Lunedì, 25 Novembre 2024

Requiem

Aggiunto il 28 Febbraio, 2015


GIUSEPPE VERDI
MESSA DA REQUIEM

• Soprano SHARON SWEET
• Mezzosoprano FLORENCE QUIVAR
• Tenore VINSON COLE
• Basso SIMON ESTES

Ernst-Senff-Chor
Chorus Master: Ernst Senff

Berliner Philharmoniker
CARLO MARIA GIULINI

Luogo e data di registrazione: Berlin, Jesus-Christus-Kirche, Aprile 1989
Edizione discografica: DGG, 2 cd economici

Note tecniche: masterizzazione perfetta

Pregi: un Requiem sussurrato

Difetti: le due voci maschili sono tremende

Giudizio complessivo: images/giudizi/eccezionale.png

Capolavoro assoluto, questo Requiem. E questo, nonostante la presenza di due elementi di rilievo scarsissimo sui quattro solisti, peraltro nel loro complesso fra i peggio assortiti di tutta la discografia.
La ragione per cui il nostro sito, nonostante ciò, le attribuisce il massimo dei voti è quindi da ricercare in altri elementi che, evidentemente, non sono solo quelli vocali.
Giulini, settantacinquenne all’epoca di questa registrazione, vi profonde tutto il senso del sacro di cui è capace e che vive nella sua pelle. Questa è una delle pochissime incisioni del Requiem verdiano in cui i passi corali sono per lo più sussurrati (semplicemente meraviglioso l’altrimenti a me sconosciuto Ernst Senff Chor di Berlino), con un effetto molto più straniante che non i clangori che siamo abituati a percepire nei brani di maggior impatto.
Chiaramente qui siamo lontani anni luce dall’idea di “dramma liturgico”. Giulini si pone molto di più dalle parti di Bach, della Messa in si minore con cui si era già confrontato in una fondamentale versione (e ci sarebbe stato spazio per un’atra registrazione, nel 1994), e di cui mantiene le campate e il senso di proporzioni, soprattutto nei rapporti fra coro e orchestra. Quanto questo potesse interessare a Verdi, è ovviamente tutto da dimostrare; nondimeno è un punto di vista interessante, condiviso da altri direttori (il tardo Karajan, o Celibidache per esempio) e, se affrontato con proprietà e convinzione come in questo caso, assolutamente affascinante.
Manca la brada estroversione che sovrabbonda in altre versioni, come per esempio Solti o Bernstein; ma non è l’aspetto che si sarebbe potuto richiedere a un direttore come lui. C’è invece una teatralità molto più sottile, giocata sugli impasti timbrici e sulla comunicativa del coro che, tra l’altro, si avvale di una pronuncia favolosa. Eccezionale il “Quantus tremor” che evoca proprio il timore panico di fronte alla potenza di un Dio che non sempre appare comprensivo né pronto al perdono; e questa è una visione assolutamente verdiana.
Non manca invece la comunicativa, l’eloquenza, al limite anche una certa speditezza che era già inaspettatamente presente nella prima versione degli Anni Sessanta: contrariamente a quello che si è portati a pensare, Giulini è riflessivo, intenso, spirituale, ma non precisamente “lento”.
I Berliner suonano meravigliosamente; le trombe del “Tuba mirum” sembrano far cadere la loro armonia direttamente come una cascata dall’alto dei cieli, come forse non avevamo ancora sentito in altre incisioni.
I solisti, invece, sono il vero punto debole di questa incisione: le due voci femminili non brillano per particolari virtù, ma tenore e basso sono decisamente di livello mediocre.
Credo che l’intento fosse quello di non fare una vetrina vocale di un’incisione che nasce sotto altri presupposti, ma – se questo era il proposito – nei risultati siamo andati decisamente oltre. Come però sottolineavo all’inizio, questo aspetto si nota meno che in altre edizioni proprio perché tutto viene riassorbito dal respiro dell’orchestra e del coro.
È possibile che questo sia l’aspetto più anti-verdiano: il musicista, come noto, aveva pensato le parti femminili per Teresa Stolz e Maria Waldmann, rispettivamente prima Aida e Amneris, quindi con la contrapposizione fra una vocalista aurea e una declamatrice aggressiva.
Pur senza mai arrivare a evocare il fantasma della Stolz, Sharon Sweet è di non poche lunghezze la migliore del ristretto gruppo. Anche se priva di particolari attrattive, la voce ha un impasto drammatico interessante in grado di piegarsi a dolcezze e discrete smorzature in un “Libera me” che vive soprattutto delle intense riflessioni orchestrali di Giulini. Nulla che faccia gridare al miracolo, ovviamente, ma nel complesso si tratta di una prova più che interessante.
Meno riuscita la performance di Florence Quivar che, comunque, si mantiene in un medium più che interessante, grazie anche a un’asciuttezza stilistica da guardare con molto rispetto. Il suo “Liber scriptus” è complessivamente ben compitato.
Entrambe le cantanti sono invece in discreta difficoltà con il duetto inizialmente a cappella dell’ “Agnus Dei” in cui faticano a trovare un’intonazione comune e in cui palesano evidenti problemi di fiato. È un peccato perché la linea interpretativa di Giulini proprio qui trova il punto più alto della propria ispirazione, grazie anche al contributo di un coro che sembra veramente paradisiaco nel creare un tono di sospensione quasi insostenibile, e a un’orchestra che ricama in modo meraviglioso una trama di una leggerezza infinita.
Con Simon Estes cominciano i veri guai: la linea è sconnessa, il cantante fa la voce grossa ed è lontano le mille miglia da uno standard anche solo lontanamente accettabile, sin dal “Mors stupebit” che è affrontato in modo trucibaldo. Nulla che non si sia già sentito anche da altri cantanti; il problema è che in un contesto così rarefatto e sospeso, questo si nota ancora di più.
Ciò che è veramente inspiegabile è però la presenza di Vinson Cole, tenore che ebbe una stagione di effimera popolarità garantita proprio dal disco: compare, per esempio, nella seconda incisione del “Rosenkavalier” di Karajan in cui riesce a essere uno dei peggiori Tenori Italiani della storia della discografia. Qui non c’è nulla: né l’attrattiva timbrica – inesistente – né la linea musicale, né gli acuti. Un cantante che sembra un dilettante allo sbaraglio e che corre seriamente il rischio di affossare l’incisione; è un peccato perché anche all’epoca le alternative c’erano. Non è questione di mancanza di voce potente, come adombrato su alcune recensioni; è proprio inadeguatezza assoluta alle esigenze della parte.

In conclusione, uno dei più straordinari e rarefatti Requiem verdiani che si siano mai sentiti. Un rimpianto solo marginale per le notevoli carenze del quartetto vocale, ma in questo particolare contesto si può sopportare

Pietro Bagnoli

Categoria: Musica Sacra

 

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