Requiem
Aggiunto il 07 Giugno, 2015
Ci si accorge di quanta acqua sia passata sotto ai ponti, dal punto di vista esecutivo, proprio ascoltando questa registrazione e facendo necessariamente l’odioso mestiere dei paragoni che svelano impietosamente quanto sia oggi improponibile un approccio come quello utilizzato in questi dischi.
Non è questione di essere anti-passatisti, o modernisti: dopotutto, gli estremismi non vanno mai bene in nessuna circostanza. È solo la banale considerazione che è finita un’epoca, e da un bel pezzo; e raramente capita che questo sia evidenziato così bene come in questa registrazione che pure, ancora oggi, gode di una certa qual fama presso gli appassionati. Si parla spesso di teatralità di questa partitura; ma quella che ascoltiamo qui è teatralità enfatica, da scontri Amneris-Aida di provincia, in una gara a scagliarsi in faccia tonnellate di voce come se fosse una guerra di stracci fra vajasse di cortile, soprattutto alla voce soprano, giacché la Stignani appare, quanto meno, più composta.
Ma andiamo per ordine e cominciamo dalla direzione. Nessuno discute sul solido mestiere e sul valore artistico di Tullio Serafin, uno dei più grandi direttori italiani (e non solo) di sempre, all’epoca sessantunenne e nel pieno fulgore della sua fama. Ma questo Requiem proprio non ha un’anima. D’accordo: è una registrazione calibrata sui 78 giri e quindi i tempi devono adattarsi a questa particolare necessità; ma tuttavia c’è qualcosa che non funziona e che si percepisce molto bene. I tempi sono genericamente “veloci”, ma non è la velocità di Toscanini: manca la polpa, lo spessore; manca soprattutto la tensione drammatica che, per un lavoro come questo è un peccato pressoché esiziale. A ciò concorre anche il coro, slentato e mancante di coesione, che canta per lo più tutto sul forte senza nessuna delle sfumature che abbiamo imparato ad amare in registrazioni più posteriori (non necessariamente a noi contemporanee: si consideri la registrazione di De Sabata 1954). Ma è comunque una direzione senz’anima, che sembra messa lì al servizio delle voci come se fosse quella di un battisolfa qualsiasi alle prese con una quinta replica di un’Aida da spedizione punitiva; e questo, pur essendo un inevitabile portato dell’epoca, è un fraintendimento totale del dettato verdiano che punterebbe sulla carta in altre direzioni.
E così, la teatralità della composizione è un pretesto per mettere in campo il cast di un’ipotetica Aida, i cui componenti si comportano come se si trovassero su un palcoscenico qualunque di quelli in cui interagivano. Manca solo Bechi, per dire, ma tutto il resto c’è.
La voce di Maria Caniglia, tuttora ricordata come una delle più eminenti drammatiche italiane dell’epoca, non c’entra veramente nulla con un ruolo Storz (sentirsi a tal proposito anche la sua Aida). Il modo in cui butta via il suo Requiem finale è imbarazzante, senza nemmeno accennare a un tentativo di sfumature.
Meglio di lei Ebe Stignani che, come dicevo, appare più composta nella turris eburnea del suo canto fermissimo; ma nemmeno la sua è una lettura francamente rivelatrice. Canta bene il suo Liber scriptus, ma butta via altri incisi importanti come per esempio l’Agnus dei, anche se più per colpa della tremenda Caniglia che per la mancanza di dinamiche.
Gigli, all’epoca quasi cinquantenne, viene ricordato moltissimo per questo Requiem. Di fronte alla vox populi chino reverente il capo, ma rimango a dir poco perplesso. Davvero non so che dire: fra singhiozzi da fare invidia ai protagonisti dei film di Raffaello Matarazzo e gli orridi falsettini spacciati per pianissimi, l’ascoltatore perde continuamente di vista la linea musicale che invece, di per se stessa, sarebbe fra le più belle di tutti i tempi. La tessitura dell’Ingemisco, al netto delle caccole di cui sopra, è dominata alla perfezione; ma l’attacco di Hostias, tutto al limite col falsetto, è veramente troppo femmineo per essere credibile. Infine, il vezzo di “consonantizzare” l’acca è particolarmente sgradevole: “mihi”, per esempio, diventa “michi” e fa un effetto involontariamente ridicolo. Mi sembra complessivamente una prova invecchiata molto male, ma rispetto la vulgata popolare e calo la mia opinione nei limiti della più ristretta soggettività.
Sicché il migliore della compagnia è il grandissimo Ezio Pinza, ancora oggi da salutare come un esempio di classe superiore per la purezza della linea di canto, per la morbidezza e la rotondità della cavata, per una voce di una bellezza immensa. Gusto sobrio e asciuttissimo e riservatezza nell’espressione, anche se dotata di uno scatto drammatico notevole, con la loro attualità, sono lì a dirci che non sempre l’interpretazione è un surplus riconducibile a un portato dell’epoca, da subordinare costantemente alla qualità dell’emissione. Ed è proprio il confronto con la bruciante modernità del canto del pressoché coevo Pinza a far risuonare quello di Gigli irrimediabilmente datato.
Rimasterizzazione di notevole qualità, come sempre nel caso dei lavori di Ward Marston; il suono, nella sua precarietà, è probabilmente il migliore possibile, ma è comunque pietoso se paragonato alle registrazioni anche live coeve provenienti, per esempio, dalla Germania; che pure era impegnata a invadere il mondo.
Per dire.
Pietro Bagnoli