French Arias di Magdalena Kozena
Aggiunto il 01 Maggio, 2008
Nell’Ottocento la qualifica di mezzosoprano non era ritenuta compatibile con lo status di primadonna. Nessuna si sarebbe definita altrimenti che soprano o contralto, lasciando quell’imbarazzante “mezzo” alle comprimarie. Nel tardo Novecento e fino ad oggi, invece, sembra che titolo più ambito non ci sia per una cantante che darsi del mezzosoprano. Soprattutto in ambito barocco e mozartiano si è assistito a un proliferare di voci non troppo caratterizzate, perlopiù di soprani corti, del tutto a sproposito definiti mezzosoprani. L’ambizione gioca brutti scherzi quando fa perdere di vista la realtà dei propri limiti e i confini dell’ambito entro il quale ciascun cantante dovrebbe giudiziosamente mantenersi.
Comunque lo si guardi, questo disco ispira un’unica considerazione: il passo è stato più lungo della gamba. Agghindata come il folletto Puck del “Sogno di una notte di mezz’estate”, Magdalena Kožená vorrebbe convincerci di avere voce e personalità sufficienti per affrontare, seppure nel comodo spazio di un recital, personaggi del calibro di Sapho, Eboli, Carmen, Cléopâtre o Dulcinée. Purtroppo non è così.
Magdalena Kožená è una cantante garbata che ha dato buone prove in ambito settecentesco. Ha una voce di timbro chiaro caratterizzata da un leggero, piacevole vibrato e abbastanza insignificante nel registro grave, nel quale si avventura per fortuna con una certa cautela. Non è una virtuosa, né le sue esecuzioni sembrano esprimere una personalità interpretativa straripante; le cose migliori di questo disco sono i brani nei quali prevale una linea melodica di stampo elegiaco, che la Kožená dipana con indubbia grazia e con una tutto sommato accattivante propensione alla mestizia, rischiando però spesso di sconfinare nell’uniformità e nella noia. La sua Marguerite è di una fragilità disarmante, e questa può essere una cifra interpretativa possibile, ma ascoltata dopo la Marie di “Cinq-Mars” e prima di Mignon dimostra anche una fondamentale incapacità di differenziare brani, situazioni e personaggi.
Viene da chiedersi che significato hanno le scelte che hanno portato alla compilazione di questo programma. Questa Carmen in miniatura che cinguetta la chanson bohéme attenta a non cadere dai tacchi non ha nulla a che vedere non dico con le Carmen mangiauomini di una ormai lontana tradizione, ma neppure con quelle che negli ultimi decenni hanno recuperato il carattere Opéra Comique del personaggio. Vicino a Teresa Berganza, per fare un solo nome per nulla a caso, questa sigaraia prét-a-porter è solo una sciacquetta un po’ squinternata. Quanto alla “Chanson du voile” dal “Don Carlos”, chi ne ascoltasse ignaro l’attacco dopo le poche, sontuose battute dell’introduzione orchestrale, potrebbe pensare che la vera Eboli si è sentita male in quinta e al suo posto è stato buttato il paggio Thibault. Sulla stessa linea, naturalmente, la grande scena del suicidio di Sapho, cantata senza alcuna cognizione dell’accento, della pienezza di cavata, del legato senza i quali un brano come questo cala impietosamente a picco. Altro è difficile dire: dispiace liquidare in questa maniera il lavoro di due professionisti come la Kožená e Minkowski, ma francamente le ragioni di un’operazione di questo tipo mi sfuggono completamente. Non si tratta di sentirsi legati a una tradizione ritenuta immutabile: la recente storia discografica ci ha dato esempi di sconfinamenti di interpreti che, nello spazio di pochi brani isolati, hanno aperto strade interpretative del tutto inaspettate. Un esempio per tutti: il recital wagneriano di Joan Sutherland e Richard Bonynge, incompreso, da alcuni deriso ma straordinario per le prospettive interpretative che apriva anche se, è chiaro, nessuno si sarebbe mai
sognato di proporre per intero alla Sutherland i ruoli di Sieglinde, Isolde o Senta. Ma ciò non significa che chiunque possa cantare qualunque cosa. Soprattutto quando, come nel caso della Kožená, i mezzi sono quelli, piacevoli ma non straordinari, di una normale professionista. La musica ha delle ragioni che la ragione dell’interprete dovrebbe comprendere. Sempre.
Riccardo Domenichini