedere nessun altro regista che non fosse Strehler, Ronconi, Pizzi e Kokkos. Ma erano anche gli anni in cui Hildegard Behrens, che ricordiamo oggi in particolare perché venuta recentemente a mancare, trionfava ovunque fuorché in Italia e non riuscì mai trovare la strada del Piermarini perché non faceva parte delle scuderie in cui si cercavano i cavalli che dovevano fare la corsa. Quali fossero queste scuderie è ben noto e non è oggetto di questa trattazione; ma è un dato di fatto che in quegli anni di cui parliamo Milano – e di conseguenza l’Italia – visse un periodo di oscurantismo che, però, coincide con la giovinezza di chi non seppe, non potette o non volle cercare alternative in altre piazze.
Altrimenti detto: la Scala visse sotto Muti un periodo culturalmente molto limitato, ma che cavalcava l’immensa popolarità del suo direttore – che poteva contare su una stampa sempre ed incondizionatamente favorevole – e che per di più ancora sfruttava i pesanti dividendi dei decenni precedenti. Mal’immagine che Muti diede della realtà esecutiva era talmente parcellare che solo lo spettatore italiano, pigro, sedentario e attaccato ai cellettismi ci cascò. Ci cascò perché le voci proposte avevano ancora qualche cosa da dire in termini di bellezza strumentale e una notorietà assicurata dalle grandi majors discografiche. Ma ci cascò più che altro per mancanza di termini di paragone che non fossero quelli proposti dalle case discografiche, soprattutto quelle di area Polygram.
Ci si chiede, per esempio, come mai un baritono di importanza così rilevante nella storia dell’interpretazione verdiana come Sherrill Milnes non abbia trovato in modo stabile la strada dei palcoscenici italiani e gli siano stati preferiti modelli assai meno interessanti come Cappuccilli (quando andava bene), oppure Nucci, che imperversa ancora oggi in ruoli in cui la sua unica preoccupazione è quella di avere abbastanza fiato per imporre al pubblico il bis delle arie più celebri. È chiaramente un modello di un grossolano errore di valutazione cui hanno contribuito alcuni aspetti:
1. Le scelte miopi di direttori artistici incapaci di fare il proprio lavoro, in parte probabilmente per obblighi nei confronti delle scuderie, in parte per influenze culturali (vedi qui sotto), in parte per ignoranza delle tendenze culturali esistenti all’estero. Si badi: è un errore in cui imperversano ancora oggi personaggi che non riescono a trovare il bandolo della matassa di una situazione che potrebbe essere risolta con un minimo di conoscenza in più della situazione contemporanea. Senza andare troppo lontani, basterebbe che ogni teatro disponesse di un Wolfgang Wagner, vale a dire uno dei manager più illuminati che esistano al mondo e che per tanti anni ha genialmente organizzato il Festival di Bayreuth
2. I modelli estetici imposti da critici egocentrici. Spiace dover tornare sull’argomento, ma i danni fatti anche in buona fede da personaggi come Rodolfo Celletti sono incalcolabili:la pretesa di creare un modello buono per tutti gli usi e la formazione di una sedicente “scuola” di replicanti che non avevano nemmeno un briciolo di sale del suo fondatore, ma in compenso dieci volte tanto la sua supponenza, ha portato alla distruzione del modello esecutivo italiano che è l’unico al mondo che non è stato capace di rinnovarsi o di proporre qualcosa di nuovo. Anche la cosiddetta “Rossini rénaissance”, di cui parleremo più avanti, è qualcosa che si è installata in Italia, ma che ha avuto ben pochi protagonisti italiani
3. La scarsa propensione al viaggio da parte dello spettatore italiano. Negli Anni Settanta e Ottanta mancavano alcuni strumenti essenziali come Internet e la stessa videoregistrazione era ancora ad un livello di diffusione molto modesto. Negli Anni Ottanta muovevano i loro primi passi Robert Carsen e Richard Jones, ancora oggi fra i massimi esegeti del teatro d’opera, ma alla Scala si allestiva la Turandot di Zeffirelli o l’Aida di Ronconi (con Luciano Pavarotti e Maria Chiara!)

Alla luce di queste premesse, si capisce come mai alla Scala fosse il momento di Katia Ricciarelli e di Luciano Pavarotti e non solo, giacché c’erano pure, fra gli altri, Mirella Freni, Elena Obraztsova, Plàcido Domingo, José Carreras, Nicolai Ghiaurov, Renato Bruson, Piero Cappuccilli: era il trionfo della bellezza dello strumento vocale che faceva premio non solo su quella tecnica che, nell’intenzione dei duri e puri, doveva portare all’affermazione delle ragioni dell’Autore, ma anche su quel minimo di interpretazione che uscisse da una superficiale epidemicità emozionale. Fu così, e i duri e puri dimenticarono di esercitare i loro diritti su Verdi (Puccini era per essi una causa persa già nelle intenzioni: lo lasciavano volentieri alle intenzioni della Direzione Artistica, tanto rovinare una Bohème è pressoché impossibile) e si riservarono il repertorio di Rossini – che stava vivendo la sua grande stagione di riabilitazione – e inparte quello belcantista in senso lato, anche se in Italia i grandi ruoli sopranili di Bellini e Donizetti erano affidati per lo più a Jenny Drivala, che era brava ma non la Sutherland né la Callas. E, come vedremo, quanto ai tenori si tennero alla larga dagli ipertecnici e funambolici Merritt e Blake, perché non rispondevano a quei canoni estetici di “bella voce italiana” che, in quegli anni difficili, era tutto il meglio che riuscivano a salvare del messaggio di Celletti.
Di questo processo parleremo in modo diffuso più avanti, quando tratteremo la “Rossini rénaissance”; per concludere questo discorso invece ci occorre soffermarci ancora un poco sul concetto di “bello” negli Anni Ottanta.
Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere, soprattutto negli anni a seguire? Inseguendo il concetto di “bello” siamo arrivati a giustificare ogni genere di trasgressione, ad accettare di sentire tutto ciò che poteva rientrare nella categoria e addirittura rimpiangere oggi tutto ciò che allora – soprattutto nel nostro ricordo – apprezzammo come “bello”.
Avrebbero avuto così tanto successo i “cantanti del bello” in un contesto diverso?
La Storia ci dice di sì: ovunque abbiano cantato, soprattutto nel periodo migliore della loro parabola artistica, hanno avuto successo a dimostrazione che era questo requisito quello maggiormente richiesto dal pubblico. Consideriamo anche i direttori d’orchestra più famosi: oltre ai già citati italiani, oltre al già citato Karajan, non va dimenticata la grande risonanza di Georg Solti, splendido alfiere del “bel” suono.
E se gli spettatori della Scala avessero avuto a disposizione più riferimenti all’estero, più video, più possibilità di viaggiare? Bella domanda.
La Scala si prestò realmente in quegli anni ad essere paradigma di questo modo di vedere le cose: l’autorevolezza era ancora discretamente intatta e poteva essere credibile in questo ruolo. In quegli anni l’edonismo vocale trovò facilmente spazionella “Milano da bere”. Poi poco conta che a Bayreuth si fosse già celebrato il rito del Ring del Centenario che aveva spostato completamente l’asse di tutto un modo d’interpretare l’opera: a Milano andava ancora la Boheme di Zeffirelli con Pavarotti e la Freni e lo spettacolo – quello spettacolo – sarebbe durato ancora ai giorni nostri.
Longevità naturale o pigrizia intellettuale? Difficile rispondere, ma forse ci può aiutare la banale constatazione che, nel frattempo, la storia esecutiva è andata avanti, in altre direzioni magari anche meno entusiasmanti (e poi è ovviamente questione di punti di vista) ma comunque diverse. È però rimasto uno spazio alla nostalgia che viene lasciato tenacemente aperto dai nostalgici inguaribili che non riescono né vogliono rassegnarsi al nuovo che avanza e che quindi, soprattutto alla Scala, si lasciano andare al rimpianto di quel periodo nel quale all’epoca, ovviamente, vivevano assai male, rimpiangendo i tempi che furono. Lasciamo sospeso quindi l’argomento e rimandiamo i lettori alla prossima puntata

Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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