L'Etoile di Jennifer Larmore
Aggiunto il 30 Aprile, 2008
Jennifer Larmore rende omaggio con questo recital al paese che nel 2002 l’ha nominata Chevalier des Arts et des Lettres. Il risultato è interlocutorio: se da un lato conferma in generale le qualità di una solida professionista che negli ultimi anni ha trovato una propria saggia collocazione discografica come membro di punta della scuderia di Opera Rara, dall’altra ne mette in luce quei limiti che le negano il passo nel novero delle fuoriclasse.
Il problema di fondo è la qualità del timbro. Mezzosoprano chiaro, il colore della voce di Jennifer Larmore è anonimo, privo del velluto e della sostanza che alcuni dei brani qui registrati richiederebbero, tendente all’inacidirsi in zona acuta e caratterizzato da quelle inflessioni adenoidee che alla fine ne diventano la cifra più riconoscibile. Con uno strumento di questa qualità, sicuramente più adatto per un repertorio più “leggero”, la Larmore non avrebbe dovuto cimentarsi in brani come le grandi arie di Dalila e di Sapho, per le quali il paragone con altre testimonianze discografiche è assolutamente improponibile. Non c’è nulla di veramente riprovevole nelle sue esecuzioni, ma nemmeno di memorabile. Quello che le manca è l’accento largo, la cavata indispensabile per certe linee melodiche, quel briciolo di enfasi che, ad esempio, rende così affascinanti alcuni recitativi dell’analogo recital di Vesselina Kasarova. L’addio di Sapho è più compitato che realmente sentito, e nel sostenere come può il lungo respiro della melodia la voce mette in evidenza un vibrato abbastanza fastidioso, che non è quello così intimamente legato al colore della voce della Kasarova, ma soltanto un segno di inadeguatezza. Limiti vocali e interpretativi penalizzano anche l’aria di Didon, che già di suo si muove, Berlioz mi perdoni, sul filo della noia e non è certo aiutata da un’esecuzione anodina.
Alla fine dei conti, gli errori veri nella produzione di questo disco sono stati fatti al momento della compilazione del programma. Certe scelte prevedibili avrebbero dovuto essere evitate, risparmiando in tal modo confronti sfavorevoli ed evitando allo stesso tempo l’ingresso della Larmore in territori vocali a lei per natura preclusi. Francamente stento a comprendere con quale logica essa abbia inserito nel disco l’aria di Auber che, oltre a non essere obiettivamente un capolavoro, fu scritta per un contralto autentico come Marietta Alboni e, per di più, gode già della testimonianza discografica di Marilyn Horne. Va senza dubbio riconosciuta alla Larmore la scorrevolezza dell’esecuzione e anche la buona volontà di proporre variazioni diverse da quelle della collega (cosa che dovrebbe essere la norma ma che non sempre si verifica), ma il confronto la vede perdente. Pur non essendo assolutamente un contralto, in una tessitura medio-grave come questa la Larmore dà tuttavia il meglio di sé, e anche se è fastidioso che tenda a schiacciare la voce nei passi di agilità di forza, le va riconosciuta un’ottima scioltezza nei passi vocalizzati. La realizzazione di una seconda registrazione di questo brano è però poco interessante e fa rimpiangere che sia stata persa l’occasione di inserire nel programma qualcosa di discograficamente veramente inedito.
Le cose migliori vengono quando la Larmore affronta personaggi meno coturnati psicologicamente e vocalmente. È sinceramente commossa nell’aria di Charlotte e, a dispetto di un grammo di leziosaggine di troppo, malinconica e sognante come Mignon. Decisamente buono anche “D’amour l’ardente flamme”, nonostante il tempo lentissimo attaccato da De Billy, che la Larmore saggiamente velocizza. Come insegnava il grande Quantz: “Se il cembalista che ti accompagna attacca a un tempo troppo lento, tu attacca a quello giusto: vedrai che ti seguirà”.
Il simbolo dell’oscillare di questo recital fra buono e meno buono è l’aria di Cendrillon: l’evidente modello di Frederica von Stade (che, da fuoriclasse qual era, produsse a suo tempo un analogo recital “francese” perfettamente calibrato sulla sua adorabile ma non certo onnipotente vocalità) si riflette in una esecuzione forse un poco caricata ma gradevolissima, che mette perfettamente a fuoco l’eccitazione della fanciulla fuggita precipitosamente dal ballo del principe. Nel finale dell’aria, però, i picchettati del “carillon du Beffroi” sono scombinati e incerti nell’intonazione e chiudono il brano lasciando se non l’amaro in bocca di sicuro una sensazione di qualcosa che manca al raggiungimento della vera soddisfazione.
Molto più che in questi terreni battuti da colleghe più provviste di lei della “quinta marcia” che contraddistingue le fuoriclasse, è nelle ignote lande degli affascinanti ripescaggi di Pacini e Mercadante intrapresi da Opere Rara che Jennifer Larmore ha la possibilità di lasciare il proprio segno di professionista coscienziosa e preparata. Questo disco nulla toglie a questa immagine, ma anche nulla aggiunge.
Riccardo Domenichini