Editoriale: La generazione dei sogni perduti - Prima puntata - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 23 Ottobre, 2009
INTRODUZIONE: L’ETA’ DELL’ORO. L’EQUIVOCO DELLA PRESUNTA FEDELTA’ TESTUALE COME UNICO CRITERIO ESECUTIVO
La visione e l’ascolto del dvd dell’Adriana Lecouvreur del 1989 alla Scala, recensito da Operadisc, mi hanno indotto a qualche riflessione sul modo di interpretare l’opera in Italia e nel resto del mondo in quel periodo che, nel ricordo di qualche appassionato, è forse l’ultimo momento di quell’Età dell’Oro che moriva in quegli ultimi anni di voci privilegiate, ma che era nata molti anni prima.
Quando? Difficile dirlo, nella notte dei tempi ma nessuno lo sa con esattezza anche perché in ogni momento storico, c’è sempre un “prima” da rimpiangere: chiedetelo a 100 appassionati e avrete 100 risposte diverse. Volendo comunque azzardare una risposta, probabilmente ancora ai tempi di Rossini: Colbran, Malibran, Cinthie Damoureau, Dabadie, Donzelli, David, Nozzari, Rubini, Pasta e compagnia cantante (è proprio il caso di dirlo!). In realtà, questa presunta età dell’oro inizia forse ancora prima, quando Francesca Cuzzoni e Faustina Bordoni si presero pubblicamente a schiaffi sul palcoscenico. O forse prima ancora, ai tempi dei gloriosi castrati che facevano impazzire il pubblico in adorazione.
Nessuno sa come cantassero questi mitici artisti, ma chiunque si sente autorizzato ad esserne referente, in parte sulla base di quanto tramandato da spettatori e cronisti dell’epoca, in parte a seguito dell’analisi degli spartiti che indurrebbero a comprendere per mero ragionamento induttivo le caratteristiche dei cantanti cui i ruoli erano destinati. Quest’ultimo è il metodo preferito dai cosiddetti cellettiani (seguaci di Rodolfo Celletti, famoso critico musicale italiano; ne parleremo più avanti) cui tanto spesso si è fatto riferimento anche su questo sito come ad un male inevitabile per la peculiarità della situazione culturale italiana.
Ma è ragionamento pretestuoso o, al limite, valido quanto qualunque altro, perché non tiene conto diquanto le partiture fossero già aggiustate a misura dell’esecutore sin dai tempi in cui le opere vedevano la luce, né di quanto potessero variare le caratteristiche dei performers nel corso degli anni successivi: e del resto era ben chiaro all’Autore che l’opera non sarebbe morta con l’esecutore cui il ruolo era destinato.
Si dovrebbe quindi dare per scontata un'evoluzione dell'esecuzione che esiste sin dal momento in cui l'opera è rappresentata per la prima volta, escludendo che essa possa rimanere immutata nel corso degli anni. Se invece – in modo cellettiano (mi si conceda il termine) – si parte dal presupposto inverso, che cioè l'opera possa esistere solo nel ristretto ambito dei paletti fissati sul pentagramma dall'Autore, si rifiuterà aprioristicamente qualunque variazione sul tema perché ritenuta in modo apodittico e farisaico “non ammessa” dall'Autore. Ne deriverà, quindi, una ricerca spasmodica dell'interprete rigoroso e fedele, quello che meglio soddisfi i presupposti puramente teorici che esistono, più che sul pentagramma, nella testa di chi li elabora come unica legge.
Tale legge, ovviamente, è quella del linguaggio comune: l'esigenza di omogeneizzare, di amalgamare e di triturare tutte le legittime ambizioni a creare, sperimentare e proporre nuovi criteri, molti dei quali nati come evoluzione dell’ambito culturale e geografico in cui i cantanti si trovano ad eseguire, porta come conseguenza l'idea che il meglio possibile sia l'elaborazione di un linguaggio unico, una sorta di esperanto che in sé assommi tutte le lingue esistenti che, da quel momento in avanti, non avranno più nessun diritto di rappresentazione. Come giustamente è stato scritto su questo sito, è come se qualcuno arbitrariamente dicesse che, da un dato momento in avanti, l'unica lingua ammissibile in Letteratura è – poniamo – il francese. Poco conta se Goethe ha scritto in tedesco: ha sbagliato lui e, se proprio si vuole leggerne le opere, come minimo va tradotto infrancese.
E Shakespeare? Nell’impossibilità di dimostrare che i versi inglesi del Divino Bardo sono brutti, scritti come sono nella lingua della Perfida Albione, questo qualcuno potrebbe spudoratamente affermare che in realtà Egli scrisse in francese, che qualcuno lo tradusse in inglese e chi dice il contrario peste lo colga.
Questo discorso, che è alla base dell'omogeneizzazione cellettiana, ha avuto una sua ragione d'essere solo in certi settori culturali italiani, in particolare nei giardini dove il grande critico, autonominatosi maestro di canto, ha potuto formare i suoi allievi, che fossero piccoli aspiranti cantanti o piccoli aspiranti critici.
In Italia questo – piaccia o no – è lo spartiacque.
Sino a quel momento era ammissibile che un soprano che aveva iniziato a cantare ruoli wagneriani venisse “reinventata” da un direttore illuminato come belcantista in grado di svariare da Amina a Lucia, passando attraverso Lady Macbeth ed Elvira.
Sino a quel momento era perfettamente logico (anzi, entusiasmava le folle) che un tenore portasse al massimo livello le aperture di suono ricavandone uno stile talmente personale, peculiare e ricco di colori da affascinare il mondo con le smorzature dei do.
Sino a quel momento era perfettamente normale (anzi, entusiasmava le folle) che un altro tenore portasse alle estreme conseguenze l’affondo, arrivando a superare sul loro stesso terreno i grandi drammatici tedeschi e creando così il paradigma di Otello riuscendo nella non banale impresa di oscurare il primo interprete che pure aveva lasciato dei dischi.
Da quel momento in avanti cambiano drasticamente i modelli di riferimento.
La Callas è il vero problema per i cellettiani: è un elemento scomodo, di cui non si può parlare male ma che comunque appare troppo peculiare per essere assunta ad esempio di quella omogeneizzazione che va bene per tutti gli usi. Molto più facile maramaldeggiare su Giuseppe Di Stefano,tacciato sbrigativamente di mancanza di capacità strutturale nel canto quando non di ignoranza dei fondamentali tout court e quindi additato al pubblico ludibrio come esempio da non seguire mai. Ed è molto più divertente dare del becero a Mario Del Monaco, ignorando le ragioni di un successo planetario che stupisce solo chi non ha idea di come si cantasse prima di lui.
Pur di seguire il ragionamento sino alle sue estreme conseguenze, si arrivarono a contrapporre modelli molto più comodi e rassicuranti come l’anonima e placida Antonietta Stella o, in ambito maschile, Carlo Bergonzi: è quest’ultimo, in particolare, l’elemento più rappresentativo della rivoluzione cellettiana. Nato a Polesine Parmense nel 1924, studiò e debuttò come baritono leggero prima di rendersi conto che non era la sua strada. Come tenore fu immascheratissimo e intubatissimo, ricco di portamenti e totalmente privo di colori: era insomma il tenore adatto per Celletti. Fece né più né meno quello che si aspettava da lui: cantava bene, intonatissimo, rispettava tutti i segni di espressione, filava quello che c’era da filare ed emetteva ottimi acuti che piacevano e facevano passare in secondo piano la sua figura non proprio elegantissima, la mancanza di colori e la recitazione alquanto primordiale (ad essere generosi). Bergonzi, grande erede di fini dicitori e – per così dire – “cantante confidenziale” non diverso, fatti i dovuti distinguo per gli ambiti culturali, da Teddy Reno e Luciano Tajoli, con le sue belle maniere e i suoi modi forbiti faceva piazza pulita non solo del verismo esecutivo di Del Monaco, ma anche del voyeurismo estetizzante che aveva caratterizzato le prestazioni di Pippo Di Stefano e, per certi versi, di Corelli.
La scelta di abbandonare tutto ciò che aveva caratterizzato il divismo degli Anni Cinquanta – iniziativa, forte caratterizzazione, ampleur dell’espressione, verismo esecutivo di certi interpreti – creò di fatto un vuoto istituzionale, anche perché nontutti i cantanti avevano quella preparazione tecnica che permetteva di filare le note e di rispettare tutti i segni di espressione del pentagramma; e, fra quelli che ce l’avevano questa benedetta preparazione, non tutti avevano voglia di faticare per ottenere questi effetti. E si arrivò, quindi, ad elogiare la bellezza del suono come se fosse uno di quei tanti aspetti tecnici anodini che tanto mandavano in solluchero gli appassionati. Non era – si badi – una bellezza che spiccava quella che piaceva a questo genere di appassionati: era una bellezza generica, oggi diremmo “da Barbie” e che, come la bambola americana, esaltava alcuni aspetti giudicati, a torto o a ragione, tipicamente nazionali: il suono bello, pieno, rotondo, pastoso, perfettamente immascherato e appoggiato sul fiato.
A fronte di queste caratteristiche null’altro contava, in primis niente di tutto ciò che finiva nel grande calderone di ciò che è noto come “interpretazione”: contava solo la voce, possibilmente bella, ben emessa, di grande ed ampio volume, intubata perché immascherata, altissima e ben proiettata.
Questa prospettiva era orribilmente miope e indegna del grande Maestro che, invece, aveva ascoltato e recensito tutti i cantanti più grandi documentati dal disco prima di lui, ma era giustificata dal desiderio di dare uno schema a qualcosa che non esisteva prima e che non esisterà più dopo di lui: la grande scuola italiana. Come spesso accade, la prospettiva – già miope di per se stessa – fu estremizzata dagli epigoni che si riconoscevano nel verbo del Maestro e che, rispetto a lui, non avevano avuto nemmeno la capacità di documentarsi su quello che accadeva al di fuori del loro limitato orizzonte.
Non si sapeva nulla – se non attraverso pochi dischi pionieristici e quasi furtivi – delle nuove tendenze esecutive di repertori ben consolidati: si pensi, una volta di più, alla grande rivoluzione filologica di tutto ciò che non sempre propriamente veniva classificato comeBarocco.
E non si sapeva nulla di altre innovazioni, come le rivoluzioni registiche che in altri teatri esteri cominciavano a farsi strada; i pochi commenti che arrivavano erano quelli inorriditi dei critici italiani che volevano rassegnarsi all’idea di un’arte, quella registica appunto, che non solo si imponeva come valore integrato nello spettacolo, ma che poteva addirittura cambiarne profondamente i criteri esecutivi.
Quello che gli appassionati duri e puri definirebbero “un progressivo declino” sino appunto a quel magico periodo a cavallo degli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, massimo momento dell’edonismo vocale che è ancora, per molti appassionati non solo italiani, l’unica icona di riferimento nella valutazione di una performance.
Perché lo è?
Semplice: perché in quegli anni molti di coloro che adesso pontificano erano giovani e andavano a teatro – in Italia più spesso la Scala e l’Arena di Verona, che assumiamo volentieri a paradigma della situazione italiana – e ascoltavano dischi o la radio.
Perché quei teatri in particolare?
La Scala era facilmente raggiungibile e il suo prestigio era ancora poco contestabile, se vogliamo eccettuare quei fischi che – lì come altrove – hanno sempre fatto parte del bagaglio culturale di ogni grande teatro.
L’Arena di Verona, parimenti ben servita dai mezzi di comunicazione, permetteva all’utente di bocca buona di godersi un kolossal con cavalli, cammelli, nani e ballerine; e di ascoltare finalmente voci in grado di sparare quei decibel che, per quel tipo di utente, sono sempre stati un complemento indispensabile a qualunque interpretazione.
La radio è sempre stata a disposizione di tutti; quanto ai dischi, stavano vivendo la loro stagione d’oro grazie ad etichette che prendevano finalmente in considerazione la grande distribuzione proponendo Artisti famosissimi che hanno capito precocemente i vantaggi di questo mezzo e che se ne sono serviti in ogni modo:si pensi, a tale proposito, a Domingo e Karajan. Ma il disco permetteva di ascoltare anche artisti che, in molti casi, non potevano essere conosciuti perché per vari motivi non frequentavano le piazze teatrali più italiane gettonate. Si pensi a un cantante come Sherrill Milnes, baritono nativo dell’Illinois, che quasi tutti gli utenti italiani conobbero solo grazie alle incisioni discografiche Decca e che compariva quasi a sorpresa nei dischi con i ben altrimenti famosi Joan Sutherland e Luciano Pavarotti. Ma si pensi anche alla stessa Dame Joan, che per molti utenti italiani rimase un prodotto solo discografico.
Ne derivò una notevole espansione degli orizzonti culturali dell’utente medio, probabilmente alle prese con i primi grandi entusiasmi di fronte ad un mondo di cui conosceva solo una minima parte, quella cioè sdoganata da Celletti e dai suoi e che frequentava i palcoscenici italiani; ma anche, per contro, un logico ripiegamento difensivo intorno ad alcune realtà che venivano vissute come amichevoli e familiari e che, per di più, potevano contare su un battage pubblicitario da parte della critica.
Questo fenomeno, prettamente italiano nelle premesse e nelle conclusioni, ha portato nel nostro Paese ad un’arretratezza culturale agghiacciante di cui ancora oggi vediamo i danni.
Altrove, questa che definiamo citando un titolo di un libro di Aldo Grandi “La generazione degli anni perduti”, ha portato a risultati contraddittori e spesso non entusiasmanti sul momento ma che, in alcuni casi, hanno germinato e portato frutti importanti: data proprio negli Anni Settanta il fenomeno della riscoperta del repertorio barocco e dell’estensione dei criteri filologici ad altri ambiti musicali.
Sarà quindi meglio tentare una schematizzazione prendendo, come esempio, qualche situazione locale e senza ovviamente la pretesa di indicare quale fosse migliore: l’intento, come nelle intenzioni dei gestori di questo sito, è quello della contestualizzazionestorica.
Cominceremo dall’Italia, perché la sua situazione era peculiare dominata com’era da una Scala geocentrica e perché il problema culturale è ancora attivo